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le otto e tre quarti quando sono la campana del Maggior Consiglio, ed io m'avviai verso la scala dei Giganti. Per quanto avessero fretta i signori Nobili di commettere il gran matricidio, le delizie del letto non consentirono che si anticipasse più d'un quarto d'ora sul solito orario. I comparsi furono cinquecento trentasette; numero illegale, giacchè per inviolabile statuto ogni deliberazione che non si fosse discussa in un' adunanza di almeno seicento membri, si considerava illegittima e nulla. La maggior parte tremava di paura e d'impazienza; avevano fretta di sbrigarsi, di tornare a casa, di svestir quella toga, omai troppo pericolosa insegna d'un impero decaduto. Alcuni ostentavano sicurezza e gioja; erano i traditori: altri sfavillavano d'un vero contento, d'un orgoglio bello e generoso pel sacrifizio, che cassandoli dal libro d'oro li rendeva liberi e cittadini. Fra questi io ed Agostino Frumier sedevamo stringendoci per mano. In un canto della sala, venti patrizi al più stavano ravvolti nelle loro toghe, rigidi e silenziosi. Alcuni vecchioni venerandi, che non comparivano da più anni al Consiglio, e vi venivano quella mattina ad onorare la patria del loro ultimo e impotente suffragio; qualche giovinetto fra loro, qualche uomo onesto che s'inspirava dai magnanimi sentimenti dell' avo, del suocero, del padre. Mi stupii non poco di vedere in mezzo a questi il Senatore Frumier e il suo figlio primogenito Alfonso; giacchè li sapeva devoti a San Marco, ma non tanto coraggiosamente, come mi fu chiaro allora. Stavano uniti e quasi stretti a crocchio fra loro; guardavano i compagni non colla burbanza dello sprezzo, nè col livore dell'odio, ma colla fermezza e la mansuetudine del martirio. Benedetta la religione della patria e del giuramento! La essa risplendeva d'un ultimo raggio senza speranza, e tuttavia ripieno di fede e di maestà. Non erano gli aristocratici, non erano i tiranni né gli inquisitori; erano i nipoti dei Zeno e dei Dandolo, che ricordavano per l'ultima volta alle aule regali le glorie, i sacrifizj e le virtù degli avi. Li guardai allora stupito ed ostile; li ricordo ora meravigliato e commosso; almeno io posso ridere in faccia alle storie bugiarde, e non evocare dall' ultimo Maggior Consiglio di Venezia una maledizione all'umana natura.

In tutta la sala era un sussurrío, un fremito indistinto; solo in quel canto oscuro e riposto regnavano la mestizia e il silenzio. Fuori il popolo tumultuava; le navi che tornavano dal disarmamento dell' estuario, alcuni ultimi drappelli di Schiavoni che s'imbarcavano, le guardie che contro ogni costume custodivano gli aditi del palazzo ducale, tutti presagi funesti. Oh è ben duro il sonno della morte, se non si svegliarono allora, se non uscirono dai loro sepoleri gli eroi, i dogi, i capitani dell' antica Repubblica!...

Il Doge salzò in piedi pallido e tremante, dinanzi alla

sovranità del Maggior Consiglio di cui egli era il rappresentante, e alla quale osava proporre una viltà senza esempio. Egli avea letto le condizioni proposte dal Villetard per farsi incontro ai desiderj del Direttorio Francese, e placar meglio i furori del generale Bonaparte. Le approvava per ignoranza, le sosteneva per dappocaggine, e non sapeva che il Villetard, traditore per forza, aveva promesso quello che nessuno aveva in animo di mantenere: Bonaparte meno di tutti gli altri. Lodovico Manin balbettò alcune parole sulla necessità di accettare quelle condizioni, sulla resistenza inutile, anzi impossibile; sulla magnanimità del general Bonaparte, sulle lusinghe che si avevano di fortuna migliore per mezzo delle consigliate riforme. Infine propose sfacciatamente l'abolizione delle vecchie forme di governo, e lo stabilimento della democrazia. Per la metà di un tale delitto Marin Faliero era morto sul patibolo; Lodovico Manin seguitava a disonorare coi suoi balbettamenti sé, il Maggior Consiglio, la patria, e non vi fu mano d'uomo che osasse strappargli dalle spalle il manto ducale, e stritolare la sua testa su quel pavimento, dove avevano piegato il capo i, ministri dei Re e i legati dei Pontefici! lo stesso ne ebbi pietà; io che, nell'avvilimento e nella paura d'un Doge, non vedeva altro allora che il trionfo della libertà e dell' eguaglianza.

