Page images
PDF
EPUB

ed errabonde per le vie, ai fuggenti, ai proscritti, non furono mai chiuse le porte dai cittadini, benchè non si potessero aprire senza presente pericolo di veder irrompere dietro gl'inseguiti i persecutori. Anzi in que' di nefasti pareva che niun'altra gloria conoscessero i Bresciani e niun'altra consolazione volessero se non quella d'ospitare qualche martire della patria: e molte famiglie che prima erano sembrate tiepide alle speranze, si mostrarono ferventi ai pericoli della carità. E se ne videro esempi notabili anche nel saccheggio. Poichè avendo i soldati aperto delle loro ladronaje un mercato fuori di porta Torrelunga d'intorno al Rebuffone, ove vendevano all' impazzata quello che loro aveva dato nelle ugne, fino a spacciare per una lira un sacco di riso, e per cinquanta una coppia di buoi, molti accorsero a comperare, fingendo d'esservi tratti dalla ingordigia del buon mercato, i quali poi andavano cercando i danneggiati e loro restituendo il mal tolto. E fra gli altri, moltissime robe ricomperò e diligentemente restitui un'ostessa, che come bella e giovane era stata trascinata da` soldati fra le prede, e che, senza lasciarsi accasciar dalla vergogna e dal dolore, volse la sventura propria in soccorso de' suoi concittadini.

E certo a frenare gli animi indomiti più valse la pietà, che la paura. E pur troppo spesso nelle case del popolo gli uomini, dopo avere per carità delle donne e dei figli patito alcun tempo l'oltracotanza di nemici, vinti a un tratto da qualche più acerba trafittura, riafferravano le armi, e morivano vendicati. Spesso anche i cittadini, che da più ore s'erano abbarrati nelle loro case, uscirono fuori di nuovo ai pericoli per soccorrere feriti, od accorrere agli incendj. Perchè è da notare che, anche in questo estremo, i Bresciani sdegnosamente rifiutarono che gli stranieri mettesser mano a soccorrere la città dopo averla rovinata, ed una volta che i soldati fecero vista di mescolarsi co' cittadini per combattere le fiamme che minacciavano d'incenerire tutto un quartiere, furono accolti con imprecazioni e con atti di orrore, sicchè dovettero restarsene.

E certo nè allora nè poi risero di Brescia gli stranieri, o il riso non passò loro la strozza; come avvenne di quei Croati che messe le mani addosso ad un povero operajo, deliberarono d'arderlo a diletto, parendo loro che, per essere di poco corpo e sciancato, dovesse egli opporre minor contrasto, e forse morire con più risibili contorcimenti. Carlo Zima è il nome non perituro di quel forte popolano, il quale, come fu impeciato ed infiammato, s'avvento ad uno di quei manigoldi e l'avvinghiò per modo, che arsero e morirono

assieme.

Così cadeva Brescia gloriosa e vendicata. Dieci giorni durò in sull' armi; spesso vincente, e non vinta affatto se non colle insidie. Caso unico forse negli annali guerreschi,

se si pensa che la città, non popolosa di più di trentacinque mila persone d'ogni sesso e d'ogni età, aveva come un brulotto confitto ne' fianchi il castello incendiario, e di più in sulle porte e padrona della campagna l'oste nemica, che crescendo man mano, in sull' ultimo toccava le venti migliaja di soldati stanziali. A questi appena è che si potessero opporre due in tre migliaja di fucili in mano di cittadini e di valligiani, nuovi tutti alla guerra, se ne togliamo le bande dei disertori: il resto sassi, tegole e coltelli. Lontani i patriotti più autorevoli, lontana tutta la gioventù più animosa e più esperta dell'armi, scarso l'erario, le mura indifese, non un cannone, nè un nodo di milizie regolari, nè un ufficiale d'esperienza, con quale consigliarsi. E nondimeno o sul campo, o di ferite negli ospitali, mori un migliajo e mezzo di nemici; e fra questi un tal numero di ufficiali (che a nostra notizia furono 36), da provarci qual fosse l'accanimento del combattere e il terror del soldato, a muovere il quale, dopo ch'ebbe assaggiato di che sapessero i Bresciani, bisognarono stimoli di fieri castighi, d'insolita emulazione e d' infami promesse. Fra i morti tre capitani, un tenente colonnello, due colonnelli e il general Nugent, che prima di rendere l'anima a Dio chiamo nel suo testamento legataria la città di Brescia: non sappiamo se per jattanza soldatesca, o per rimorso.

