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fu con quello che noi lo vedemmo per la prima volta a Torino nel 1859.

Soltanto la mattina del 5 maggio comparve sullo scoglio di Quarto colla camicia rossa e il poncho sulle spalle; e sia stato amore di quell' assisa fortunata o certezza che quella foggia si attagliasse meglio d'ogni altra alla sua figura, non l'abbandonò mai più.

Ma anche più che all'eleganza del vestire, tenne alla nettezza della persona. Usava frequente bagni e lavacri d'ogni sorte; aveva delle sue mani, de' suoi denti, de suoi capelli una cura attentissima; non avreste trovata sulle sue vesti, spesso logore e strappate, una sola macchia. Strano a dirsi come quel mozzo paresse un gentiluomo. Nel primo abbordo aveva quel non so che di semplice e decoroso insieme, che è il primo incantesimo con cui tutti i grandi uomini pigliano di solito i minori. Non dava che del voi; tenne il tu per i figli e per i più vecchi e più intimi amici; e fuori che al Re non l'abbiamo sentito dare del lei a chicchessia. Nel ricevere, porgeva egli per il primo famigliarmente la mano; alle signore, tanto più se onorande per età o per lignaggio, gliela baciava con galanteria di cavaliere.

Nei colloquj preferiva l'ascoltare al parlare, segno questo pure di cortesia aristocratica. Nelle cose minime, nelle questioni secondarie d'etichetta o di forma, quando si trattasse di rendere un servizio, di liberarsi da un fastidio o di concedere un favore, fosse colui che gli parlava ricco o povero, umile o potente, era d' un'amabilità e d'un'arrendevolezza affascinanti. E da ciò la sua troppa facilità nel concedere commendatizie ed attestati d'onestà e di patriottismo anche ai meno meritevoli, e l'abuso che tanti indegni poterono fare della sua parola e del suo nome. Ma in tutti gli argomenti a' suoi occhi importanti, quando fosse in giuoco alcuna delle sue opinioni predilette o degli affetti dominanti del suo cuore, allora il discorso cominciava a diventar difficile, e se l'interlocutore s'infervorava nelle obbiezioni, con una sentenza, un motto, talvolta una scrollata di spalle, troncava la disputa. Nel 1864 quando visitò Lord Palmerston in casa sua, avendo questi condotta la discussione sulla Venezia e tentato di fargli capire che la questione veneta era da rimettersi al tempo, alla Diplomazia, ai Trattati: «Ma che cosa mi dite, interruppe di scatto, chè non è mai troppo presto per gli schiavi rompere le loro catene, » e con una mossa subitanea piantò stupito e quasi a bocca aperta il suo eloquente contradittore.

E ciò sganni una buona volta coloro che, non sappiamo con quali fini, si son sempre finti un Garibaldi automa senza idee e senza volontà, e di cui i pochi furbi che l'accostavano potevano a lor grado guidare i movimenti e far scattare le molle. Delle idee ne aveva poche, ma tanto più te

naci quanto più avevano trovato libero il campo dello spirito in cui abbarbicarsi. Discutere con lui era anche per quelli che più stimava ed ascoltava, la più ardua e più erculea delle imprese. Era una sfera d'acciaio brunito, che non lasciava presa d'alcuna parte. Francesco Crispi, nel di ini elogio funebre alla Camera dei Deputati, disse: «Non ci fu uomo che sia stato come lui forte nelle sue volontà; egli fece sempre soltanto quello che volle, ma non volle che il bene d'Italia: » e questa affermazione d'un testimonio, che gli fu al fianco nei più gravi momenti della patria, ci dispensa dal dirne di più.

Le maniere gentili traevano risalto dai costumi semplici. Pochi uomini più di lui furono nel bere più sobrj, nel cibo più parchi. Fino agli ultimi anni, in cui il vino gli fu ordinato quasi per medicina, bevette sempre acqua, e dell'acqua migliore si pretendeva buon gustaio finissimo, e l'assaporava, e la decantava talvolta ai commensali, che non erano sempre del suo gusto, come il più prelibato de'nettari. Quanto alle vivande, mangiava poca carne, anche per un residuo di scrupoli pittagorici che non aveva mai saputo vincere; prediligeva il pesce, i frutti e i legumi. Un piatto di fichi e di baccelli lo metteva d'appetito meglio d'un fagiano tartufato! Il pesce godeva, quand' era sano, pescarselo da sè; e allora due o tre volte la settimana, al pallido lume di Venere-Diana, presi seco or l'uno or l'altro de' suoi figli e per turno questo o quello de' suoi compagni di Caprera (quasi sempre, nel 1854, anche lo scrittore di questo libro), scendeva in canotto, ed ora al largo, ora nei seni più pescosi di quella pescosissima marina, passava tal volta coll' amo, tal altra coi filaccioni, quasi mai colle reti, l'intera mattinata, tornandone, rare volte, a mani vuote, quasi sempre con tanto di preda da fornire il desinare a lui e a tutta la colonia.

