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gherò io. Ella sa dove sto di casa; venga, e sur un registro apposta ella scriverà la somma che le occorre, e metterà la sua firma di ricevuta; e quando avrà ordinazioni e lavori, i quali non le possono mancare, e avrà denari d'avanzo, la restituirà i denari che io le ho messi fuori. E zitto; non voglio assolutamente essere ringraziato: prima di tutto perchè io non intendo di regalare nulla, e poi perchè nella proposizione che io le fo, ci ho il mio tornaconto: voglio poter ridere sul viso a quella canaglia, che oggi rideva di lei, e anche di me, perchè io affermava che l'avevo veduto lavorare. Dunque, vede che son parte interessata anch'io: perchè senza spendere un soldo mi piglio una rivincita, che con tutti i miei denari non potrei mai ottenere. Ed ora, caro sor Giovanni, a rivederla; l'aspetto per darle il denaro che le occorre; faccia presto, stia di buon animo, e mi tenga pel suo più sincero amico. - (Dai Ricordi autobiografici, cap. VI.)

FRANCESCO DE SANCTIS. Nacque a Morra Irpina (Principato ultra) ai 28 marzo 1817. Studiò a Napoli, prima sotto la guida di uno zio, poi col march. Puoti, il cui metodo giudicò rigorosamente nello scritto l'Ultimo dei Puristi, ma della persona parlò con affetto e riconoscenza in più luoghi del suo Frammento autobiografico. Col patrocinio del Puoti ebbe nel '37 una cattedra nel collegio militare della Nunziatella: ajutava intanto il maestro, finchè, senza staccarsi del tutto da lui, verso il 1840 aprì, come allora costumavasi a Napoli, uno studio privato, ove accorsero i migliori e più ingegnosi giovani della città e di fuori. La lor mente egli andava via via ampliando, chiamandoli a studiar non la parola in sè, ma « la parola fatta cosa », illustrando i capolavori letterarj d'ogni tempo e d'ogni nazione, ed educando gli alunni tanto alla sincerità dello scrivere, quanto all'onestà della vita e al devoto amore d'ogni cosa buona. Era veramente maestro nato », e fu infatti professore eccellente. Il 15 maggio 1848 fu arrestato per la via; liberato, riparò presso un amico in Cosenza, ma nel decembre del 1850 venne preso e condotto a Napoli in Castel dell' Uovo: e domandatogli se voleva un libro, chiese una grammatica tedesca, imparò la lingua, e tradusse il Manuale della storia della Poesia del Rosenkranz (Napoli, Vaglio, 1852-4, 2 vol.). Nelle distrette del carcere alzò un inno alla libertà del pensiero col carme La Prigione (Torino, Benedetto, 1853). Senza che mai gli fosse fatto processo, nel 1852 venne imbarcato e lasciato a Malta, donde passò in Piemonte. A Torino diede (1854-55) un applaudito corso di lezioni su Dante. Scrisse nel Cimento, nella Rivista contemporanea, nel Piemonte; e i lavori inseriti ne' due primi periodici, che sono forse i più belli usciti dalla sua penna, si ritrovano nel volume di Saggi critici (Napoli, Morano, 1a edizione, 1866, 2a con aggiunte, 1869): quelli del terzo furono raccolti da V. IMBRIANI nel volumetto