Più volte il castello saettò l'incendio e la morte sulle case cittadine: delle quali trecento furono consunte dal fuoco, o guaste; e il danno passò i dodici milioni di lire. Piovvero mille seicento bombe e palle; alcune di pietra, le quali furono cagione a sperare, che il Leschke avesse dato fondo alle munizioni; mâ poi si vide che fu per pitoccheria. I vincitori, non contenti alle multe, ai saccheggi, ai danni dell'incendio ed alle tasse di guerra di sei milioni e mezzo, mandarono al Municipio la polizza dei projettili e della polvere, chiedendo che la città ne pagasse le spese. Oltrediche gli intimarono di razzolare altri danari per piantare in sulla piazza maggiore un monumento trionfale ai soldati caduti sotto Brescia. E sta bene. I circa seicento Bresciani che ci morirono (e più di metà furono donne, fanciulli o inermi presi e martoriati a furore, ovvero assassinati dai giudizi militari a dispetto delle condizioni della resa) vennero spazzati via alla rinfusa: e di molti non si trovò il nome o il cadavere. Ma è da sperare che Dio li avrà in misericordia, e i posteri in onore e che verrà giorno in cui l'Italia potrà farne degnamente i funerali. (Da I dieci giorni dell'insurrezione di Brescia nel 1819, negli Scritti scelti, II, p. 157 e segg.)

GIOVANNI PRATI. Gli fu patria Dasindo nel Trentino, ove nacque ai 27 gennajo 1815: « nell'anno in che Luigi Portò dentro Parigi La Carta e lo stranier.» Studiò legge a Padova, coltivando