Ma la sua passione predominante fu l'agricoltura, « Di professione Agricoltore,» scriveva egli stesso sulla scheda del Censimento del 1871, e non aveva mentito. Un terzo della Caprera fu ridotto fruttifero per molta parte del lavoro sudato dalla sua fronte, o colla scorta de suoi precetti e per impulso della sua volontà.

La prima sua opera era stato un vigneto sopra un piccolo altipiano, a metà via tra la sua casa e Punta Rossa, ma quantunque l'uva, tutta bianca, ne fosse squisita, la vendemmia non compensò mai la fatica e la spesa. Più tardi, già preoccupato del problema del pane quotidiano, volle tentare la coltura dei cereali, e ridusse a frumento un quadrato di forse quattro ettari; ma qui pure, per colpa, non del cultore ma del terreno, il frutto non corrispose aldispendio.

Ma il suo vero amore, era il podere modello di Caprera, era il Fontanaccio. Esso pure, fino dal 1850, non era che

dura roccia, e d'anno in anno ci fece la vite, il fico, il pesco, il mandorlo, il fico d'India, e, sebben più sensibili alle sferzate di grecaio, gli agrumi.

E colà ogni mattina, per lunghi anni, coperto il capo da un cappellone a larghe falde, in camicia rossa sempre, armato di coltelli e di forbici agricole, di cui gran parte portava appesi ad una cintura, passava le lunghe ore a potare, sfrondare, innestare; lieto fin che lo lasciavano solo, rannuvolato tostamente se un visitatore importuno, se un telegramma malarrivato, venivano ad interrompergli il piacere di quelle gradite occupazioni.

Ne agiva empiricamente. Nella sua biblioteca i Trattati d'Agronomia abbondavano, e parte col sussidio dei libri, parte col consiglio di questo o quell' agronomo, che metteva subito nel novero de' suoi amici, parte coll' aiuto del suo ingegno, naturalmente incline a tutti gli studj fisici, s'era formato un corredo di idee scientifiche e razionali, che certo molti de' più grossi agricoltori d'Italia non hanno mai posseduto.

Epperò fece venire d'Inghilterra macchine agricole, apri fosse di scolo per dar esito alle acque piovane, sanò dalle sotterranee i terreni più plastici, sostituì alla rotazione dodicennale la coltura più intensiva delle alberate e degl'ingrassi, e agli ingrassi provvide coll'allevamento del bestiame; (ebbe persino centocinquanta capi di armento bovino e quattrocento d'ovino); a poco a poco forni quel suo podere, strappato zolla per zolla alla breccia ed al granito, di tutto quanto la scienza ha indicato di più acconcio alla sua coltura; e stalle e concimaie e capanni per marcimi e lettimi, e colombaie e alveari e via dicendo; e si rovinò del tutto. Garibaldi non fu mai ricco; ma i suoi pochi risparmj fatti in America, le eredità fatte dai fratelli, i denari ricavati dai ricchi regali mandatigli, i denari stessi donatigli o prestatigli dagli amici di tutto il mondo; tutto andò a finire nel pozzo senza fondo di Caprera, che non restitui mai al suo innamorato cultore nemmeno il salario quotidiano delle fatiche, che per circa venti anni le aveva spese d'attorno.

Ma il gusto della vita solitaria stringe l' uomo a tutto ciò che lo attornia, e l'amore della natura lo inclina ad amare tutto ciò che essa produce. Da ciò quella gentilezza d'affetto, che il nostro Eroe ebbe sempre per le piante, gli animali, per tutti gli esseri coi quali, per una ragione o per l'altra, si trovò a contatto o convisse. E l'estremo episodio delle due capinere è troppo recente e vivo nella memoria, perchè sia mestieri addurlo per una prova di più. Soltanto egli si rendeva conto di questo suo sentimento: nell' arcano fascino che esercitava su di lui la natura, cercava una dottrina, anzi una fede; nell' amorosa corrispondenza, che sentiva correre tra lui e le cose, scopriva una prova che le cose stesse fossero dotate d'un' anima pari alla sua, raggio

a sua volta dell'anima dell' universo, e nella quale, traendo facilmente le ultime illazioni da questa specie di panteismo sentimentale, sentiva e adorava Dio.-(Dal Garibaldi, II, p. 638 e segg.)