Tutto ad un tratto rimbombano alcune scariche di moschetteria i Doge si ferma costernato, e vuol discendere i gradini del trono; una folla di patrizj spaventata se gli accalca intorno gridando: alla parte! ai voti! Il popolo urla di fuori; di dentro crescono la confusione e lo sgomento. Sono gli Schiavoni ribelli! (gli ultimi partivano allora, e salutavano con quegli spari l'ingrata Venezia). Sono i sedici mila congiurati! (i sogni di Lucilio). E il popolo che vuole sbramarsi nel sangue dei nobili! (Il popolo nonchè preferire l'obbedienza a que' nobili alla più dura servitù che lo minacciava, amava anzi quell'obbedienza e non voleva dimenticarla). Insomma fra le grida, gli urti, la fretta, la paura, si venne al suffragio. Cinquecento dodici voti approvarono la parte non ancor letta, che conteneva l'abdicazione della nobiltà, e lo stabilimento d' un Governo Provvisorio Democratico, semprechè s'incontrassero con esso i desiderj del general Bonaparte. Del non aspettarsi da Milano i supremi voleri del medesimo, e il trattato che si stava stipulando, davasi per motivo l'urgenza dell'interno pericolo. Venti soli voti si opposero a questo vile precipizio; cinque ne furono di non sinceri. Lo spettacolo di quella deliberazione mi rimarrà sempre vivo nella memoria: molte fisonomie che vidi allora in quella torma di uomini avviliti, tremanti, vergognosi, le veggo anche ora dopo sessant' anni con profondo avvilimento. Ancora ricordo le sembianze cadaveriche sformate di alcuni, l'aspetto smarrito e

come ubriaco di altri, e l'angosciosa fretta dei molti che si sarebbero, cred' io, gettati dalle finestre per abbandonare più presto la scena della loro viltà. Il Doge corse alle sue stanze svestendosi per via delle sue insegne, e ordinando che si togliessero dalle pareti gli apparamenti ducali; molti si raccoglievano intorno a lui, quasi a scordare il proprio vitupero nello spettacolo d'un vitupero maggiore. Chi usciva in piazza avea cura prima di gettare la parrucca e la toga patrizia. Noi soli, pochi e illusi adoratori della libertà in quel pecorame di servi (eravamo cinque o sei) corremmo alle finestre e alla scala gridando: — Viva la liberta! - Ma quel grido santo e sincero fu profanato poco stante dalle bocche di quelli, che ci videro una caparra di salute. Paurosi e traditori si mescolarono con noi; il romore, il gridio cresceva sempre; io credetti che un puro e generoso entusiasmo trasformasse quei mezzi uomini in eroi, e mi precipitai nella piazza, gettando in aria la mia parrucca urlando a perdifiato:- Viva la libertà! Il generale Salimbeni, appostato con qualche altro cospiratore, s'era già messo a strepitare in mezzo al popolo eccitandolo al tripudio e al tumulto. Ma la turba gli si scaglio contro furibonda, e lo costrinse a gridare:- Viva San Marco! - Quelle nuove grida soffocarono le prime. Molti, massime i lontani, credettero che la vecchia Repubblica fosse uscita salva dal terribile cimento della votazione. Viva la Repubblica! Viva San Marco fu una sola voce in tutta la piazza gremita di gente; le bandiere furono inalberate sulle tre antenne; l'immagine dell' Evangelista fu portata in trionfo; e un'onda minacciosa di popolo corse alle case di quei patrizi, che erano in voce d'aver congiurato per la chiamata dei Francesi. In mezzo alla folla, incerto, confuso, diviso dai compagni, m'incontrai in mio padre e in Lucilio, forse meno confusi ma più avviliti di me. Essi mi presero fra loro e mi trascinarono verso la Frezzeria. Quei pochi patrizj, che aveano votato per l'indipendenza e la stabilità della patria, ci passarono rasente colle loro lunghe parrucche, colle loro toghe strascicanti. Il popolo faceva largo senza improperj. ma senza plauso. Lucilio mi strinse il braccio. Li vedi?-mi bisbigliò all'orecchio - il popolo grida: Viva San Marco! e non ha poi il coraggio di portare in trionfo, e di crear Doge uno di questi ultimi e degni padroni che gli restano!... servi, servi, eternamente servi (Dalle Confessioni di un Ottuagenario, II, 36 e segg.)

GIUSEPPE GUERZONI. Nacque in Mantova ai 27 febbraio 1835: si laureò a Padova, ma più che di studj, si occupò di politica e due volte dovè riparare in Piemonte. Nel '59 si arrolò con Garibaldi, fu ferito a San Fermo e si guadagnò le spalline: fece parte

dell' esercito toscano, e poi nel '60 salpò coi Mille, fece tutta la campagna e ne uscì col grado di maggiore. Si diede allora al giornalismo, e fu tra i più avanzati. Depretis ministro lo fece suo segretario particolare; ma dopo Sarnico, ei si dimise e si trovò di nuovo con Garibaldi in Sicilia e ad Aspromonte. Il generale lo mandò poi in Oriente con missione segreta, indi lo tenne come suo segretario, e lo condusse seco a Londra. Per un malinteso nato fra essi, il Guerzoni abbandonò il generale nel 1864. Entrò, colle elezioni del 1865, alla Camera, ove siedè a sinistra dalla IX alla XI legislatura, staccandosi per ultimo dagli antichi compagni. Con Garibaldi tornò nel '66, dissipata ogni nube fra loro, ma non si battè, causa una caduta da cavallo; partecipò tuttavia nel 1867 all' irruzione nell'agro romano, andando a Roma, che cercò far insorgere, e fallito il tentativo, raggiunse il suo duce a Monterotondo. Nel '70 prese parte, col Bixio, all' occupazione di Roma. Lasciò la politica nel '74, andando a Palermo, professore di lettere italiane in quell'università: e l'anno appresso fu trasferito a Padova, ove mori il 25 novembre 1886.