però sempre la poesia, a cui era nato; si sposò giovanissimo, ed ebbe dopo cinque anni il dolore, ch'ei senti ed altri non rispettò, di perdere la sua Elisa. Primo componimento poetico che levasse alta la sua fama fu l'Edmenegarda (1841), dove narrò, in cinque canti in sciolti, una tragedia di amore colpevole, avvenuta in Venezia, e della quale era protagonista una sorella di Daniele Manin; il nuovo poeta fu salutato con entusiasmo, dai giovani e dalle donne in specie. Si recò a Milano, dove conobbe il Manzoni, il Torti, il Grossi, ed ivi stampò i Canti lirici, i Canti pel popolo e le Ballate, che accrebbero la sua rinomanza: i primi, per certa nebulosa altezza di concetti sull'Uomo, la Donna, l'Arte cristiana, la Carità fraterna, il Poeta e la Società tali ne erano i principali argomenti; i secondi, per l'intento di educare e moralizzar le plebi, e dalle fresche onde del sentimento popolare trarre nuovi rivi poetici; gli ultimi, per i riflessi del romanticismo tedesco in essi contenuti; tutti, per facilità di metri e copia di vena. Nel '43 passò a Torino, ove ebbe festose accoglienze, e il Re gli commise un inno guerriero, dove profetò « Carlo Alberto e il suo destino », ed accennò a battaglie per la redenzione d'Italia: scrisse anche, in prosa, le Lettere a Maria, ad illustrare l'esposizione di belle arti. Nel '44 mise a luce altri volumi di poesie: Memorie e lacrime ei Nuovi Canti, e tornato nel Veneto, nel '46 a Padova, le Passeggiate solitarie. Quest'abbondanza di versi, di nota generalmente elegiaca, spiacque ai critici più severi, e il Tenca, fra gli altri, prendendo occasione da quest'ultimo volume, fattane una spietata notomia, gli rimproverò nella Rivista Europea del febbr. '47, di <addormentare gli spiriti nella fiacchezza dei melodiosi sospiri e nelle allucinazioni di una vita tutta fantastica » (Prose e Poesie scelte, Milano, Hopli, 1888, I, 151). Ma più alto segno che i dolori individuali offrivano ormai al Prati i dolori e le speranze della patria in quei primi albóri del risorgimento, ed ei cantò Pio IX e Carlo Alberto, augurando Italia « una Di sensi e di fortuna. » Il governo austriaco lo incarcerò e bandi, come poco dopo lo incarcerarono e bandirono i reggitori della risorta repubblica di Venezia, accusandolo di albertismo. Riparò in Toscana, e anche di qui, dopo esser stato aggredito e malmenato in pubblico ritrovo, e per avere nel Circolo politico fatto aperta professione di opinioni avverse all'incalzante democrazia (v. Seduta del Circolo politico di Firenze del 13 nov. 1848, Firenze, Galilejana), venne, quantunque malato, espulso dal Guerrazzi, che ne informò il Principe, raccattando ignobili calunnie, e dipingendolo avvelenatore della moglie e « agente straniero » (Lettere, ediz. Martini, I, 282). Dell'oltraggio si vendicò col carme Dolori e giustizie, ove sclamò: « dissero.... Che il fulgid'or d'Alberto I canti miei comprò.... Vili! le meste pagine Rigo de' miei sudori, Ma non ha gemme ed ori Per comperarle un re; e con una Lettera ai giornali che si dicono democratici (v. V. BERSEZIO, Il regno di Vitt. Em., Torino, Roux, 1892, VI, 131).

Rifugiatosi in Piemonte, cantò i morti di Novara, il ritorno delle ceneri di Carlo Alberto e lo Statuto, imprecò al fedifrago Borbone, e porse saggi ammonimenti a Luigi Napoleone dopo il colpo di Stato. Contro i demagoghi aveva scritto un vivace dialogo fra la statua di Emanuele Filiberto e la sentinella del monumento (v. le sue Poesie politiche, nel vol. V, dell' ediz. Guigoni). Per la sua costanza nell' esaltare la dinastia Sabauda fu detto poeta cesareo, ma egli obbediva ad un'antica e nobile persuasione, e menò in Torino vita più che modesta. Molto produsse ancora nel decennio tra buono e mediocre: liriche di vario argomento, e poemi i Jerone, il Conte di Riga, Satana e le grazie (v. su di esso, DE SANCTIS, Saggi critici, Napoli, Morano, 1869, p. 78; ed E. CAMERINI, Profili letterarj, Firenze, Barbèra, 1870, p. 306), e, infelicissima cosa, il Rodolfo; cui seguirono poi, l'Ariberto e l'Armando (v. pure DE SANCTIS, ibid., p. 477): al rinnovarsi delle fortune italiane, cantò Montebello e Palestro. Nel '61, gli fu offerta la cattedra di letteratura italiana nell'Università di Bologna, ch'ei rifiutò. Nel '62 fu eletto deputato del collegio di Penne, ma l'ele zione venne annullata. Si ascrisse alla parte politica capitanata dal Rattazzi, e compose molte poesie satiriche contro la maggioranza moderata e specie contro il Ricasoli (v. il Giornale degli Eruditi e Curiosi, I, 27, 49, 81, 114, 198, 237, 613, 662; II, 170). Seguì la capitale da Torino a Firenze, da Firenze a Roma; fu Consigliere della Pubblica Istruzione, e Senatore dal 15 maggio 1876. Stampó a Padova presso il Sacchetto, nel 1876, un volume Psiche, di oltre 500 sonetti; e nel '78 a Roma dal Forzani uno di poesie di vario metro, Iside, dove si contiene il meglio che scaturi dalla feconda sua vena, nell'ultimo periodo della vita, quando dal romanticismo si era ormai volto alle forme classiche, e soprattutto a Virgilio, ch'ei tradusse in sciolti. Morì a Roma ai 9 maggio 1884.

