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capo mostrava tra il gorgogliar canuto sembianze femminili; il tutto mobile come il liquido che lo formava, e donde usciva un mormorar sommesso, il quale si udiva benissimo e spiccatamente, tra il sordo brontolio delle onde consorelle. Cessato il furor del libeccio, le onde si chetarono e vennero a dormir rabbonite il resto della notte tra gli scogli delle Grazie; ma quella ch' io aveva adocchiato fra le altre, fittasi fra due roccioni, seguitò a spumeggiare con voce quasi umana. Scesi insino alla Foce per accostarla, e giunto là, mi vidi presso ad una figura di femmina, la quale finiva dal mezzo in giù in acqua di mare, e con maravigliosa grazia e quasi pudica voluttà, sporgea l'altra metà del corpo dal pelo dell' acqua; credo gli antichi chiamassero queste onde col capo umano Nereidi: fosse figlia di Nereo, o d'altro dio o semidio, non saprei dirvi di certo; ma vi giuro che parlava la lingua nostra, ed era di fattezze bellissime; talchè mi feci cuore a interrogarla, nè vi froderò d'un iota su quanto mi rispose. Da ciò intenderete che io potrei dettare ad animo più pacato i ricordi dell' Oceano, non che quelli del povero flutto, il quale mi narrò que' pellegrinaggi che leggerete buttati giù alla buona nelle seguenti facce, proprio con quella liquida schiettezza con la quale me li venne raccontando, e senza frugar negli scartabelli, per non vi gonfiare con le mie invenzioni, nè tornarvi mofesto con manicaretti di carne stracotta.

Io son figliuola del fuoco, signor mio riverito, e la mia istoria va su su per modo, che se volessi dirvi quel che io mi fossi prima dei tempi mondiali, non m' intendereste punto. Basterà al nostro bisogno sappiate, che viaggiai tutto il vostro globo, quando non erano ancora i continenti. La faccia della terra fu nostro liberissimo imperio; di poi venner su certe montagne infocate, le quali ci diedero gravissimo scomodo; di maniera che fummo forzate a navigar da quel tempo in qua col piloto per non dare nelle secche o negli scogli. Allorchè la terra era tutta sotto i nostri piedi, io cullai amorosamente una fantasia indiana, la quale si diceva Visnú, e che ora vomita fuoco contro gl' inglesi. Costui era bellissimo bambino, e non so donde avesse cavato una grandissima foglia del fiore del Loto, sulla quale galleggiava. Noi lo reggemmo su' nostri dorsi, e ci davano gran sollazzo que' suoi fanciulleschi trastulli. Come gli è il vezzo de' bambini, e' si teneva il pollice del piede in bocca, e mostrava una faccia brunetta e serena, che gli era un piacere a vederlo. Non so chi l'avesse generato, e di che latte fosse nutrito; ma io gli feci una buona vigilanza intorno, insino a tanto fu raccolto nelle rive sorgenti, e più nol vidi. Mi dissero dappoi fosse ito a dimorar sovra un monte che chiamavano Merù, in compagnia d'altri due fratelli; ma io di queste faccende non m'intendo punto.

Quel che so di sicuro gli è, che m'ebbe sempre grandissima gratitudine; ed io non l'ho mai scordato. E come poteva dimenticarlo, se l'ho cullato per tanti anni insieme con le mie compagne, le quali di poi si mescolarono in maritali amplessi con ogni maniera di acque, e vollero perfino perdere la loro natura marina con le onde pantanose de'canali? Io, come vedete, rimasi sempre onda di mare; poichè non volli saperne di congiungimenti liquidi coi flutti de fiumi. E sì che fui chiesta a moglie da' più riputati umori del mondo! Imaginate che il Gange fece fuoco e fiamme per avermi; e' mi promise una dote di bramini annegati, di devoti soffocati, di ceneri di vedove brugiate, dote la quale mi avrebbe fatto la più ricca onda degli oceani. Ma io tenni duro per non perdere la mia libertà, e non me ne pento in modo alcuno. Anche il Nilo s' era pigliato d'amore per me, e per un cocodrillo sacro le mille volte mi fece parlare, acciocchè io mi recassi alle sue voglie. Giunse a promettermi che un giorno m' avrebbe fatto imperatrice per fino delle piramidi; infrattanto metteva innanzi a me mummie di re, di gatti, di buoi, e di sacerdoti. Necropoli intere, statue di numi, e perfino il bue Api in persona mi fece proferire, ma io anche al Nilo diedi uno speditissimo rifiuto. Ne' miei lunghi pellegrinaggi intorno al globo, ebbi altresi occasione di vedere i fiumi dell' Europa, e anch'essi s'ingegnarono di accalappiarmi con la dolcezza delle loro acque.

