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Apollo. Pur troppo! e quanto mi nauseasse quel laido invasamento, il so io.

Mercurio. Ma dunque di che ti lamenti? Non hai più l'impaccio di alzarti tutte le mattine di buon'ora colla lampana in mano a far il giro dell'universo: il che ti obbligava a percorrere in meno di un minuto più di trecensessanta mila miglia di spazio, per una strada tutta piena di mostri, nel continuo pericolo di fiaccarti il collo come tuo figlio; non hai più indovini, nè ciarlatani, nè venditori di arzigogoli, che con tanto mal odore de fatti tuoi compromettano la tua riputazione; non hai più guidatori di cocchi nè lanciatori di frecce che ti chiamino a dar lezioni di equitazione e di arco. Sei il bellissimo de' Celesti, e per una sola delle tue belle che scioccherella cangiasi in pianta per non venire nelle tue braccia, puoi vantarne cent' altre che vanno pazze di te e ti si gettano dalle finestre.

Apollo. Tutto vero, verissimo: ma che mi vale se restami il più noioso, il più grande di tutti i fastidj, il peso di governar la gente di lettere, massimamente i poeti? E possa io non gustar più stilla di néttare, se fra tutti gli Dei d'Omero e d'Esiodo io non sono il più disgraziato.

Mercurio. Per recarti a tanta disperazione qualche gran cosa deve esser nata.

Apollo. Si grande che, se non vi trovo rimedio, fo giuro di ripigliar la cazzuola da muratore al servigio di qualche altro Laomedonte, o il mestier di vaccaro, come già con Admeto. Così almeno avrò che fare con bestie più

mansuete.

Mercurio. Il dolore ti tira fuori del senno. Orsù veniamo alla somma: che t'è accaduto?

entrata fra i letterati, per cui va sossopra tutto il Parnaso Apollo. Uno scompiglio, una guerra, una maledizione italiano. Gli antichi poeti, quelli cioè del dugento e trecento, hanno trovata la via di farmi giungere dall' Eliso forti richiami contro i loro editori, particolarmente contro i cruscanti; e ad una voce gridano tutti soddisfazione degli storpj fatti a' lor versi, si guasti che non li sanno più intendere neppur essi. Ed essendo in quei parti del loro ingegno fondata tutta la loro riputazione, ben vedi che non si tratta di bagattelle. Ora ad acchetare, se sarà possibile, tanti tumulti, ascolta una mia deliberazione, che è questa. Intimare un generale comizio poetico, porre a fronte degli accusati gli accusatori, udirne con tutta composizione di animo le ragioni, e chiunque sarà convinto di non

aver saputo

tichi testi Tros Rutulusve fuat, condannarlo a non toccarli per diffalta di critica legger bene, nè bene spiegare gli anmai più sotto pena di perpetua derisione; e la rifazione dei danni sia tutta a spese de' guastatori.

Mercurio. Eccellente e giustissima risoluzione. E già veggo

in che brami l'opera mia.

Apollo. Bramo che tu colla piena podestà che t'è data di ricondurre al mondo de' vivi l'ombre de' morti, mi meni dinanzi l'ombre di quegli antichi; chè io la voglio veder chiara una volta, e finita.

Mercurio. Volo ad allacciarmi i talari, e in due battute di ala sarai servito.

Apollo (solo). Mentre Mercurio va e ritorna, pensiamo un poco al modo di condur bene questa corte di giustizia. Dovrò io stesso sedere pro tribunali? No: io sono poeta, ho testa calda, potrei perdere la pazienza, potrei uscire dei gangheri e giudicare per passione. No, no: qui ci vuol testa fredda e sicura da ogni perturbazione. Si affidi adunque lo scabroso officio alla severa ed inalterabile figlia della Ragione, alla regina dell'intelletto, la Critica. Essa è quella che, saldate le grandi piaghe de' codici, ha restituito alla nativa integrità e purezza gli antichi scrittori, ed essa sola acuta conoscitrice dei peccati trascorsi nelle vecchie carte saprà snidarli e correggerli. Ma quale sarà la sede di così strano comizio? Questa pure mi sembra bella e trovata. La lite è tutta fra letterati italiani. Qual luogo adunque più degno che siavi diflinita, che l'Atene italiana? In qual parte d'Italia è fiore d'ingegni più che in Firenze? Nella sempre bella e sempre dotta Firenze sia dunque decisa questa grande contesa. E poichè le accuse percuotono non lievemente anche gl' illustri Accademici della Crusca, nel tempio, nel cuore della stessa Crusca si alzi il tribunale che dovrà giudicarla. Discorriamola adesso col gran giudice di tutte le dotte disputazioni, la Critica, e rechiamola colle buone ad assumere il carico della presente. Ho già mandato per essa, e poco potrà tardare. Eccola tutta grave e pensosa; ma risplendente come la stella.