Scritti critici (Morano, 1866). Dal '56 al '59 fu professore di lettere italiane a Zurigo, e vi fece un corso sul Petrarca, che poi riordinò e compiè col titolo di Saggio critico sul Petrarca (Morano, 1869). Tornato a Napoli nel 1860, fu fatto da Garibaldi governatore della provincia di Avellino, e poi ministro della pubblica istruzione. Eletto nel '61 deputato, appartenne a tutte le successive legislature, sedendo al centro sinistro del Parlamento fu uno de' segretarj nel '61, e vice-presidente nel '62, '77 e '81, e vi pronunciò elevati discorsi, soprattutto desiderando e procurando che il Parlamento e il paese fossero purificati dai mali elementi; ma nel '76 provò a suo danno, abbandonato dagli antichi elettori suoi, come gli interessi men nobili prendessero il di sopra; e la sua delusione narrò nel Viaggio elettorale (Morano, 1876). Il conte di Cavour ai 21 marzo 1861 lo chiamò al ministero della pubblica istruzione, e disse averlo prescelto per esser egli il solo napoletano, nelle cui lodi avesse trovato unanimi i deputati meridionali. Duro ministro anche nel gabinetto Ricasoli, fino al 3 marzo 1862. Fondò poi a Napoli col Settembrini l'Associazione unitaria e il giornale L'Italia (1863-67), in cui scrisse sovente. Nel '71 ebbe a Napoli la cattedra di letterature comparate, cui preluse col discorso La Scienza e la Vita (Morano, 1872). Feconda fu l'opera sua letteraria in questi anni: collaborò nella Nuova Antologia, e la più parte degli scritti ivi inseriti formano il volume dei Nuovi saggi critici (Morano, 1872; 2a ediz., con aggiunte, 1879): mise a luce anche una Storia della letteratura italiana (Morano, 1870-72, 2 vol.), che è come la somma dei suoi studj sui maggiori scrittori italiani, e in che rifuse ciò che di molti di essi aveva sparsamente scritto, ma alla quale manca la continuità della tela storica. Fu nuovamente ministro nel gabinetto Cairoli dal 24 maggio al 19 decembre 1878, e ancora un'altra volta, dal 25 novembre 1879 al gennaio 1881. Afflitto da dolorosa malattia, mori a Napoli il 29 decembre 1883, e gli furono resi solenni onori. Le voci di compianto dei discepoli e ammiratori, fra i quali DE MEIS, VILLARI, FIORENTINO, MARSELLI, raccolse M. MANDALARI in un volume In memoria di Francesco De Sanctis (Morano, 1884), e nell' '89 gli fu eretto un busto nell' atrio dell' università. Dopo la sua morte R. BONARI stampò di lui un inedito Studio su G. Leopardi (Morano, 1885) e P. VILLARI La giovinezza di F. D. S., frammento autobiografico (v. F. COLAGROSSO, Studj di letter. ital., Verona, Tedeschi, 1892, p. 233), dalle sue Memorie rimaste incompiute (Morano, 1889).

Il De Sanctis fu creatore di un'alta forma di critica, che tutta è cavata dalla sua mente e dalla considerazione della realtà delle cose. Come egli vi si innalzasse da quei metodi e quelle norme, che aveva appreso alla scuola del Puoti, e che pur egli stesso lungo tempo insegnò, si vede dalle sue Memorie. Il contatto coi giovani, l'animo devoto al vero, la libertà naturale del suo spirito, l'abito meditativo, gli fecer trovare cotesta nuova forma di critica; e la scuola,

ch'era suo tormento e sua delizia, dov'ei « spremeva il miglior sugo del suo cervello », fu, a così dire, il laboratorio dove la creò e la sperimento. Prese, è vero, l'impulso dalle dottrine hegeliane, che in piccola parte aveva delibato, ma le compì e quasi le divino, rifecondandole nella sua mente, e in parte scostandosene; fece di suo, e resta inimitabile, e chi ha voluto imitarlo, ne ha per lo più fatto la caricatura; dacchè per riuscire simile a lui, bisognerebbe averne l'ingegno veramente penetrativo, e al pari di lui scorgere il pensiero intimo di un autore, nel momento stesso della creazione artistica, e dell'opera presa ad esame saper, come lui, raccogliere in unità organica gli sparsi tratti caratteristici. Ben però è vero che le cose sue ultime son qualche volta impigliate in un frasario di convenzione sazievolmente ripetuto, nè sempre chiaro: laddove le prime scritture sono di getto e limpide come la parola parlata, nella quale il De Sanctis fu sommo; e chi ha udito le sue lezioni di Torino e di Napoli ne porta incancellabile memoria. In esse per lunga meditazione sull'argomento, nel quale tutto si trasferiva e quasi si profondava, la parola erompeva fuori come per subita ispirazione, con schiettezza e lucidità, e con efficacia veramente rappresentativa; ed è gran peccato che del corso dantesco non restino se non alcuni frammenti bellissimi stampati nei Saggi, su Francesca da Rimini, Pier delle Vigne, Farinata, Ugolino, ec. Gli argomenti trattati dalla critica del De Sanctis appartengono alla letteratura moderna, italiana e straniera; forse pel modo come egli dovè fare gli studj, o per difetto di un solido fondamento di cultura classica, o anche perchè in tal guisa credesse meglio giovare al rinnovamento del pensiero italiano, non si esercitò punto sulle letterature antiche; ma quanto profonda e sicura fosse in lui l'intelligenza della letteratura e del pensiero moderno, ciò ch'ei discorse con novità e altezza di giudizj del Manzoni e del Leopardi, basta ad attestarlo.