Scrisse molto e forse troppo, e troppo frettolosamente; nulla diremo di tanti Discorsi e Saggi (raccolti col nome di Lettere ed Armi in 2 vol., Milano, Brigola, 1883), nè di tanti articoli sparsi nei giornali, e specialmente nella Nuova Antologia, nè dei romanzi, e neanche di alcuni lavori di storia letteraria, messi a stampa ancora immaturi (Il Teatro italiano del secolo XVIII, Milano, Treves, 1876; Il terzo Rinascimento, Verona, Drucker, 1877; Il primo Rinascimento, Verona, Drucker, 1878): ci piace piuttosto rammentare la Vita di Nino Bixio (Firenze, Barbèra, 1875) e meglio ancora la Vita di Garibaldi (ibid., 1882), che è veramente il suo lavoro capitale, rilevantissimo per la materia, e scritto con intelletto ed

amore.

[Per la biografia, v. V. CRESCINI, Commemorazione di G. G., letta nell' Univ. di Padova, Padova, Randi, 1887.]

Garibaldi nella vita privata. - Garibaldi fu tale, che se anche non avesse compiuto alcuna delle azioni famose per cui diventò storico, sarebbe stato tuttavia un esemplare singolarissimo della specie umana, degno di tutto lo studio dello psicologo e dell'artista. Il biondo fanciullo, che dipingemmo scorrazzante sulla riviera di Nizza; il bel Corsaro, che vedemmo ammaliare la povera Anita alla fontana di Laguna; il trionfante Dittatore del 1860, che al suo apparire faceva squittire in coro le picciotte siciliane: Oh quant'è beddu!, aveva serbato fino agli ultimi anni la sua maschia bellezza, una bellezza però tutta sua, lontana dal tipo comune della bellezza eroica e guerriera; originale e novissima essa pure.

Perocchè Garibaldi non poteva dirsi un « bell'uomo,» nel senso più usitato della parola. Era piccolo: aveva le gambe leggermente arcate dal di dentro all' infuori, e nemmeno il busto poteva dirsi una perfezione. Ma su quel corpo, non irregolare nè sgraziato di certo, s'impostava una testa superba; una testa che aveva insieme, secondo l'istante in cui la si osservava e il sentimento che l'animava, del Giove Olimpico, del Cristo e del Leone, e di cui si potrebbe quasi affermare che nessuna madre partori, nessun artista concepi mai l'eguale. E quante cose non diceva quella testa; quanto orizzonte di pensieri in quella fronte elevata e spaziosa, quanti lampi d'amore e di corruccio in quell'occhio piccolo, profondo, scintillante; che marchio insieme di forza e d'eleganza in quel profilo di naso greco, piccolo, muscoloso, diritto, formante colla fronte una sola linea scendente a perpendicolo sulla bocca ; quanta grazia e quanta dolcezza nel sorriso di quella bocca, che era certo, anche più dello sguardo, il lume più radioso, il fascino più insidioso di quel viso, e che nessuno oramai il quale volesse serbare intera la libertà del proprio spirito, poteva impunemente mirar davvicino!

A questa singolar bellezza poi, che era già per sè sola una potenza, la natura, madre parzialissima a questo suo beniamino, aggiunse l'agilità e la forza; non veramente la forza muscolare dell'atleta, ma quella particolare forza nervosa, che si rattempra e ingagliardisce coll' esercizio e che, associata all' agilità, rende capace il corpo delle più ardue prove e delle più arrischiate ginnastiche.

E che ginnasta fosse Garibaldi lo sappiamo da lui stesso. << Credo d'essere nato anfibio,» soleva dire per esprimere la facilità con cui fin dalla prima volta in cui si buttò in acqua, si trovò naturalmente a galla. Abbiamo notato infatti le persone da lui salvate dall' acqua, e sono sedici: il che potrebbe bastare, anche non essendo Garibaldi, alla rinomanza d'un uomo.

E come nuotava, cavalcava, saltava, s'arrampicava, tirava di carabina, di sciabola, occorrendo di pugnale, senza che nessuno gliel'avesse mai insegnato, e avendone trovato soltanto nella struttura delle proprie membra e negli istinti della propria indole, il segreto è la maestria !

Del suo corpo poi, come uomo che sa d'averne bisogno, era curantissimo. Egli non vestì sempre il costume con cui il mondo s'abituò a vederlo fin dal 1860. In America alternò, secondo i casi, il vestire paesano del gaucho, la giacca del capitano di mare, e l'uniforme bianca, rossa e verde della Legione Italiana; venuto in Italia, se non era sotto le armi, nel qual caso tornava alla tunica rossa orlata di verde (non camicia per anco), al cappello piumato a larghe falde, al mantello bianco ed ai calzoni grigi instivalati, indossava un grosso soprabito abbottonato sino al mento, e

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