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Vieni, bella regina, e non mi far niego di una grazia che attendo dalla tua cortesia. Tu hai sempre mirabilmente beneficato i miei studj. Tu m'hai tratto dal caos delle corrotte lezioni tutti i sommi poeti dell'antichità. Se Omero e Virgilio, se tutta la bella schiera de' latini e de' greci al presente vanno mondi dalle tante macchie contratte ne' codici, è tutto tuo dono; ed oggi un egual beneficio implorano dalla tua sapienza gli antichi poeti italiani.

Critica. Signore, non posso. L'orrenda oscurità de' loro testi, parte propria degli autori perduti dietro ai bisticci di quelle loro perpetue e monotone innamoranze, parte cagionata da vocaboli di affatto spenta significazione, e parte reo lavoro d'ignoranti copisti, trapassa le forze del mio intendimento. Aggiungi che molti di quei poeti onninamente meritano di essere spoetati, e che pochi, ma pochi assai, sono degni di queste tue cure caritatevoli.

Apollo. E tu solamente per questi pochi, dammi questo contento ed ascolta con benigna pazienza i richiami ch'essi medesimi ti porgeranno contra i loro editori ed interpreti,

Critica. Fin qui può correre il mio servigio.

Apollo. Per opera di Mercurio tra poco ei verranno al nostro cospetto, e tu sarai loro giudice.

Critica. Purchè vi sia tutta libertà di parole.

Apollo. Tuttissima: e l'atto di tanto giudizio, acciocchè sia solenne e ne viva eterna memoria negli annali dell'italiana letteratura, si farà in Firenze.

Apollo. Ohimè, Mercurio, che veggio? Questo è l'ospedale descritto da Milton.

Mercurio. Quali gli ho trovati, tali te li presento: e se ho tardato a condurli non è colpa mia, ma di quelle povere gambe. E sappi che molti, non potendo più la fatica del camminare, rimasero a mezza strada, nè so se avranno forza da proseguire, perchè marciano sulle grucce.

Apollo. Oh pietoso e fiero spettacolo! Oh miei cari figliuoli! Chi vi ha cosi maltrattati?

I Poeti. I nostri editori, i nostri chiosatori. Giustizia, padre Apollo, giustizia!

Apollo. L'avrete, mie povere creature, l'avrete. Ecco la curatrice delle vostre piaghe, la Critica.

I Poeti (saltellando intorno alla Critica per allegrezza, e cantando)

Lo meo core è in allegranza
Per voi, donna canoscente.
Per la vostra benenanza
Eo non sento più neente
Di mie noglie la pesanza,
E saraggio ognor gaudente.
Donna, per vo'

La nostra gio'
Sbaldir ci fae;
Ch'aggiam certanza
Di noi piatanza

Vi prenderae.

Critica (in disparte ad Apollo). Sire, due parole all' orecchio.-Non ti prometter tanto dalla virtù de' miei ferruzzi chirurgici; perchè, a quanto l'occhio mi dice, le piaghe di

questi sciagurati sono incurabili.

Apollo. Il veggo io pure: ma sono miei figli, e io non ho

cuore d'abbandonarli.

Critica. E potrò io stare al martello di quelle lor rozze

ed orride cantilene?

Apollo. Ci starai, spero, se ti farai a considerare che in quegli agresti vagiti della lingua italiana son riposti i principj fondamentali ond' ella poi venne in tanta dolcezza. E la culla? a chi la mise sulla via di farsi poi così bella e non dovremo noi averne grazie particolari a chi le diede poesia son nulla, ma son tutto pel fondamento della favella. maravigliosa? Quelle noiose lor nenie pel vantaggio della

Critica. Non so che rispondere.

Apollo. Farai dunque a pro loro ciò che meglio ti viene onde raddrizzarli e sanarli. E dove alle loro cancrene non varrà il gammautte, vaglia il fuoco. M' intendi?

Critica. Così farò.

Apollo. E purchè sia in Firenze, pianta la tua infermeria dove ti pare. — Orsù, buona gente: fate coraggio, e seguite con fiducia la vostra medicatrice, seguitela tutti al luogo destinato alla vostra cura, a Firenze; luogo di aria vitale, di cielo sereno, purgato da tempeste, libero da passioni.... I Poeti (con segni di turbamento e in tuono lamentevole), Doimè! Eimè! Uimè;

Apollo. Quietatevi: so che vogliono dire le vostre flebili interiezioni ma non abbiate paura. Nè frulloni nè leccafrulloni vi faranno soperchieria. E chiunque di essi avrà fatto scempio di voi, pagherà le spese della medicatura. I Poeti (tutti allegri). Evviva il nostro buon Re. Evviva la bella Firenze. Evviva la Critica.