[V. su di lui, oltre gli scritti cit., FR. TORRACA, Per Fr. D. S. in Saggi e Rassegne, Livorno, Vigo, 1885, p. 382; P. FERRIERI, Fr. D. S. e la critica letteraria, Milano, Hoepli, 1888; G. BARZELLOTTI, in Studj e ritratti, Bologna, Zanichelli, 1893, p. 177; P. VILLARI, Fr. D. S. e la critica in Italia, in Scritti vari, Bologna, Zanichelli, 1894, p. 173; B. CROCE, La critica letteraria, Roma, Loescher, 1895.]

L'Ugolino di Dante.

Ugolino è personaggio compiutamente poetico, che può manifestarsi in tutta la ricchezza della sua vita interiore.

Già in pochi tratti il poeta ha abbozzata questa colossale statua dell' odio, di un odio che rimane superiore a quel segno bestiale, che già ha fatto tanta impressione in Dante. Ma in seno all'odio si sviluppa l'amore, e il cupo e il denso dell'animo si stempra ne' sentimenti più teneri. Quest'uomo

odia molto, perchè ha amato molto. L'odio è infinito, perchè infinito è l'amore, e il dolore è disperato, perchè non c'è vendetta uguale all' offesa. Tutto questo trovi mescolato e fuso nel suo racconto, non sai se più terribile o più pietoso. Accanto alla lacrima sta l'imprecazione; e spesso in una stessa frase c'è odio e c'è amore, c'è rabbia e c'è tenerezza l'ultimo suono delle sue parole, che chiama i figli, si confonde con lo scricchiolare delle odiate ossa sotto a' suoi denti.

Gli antecedenti del racconto sono condensati in rapidissimi tratti, che ti risvegliano tutta la vita del prigioniero, al quale i mesi e gli anni, che per gli uomini distratti nelle faccende volano come ore, sono secoli contati minuto per minuto. Ugolino è chiuso in un carcere, a cui viene scarsa luce da un breve foro, al quale sta affisso; ed il suo orologio è la luna, dalla quale egli conta i mesi della sua prigionia. Quell' angustia di carcere paragonato ad una muda, quel piccolo pertugio, e le ore contate sono tutto il romanzo del prigioniere nelle sue forme visibili. Nè con meno sicuri tocchi è rappresentato l'animo. Due sono i sentimenti che nutrono l'anima solitaria di Ugolino, l'incertezza del suo destino e l'accanimento de' suoi nemici. Ciò che più strazia il prigioniero, è il dubbio, è il che sarà di me? la fantasia esagitata da' patimenti e dalla solitudine si abbandona alle speranze e a' timori. Ugolino ignora la sua sorte, e teme e spera: l'idea della morte non può cacciarla da se. E rimane in quest' ansietà, quando viene il mal sonno, che gli squarcia il velame del futuro. Il poeta di tutta questa storia intima non esprime che l'ultima frase, la quale ad un lettore anche di mediocre immaginazione fa indovinare il resto, ma in quel modo vago e musicale che è il maggiore incanto della poesia. Il mal sonno! Quel mal, quella imprecazione e maledizione al sonno fa intravvedere quante speranze esso ha distrutte, quante illusioni ha fatte cadere! Il sogno è un velo, dietro al quale è facile vedere le agitazioni della veglia: il reale si rivela sotto al fantastico. Ruggeri, Gualandi, Sismondi, Lanfranchi stanno presenti innanzi al prigioniero, crudeli in sè e nei figli, e ora gli appariscono in sogno cacciando il lupo e i lupicini; l'occhio vede animali, ma l'anima sente confusamente che si tratta di sè e de' suoi figliuoli, e quel lupo e quei lupicini si trasformano con vocabolo umano in padre e figli. L'uomo in sogno quando s'immagina di essere inseguito e vuol correre, come sta immobile in letto, gli pare che le gambe sieno indolenzite e tarde al corso. Quel povero lupo non è che il padre, e non può correre e si sente già ne' fianchi le acute zane:

In picciol corso mi pareano stanchi
Lo padre e i figli, e con le acute zane
Mi parea lor veder fender li fianchi.

Qui entrano in iscena nuovi attori; Ugolino non è solo; compariscono i figli, proprio nel momento della crisi, e per più strazio. Anch'essi sognano; sentono fame e domandano pane. Il padre congiunge il suo sogno con quello de' figli, e l'ultima sua impressione è: Morire, e morir di fame! Questo è ciò che si annunziava al suo cuore. E gli par cosi chiaro, che non sa come non lo senta anche Dante e non se ne commova al pari di lui:

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli,
Pensando ciò che al mio cor s'annunziava;
E, se non piangi, di che pianger suoli?

Quando siamo presi da passione, vorremmo che tutti partecipassero al nostro dolore, e ci fa male la vista delle persone indifferenti. Una madre del popolo che teme ucciso il figliuolo, va correndo per le vie forsennata chiedendo alla gente: l'avete veduto? quasi tutti sapessero di chi parli o di che si affanni. Ugolino nel sogno suo e dei figli vede già tutta la sua storia, e quando alzando gli occhi a Dante, non vede in quel volto, più curioso che commosso, le stesse sue impressioni, gli par quasi che colui non abbia anima d'uomo, e se ne sdegna, e gliene fa improvviso e brusco rimprovero. Fieri accenti, che usciti dalla sincerità di un dolore impaziente e sdegnoso non movono collera in Dante, anzi accrescono la sua commiserazione e gli tirano per forza lacrime non ancora mature.

Questa rappresentazione può parere scarna a quelli che sono inclinati alla rettorica e all'analisi, a ridurre i sentimenti in pillole, a diluire in un volume le ultime ore di un condannato a morte. Essa è un capolavoro della maniera dantesca, che è la grande poesia, quel dipingere a larghi e rapidi tocchi, lasciando grandi ombre illuminate da qualche vivo sprazzo di luce. Tutto è al di fuori; tutto è narrato, anzichè descritto o rappresentato, ma narrato in modo che l'immaginazione, fatta attiva e veloce, riempie le lacune e indovina il di dentro. Non è un quadro, ma uno schizzo, tale però che il lettore ti fa immediatamente il quadro. É questo avviene perchè il quadro esiste già nella mente del poeta, esiste e si rivela in quello schizzo cosi chiaramente, ch'egli si sdegnerebbe, come Ugolino, se il lettore rimanga freddo ed abbia aria di non capire. La grandezza dell' ingegno non è in quello che sa dire, ma in quello che fa indovinare.

L'importanza di quello che segue, è tutta nella presenza de' figli. Se Ugolino fosse solo, il racconto finirebbe qui, nè il fiero uomo dimorerebbe ne' particolari della sua agonia. L'offesa non è la morte sua, ma de' suoi figliuoli. E questo lo rende altamente interessante. Ve ne accorgete al tono

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