BERNARDINO ZENDRINI. Nacque in Bergamo il 6 luglio 1839, figlio ad Andrea, uno dei condannati politici del 1821. Studiò a Zurigo e si laureò in legge a Pavia. Insegnò lettere a Bergamo, a Como e a Ferrara. Nel '65 pubblicò a Milano la traduzione del Canzoniere di Heine, che riprodusse poi in gran parte rifatta (4 ediz., Milano, Hoepli, 1884, 2 vol.). Nel '67 fu inviato a Padova ad insegnarvi nell' Università lingue e letterature germaniche. Nel '71 mandò a luce un volume di Prime poesie (Padova, Gianmartini). Parecchi articoli di critica inseri nella Nuova Antologia e in altri periodici, notevole fra gli altri quelli su Enrico Heine e i suoi interpreti (N. Antol., dec. 1874, genn., febbr., aprile 1875). Nel '76 fu tramutato da Padova a Palermo, assumendovi l'insegnamento delle lettere italiane (Prelezione al corso, letta l'8 febbraio '76) e ivi inaugurò gli studj universitarj con un Discorso sulla lingua italiana, in cui difese con calore ed acutezza le dottrine manzoniane (Palermo, Pedone, 1876). Mori immaturamente a Palermo ai 2 agosto 1879. T. MASSARANI ne raccolse gli Scritti (Milano, Ottino, 1881-83) e il prof. G. Pizzo, premettendovi uno studio, ne pubblicò l'Epistolario (Milano, Hoepli, 1886).

{V. su di lui E. ZERBINI, Commemorazione letta all'Ateneo di Bergamo, Bergamo, Gaffuri e Gatti, 1879; C. Pizzo, nella Nuova Antologia, 15 agosto 1880; T. MASSARANI, B. Z. nella vita e nelle lettere, in Saggi critici, Firenze, Le Monnier, 1884, p. 231.]

I due tessitori.

Dell' opra di tua man che mai non resta
Dalla mia cameretta odo il rumore,

Solingo tessitore,

E il canto odo talor che gli si sposa.

Di mia vita è codesta

La modesta armonia regolatrice,

E s'ella ammutolisse (il cuor mel dice)

Mi mancheria qualcosa.

Da me suono o sentor non ti vien mai,

Da che il mio nido è muto;

Nè m'hai veduto;

Nè chi son io tu sai. Ma quando poco

Al fervor che ti punge,

O al tuo cómpito è il giorno,

E tanta parte della notte vegli:

Allor che ogni altro lume è spento intorno,
E solo un chiaror fioco

Di lucernetta appare ai vetri miei:

Tu dall' imaginar certo sei lunge

Che il tuo vicin che veglia teco è anch' egli Assiduo tessitor come tu sei.

Anch' egli è tessitore :

Era fanciullo ancor, gracil fanciullo,
Quando venne il signore,

E severo rimosse ogni trastullo,
E il lavoro sottil gl'intelaiando
La spola in man gli diede,

E il compito prescrisse. E da quell'ora
Al suo telaio del pensiero ei siede;
E se bene il tessuto a quando a quando
D'una lagrima irrora,

Rassegnato ei lavora, e non si lagna;
Lavora rassegnato:

Quando non scerni ai vetri il noto lume
O lo vedi sparir pria del costume,
Il tessitor compiangi: egli è malato.
Del suo destino oh quanto

È il tuo più invidiabile, più bello,

O tessitor fratello!

Tu in cor non l'hai, ma sulle labbra, il canto. Opra la man soltanto,

E al moto di tua man non s'accompagna

L'inconscio tuo pensier; mentre la spola

Discorre affaccendata,

A la sposa adorata il pensier vola,

All' umil famigliola,

Al di che la fornita opra ti frutti

La dolce lode e l'utile mercede,

Ei vola ai di festivi,

Ai di del tuo riposo: ivi s'arresta.
Ma i giorni del poeta

Sacri al lavor son tutti,

Nè mai spunta per esso il dì di festa.
Riposo ei non avrà che nell' avello,

O tessitor fratello, e nemmen ivi
Se, non gli dando tregua,

Ivi ancor lo persegua il suo pensiero.
La mercede tu l'hai,

Ma la sua non è mai lode o moneta.
Sol talor, della notte nel mistero.
Quando soave tanto è la fatica,
Quando la poesia sgorga più piena,
E di più facil vena:

Gli par vedere o vede
Un'ombra, un'ombra amica,

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