La fama del Prati, fiorente al massimo grado anni addietro, si è andata a poco a poco scolorendo; essa è come un'onda sonora, che vibra pur sempre, ma via via illanguidisce. Di tante cose da lui composte, niuna può dirsi che sfidi le ingiurie del tempo e le vicende del gusto; non che un componimento, non v'è forse una strofa o una coppia di versi, che sia restata infissa nella memoria, e si ripeta ancora per profondità di sentenza od efficacia di forma. Tutti riconoscono in lui vera natura di poeta e singolare attitudine alla lirica, specialmente alla Ballata e al Sonetto, e soprattutto armonia musicale nel verso, e fluidità e copia; ma a questi pregj tutti estrinseci non sempre corrispondono in egual misura i pregj di sostanza. La maggior parte delle sue Poesie è contenuta nei 5 vol. di Opere varie, Milano, Guigoni, 1875, con Prefazione di C. TEOLI (E. CAMERINI). Un vol. di Poesie scelte ha raccolto, preponendovi una bella Prefazione, FERD. MARTINI, Firenze, Sansoni, 1892.

[Per la biografia e le opere, v. A. DE GUBERNATIS, G. P., nei Contemporanei italiani, Torino, Unione tipogr., 1861, e Ricordi

biogr., Firenze, Associazione, 1873, p. 431; G. MARCHESE, G. P. et ses poésies, in Revue des Deux-Mondes, mars 1856; C. CORRADINO, Poeti contemporanei, Torino, Casanova, 1879; MATTEO RICCI, negli Atti dell'Accademia della Crusca, seduta 7 dicembre 1884, Firenze, Cellini, 1885; G. ZANELLA, in Paralleli letter., Verona, Münster, 1885, p. 301; FR. TORRACA, Saggi e Rassegne, Livorno, Vigo, 1885, p. 395; G. MESTICA, Manuale della lett. ital. del sec. XIX, Firenze, Barbèra, 1887, II, 722.]

Rimembranza.

Quand' io m' affiso alla notturna lampa,
Che il suo va consumando ultimo umore,
Sinchè la incerta e piccioletta vampa,
Crepita e langue, riscintilla e muore;
Escon rotti i sospiri, e mi si accampa
Una tremenda rimembranza in core,
E per modo di sé tutto lo stampa
Che dagli occhi a torrenti esce il dolore.
Meco una notte la mia dolce Elisa
Veggendo tramortir quella fiammella,
In me ristette lungamente fisa.

Poi sospirando: Io morirò com'ella,

Mi disse; ed io scherzando ahi! l'ho derisa....
Era giovine tanto e tanto bella!

Galoppo notturno.

Ruello, Ruello, divora la via,
Portateci a volo, bufere del ciel.

E presso alla morte la vergine mia,
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.

Se a forza di sprone li fianchi t'ho aperti,
Coi lunghi nitriti non dirmi crudel;

Son molte a varcarsi pianure e deserti,

Galoppa galoppa galoppa, Ruel.

Non senti nell' aria che perfido riso?
Non senti che fischi d'orrendo flagel?
L'odor dei sepolti mi soflia nel viso,
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.

Ah! questa ch'io sento sarebbe la voce

Del coro, che mesto la porta all' avel?

Dio santo!... che veggo!... la bara e la croce !...

Galoppa galoppa galoppa, Ruel.

Tarresti, Ruello?... Coraggio e speranza!

Per Dio, vuoi tradirmi, cavallo infedel?

Laggiù la tempesta ruggendo s'avanza;

Galoppa galoppa galoppa, Ruel.

« PreviousContinue »