Donna, per vo'

La nostra gio'
Sbaldir ci fae;
Ch'aggiam certanza
Di noi piatanza
Vi prenderae.

Baretti. Olà, canaglia poetica, chi non vuol sentire il peso di questa (alzando la frusta) si fermi, e stieno in posa le grucce. (Ognuno si ricompone, e si fa profondo silenzio.)

Critica. Signori poeti, ascoltate. Nel santo nome della ragione e di Apollo, augustissimo vostro re, il comizio ordinato ad udire i vostri richiami è aperto. Poliziano, leggi il decreto.

Poliziano. « Regno del Parnaso Italiano. Febo Apollo, immortale figliuolo di Giove, uno dei dodici del gran Concilio, signore di Delfo e di Delo, e di altri cencinquanta paesi messi in registro nell'Archivio diplomatico della Mitologia, protettore di tutte le belle invenzioni (salvo la polvere da cannone), presidente perpetuo di tutte le Accademie (salvo le sinagoghe de' parolai) e re di tutte le lingue (salvo il gergo de furbi), a tutt'i poeti del dugento e trecento, fondatori del bell'idioma italiano, salute, indulgenza e giustizia.

» Essendoci venuto all'orecchio che la lodevole brama di pubblicare gli antichi testi inediti è degenerata in manía, è che molti si mettono a questa impresa affatto sforniti della Critica necessaria a saper conoscere nell'immenso guasto de' codici le corrotte lezioni, e sanarle :

» Considerando il gran danno che la riputazione degli autori tratti alla luce, e le buone lettere ne ricevono :

» Veduto che nelle antiche poesie orribilmente guaste per le stampe non si raccapezza nè senso nè costruzione:

» Veduto che gli abbagli presi dai chiosatori nella dichia

razione degli arcaismi, di cui sono zeppe, trapassano ogni termine di tolleranza :

> Veduto che quelle voci mal dichiarate falsificano la favella e sempre più la corrompono :

> Veduto ancora che molti di questi scritti sottratti alla polvere delle biblioteche sono indegni dell'onor della luce, e che i loro editori promettendo Roma e toma non danno che borra, e non mirano che alla borsa dei compratori: > Desiderosi di far argine a tutti questi disordini, de

cretiamo:

>1° È stabilito un regio tribunale supremo, davanti a cui gli antichi poeti potranno liberamente accusare per illazione di danni e d'offese i loro editori.

> 2° Sedente sul tribunale starà l'augusta regina dell'intelletto e grande nostra alleata, la Critica.

>3° Essa ne ascolterà le ragioni e ne farà rapporto al supremo nostro consiglio, per indi col voto delle nove Muse procedere alla dovuta sentenza.

>4° Oltre ai poeti del dugento e trecento, la Critica ammetterà al comizio que poeti de' secoli posteriori, che ella stimerà necessarj alla regolata compilazione de' suoi

processi.

5° Per tutti coloro fra gli editori, illustratori, chiosatori, ec. che apparterranno alla rispettabile Accademia della Crusca sarà tenuto a rispondere il magnifico nostro

Compare messer Frullone.

>6° Se, oltre ai poeti, qualche celebre prosatore avesse ginsta ragione di lamentarsi del suo editore, o in persona 0 per procura s'ascolti.

Dato in Parnaso questo dì 17 del mese di Boedromione, entrando il Sole nel segno delle Bilance. » — Poeti dei primi secoli, ec., nella Proposta, ec., Vol. III, p. 2^.) (Dal Dialogo i

UGO FOSCOLO.

Di famiglia veneziana trasferita nelle isole jonie, nacque in Zante da Andrea medico e Diamante Spaty zantiota il 26 gennaio del 1778 secondo lo stile vecchio, cioè il 6 febbrajo secondo il calendario gregoriano (SP. DE BIASI, Dei parenti di U. F., lettera al professor B. Mitrovic, Zante, Condogiorga, 1883; C. ANMilano, Dumolard, 1886). Fu primo di quattro figliuoli; si chiamò TONA-TRAVERSI, De' natali, de' parenti, della famiglia di U. F., ec., Niccolò, cambiando poi questo nome in quello di Ugo. Passò parte della fanciullezza in Dalmazia, e fece i primi studj, fin verso il 1788, nel seminario di Spálato, dove il padre era medico dell'ospedale (B. MITROVIC, U. F. a Spálato, Trieste, Hermannstorfer, 1882). Perduto il padre nel 1788, fu ricondotto a Zante, ove apprese i rudimenti anche del greco antico, mostrandosi però restio allo studio e indisciplinato. Non è certo se, frequentando le scuole cattoliche,

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