Tuttavia io volli restarmene amara, salata come il gran tutto m'aveva fatta nascere, e non volli saperne di nozze. Lasciai il Gange co' suoi annegamenti religiosi, e risposi al Nilo come e' dovesse recarsi a vergogna di parlar di matrimonio con un'onda mia pari, egli, che non si sapeva donde venisse, e quai monti, o laghi o stagni fossero i suoi genitori. Chiarisse prima il segreto del suo nascimento, e di poi si parlerebbe. Ma io diceva così per dargli la berta; ed anzi gli feci un mal gioco, del quale non ha per anco di certo smarrita la ricordanza. Imperciocchè entrata nel Mar rosso, proprio al tempo nel quale gli Ebrei avevano a passarlo a piedi asciutti, e già inviperita per un colpo che mi pigliai sulla cervice dalla verga del loro legislatore Mosè, mi vendicai col rotolarmi come forsennata sul carro di Faraone, e non potendo, come si suol dire, dare al cavallo, diedi alla sella. Col profeta degli Ebrei non mi bastò il cuore di pigliarmela, a cagione di quella sua bacchetta con cui faceva alto e basso nel regno della universa natura, e io mi ricattai sugli Egizi a misura di crusca.

Al tempo de' Greci menai vita anzi che no scapigliata, per amore di Venere Afrodite, la quale nacque dalle nostre spume. Vegliai tutta quanta quella notte in cui nacque, e trattala dalla sua lucida conchiglia, la lavai e rilavai come mi fosse figliuola. Ma fece mala riuscita, e certe galanterie

delle isole di Pafo e di Amatunta finirono con lo stomacarmi; sicchè mutai servigio.

Mi venne in capo di fuggire il mondo, e darmi a vita anacoretica; laonde lasciato l' Jonio, entrai nell'Adriatico, dove era manco ingombro di furori guerrieri, e postami a dozzina presso alle acque di Aquileia, io menava una vita da papessa lontana da ogni romore. Ma anche là vennero a turbare la mia quiete; dapprima i romani col loro naviglio; indi Attila che urlava come un cane, col nitrito de' suoi cavalli mongoli.

Per tutto quel tempo che durò l'assedio di Aquileia, diedi aiuto dalla banda del mare a que' poveri latini; allorchè disperati di poter più difender la terra, commisero gli averi e le persone alla sorte dell'Adriatico sovra zattere fatte a furia, io piacevolmente venni sospingendo le loro tavolacce mal connesse, verso quelle lagune che di poi s'ebbero il nome di Venezia. Indi, a modo di scherno, andai a biancheggiar minacciosa a' piedi del flagello d'Iddio, il quale insino al petto aveva cacciato il suo cavallo nel mio grembo, ma io crescendogli sopra, vero flagello del mare, lo feci dare addietro. Ricordo che Attila bestemmiò allora il suo Dio, ed io gli diedi un santo scappezzone con le mie liquide barbe per farlo tornare in cervello.

Che v'ho a dire? Al tempo delle Crociate fui in gran faccende colle galere de' popoli italiani; allora imparai la lingua con la quale ragiono con voi stanotte, e le imprese de Pisani, Veneziani e Genovesi mi diedero tal gusto, da non sapermi più spiccare da' mari d'Europa. Senonché questo mio gusto mi costò salato. Alla battaglia della Meloria, volete credere? fui tutta lorda di sangue fraterno; talchè non so se io rosseggiassi più di sdegno o di sangue. Malconcia, perchè mi pareva che le ferite di que' dissennati combattenti si fossero aperte nel mio corpo, seguitai i prigioni pisani a Genova, e stetti per alcuni mesi, proprio qui, ove dimorate voi di presente, soltanto per vedere e seppellire que' tapini, i quali morivano lontani di casa loro. Ma quella pietosa vista mi cagionò si grande affanno, che aveva fermo di andarmene a vivere fra i geli del Polo, dove ancora non erano giunti gli uomini con la loro audace e insatollabile fame.

Una maledetta e biasimevole curiosità di novelle mi tirò nell'Adriatico di bel nuovo, e là tornai a veder cose nefande, le quali tutte le mie acque non potrebbero lavare. I Genovesi, vi prometto io, che a Chioggia scontarono i falli della Meloria; fui perfino assediata ne' canali delle lagune dove m'era fitta, poichè voleva vedere da presso quella città maravigliosa; ma non mi venne fatto d'uscire dal canale di Malamocco, se non quando giunse di Levante il naviglio dello Zeno. Al tempo di Cristoforo Colombo, innamorata della sua ardimentosa impresa, volli provar con

lui la mia fortuna. L'accompagnai danzando intorno alla caravella ammiraglia insino al nuovo mondo; mi distesi sottile e gioconda sotto a' suoi piedi, quando toccò la terra divinata; ma le prodezze de' spagnuoli, i quali convertivano col fuoco gl' Indiani, mi fecero ribollir tutta. Tornai in Europa, e l'ebbi sempre si agra co' marinai di quella nazione, da mandare a male ogni loro impresa di poi; insino a che mi parve di andare a nozze, il di nel quale mi venne fatto di capovolgere uno de' galeoni della loro Armada al tempo di Filippo Secondo.

Prima di quel giorno aveva veduto andare in fumo il disegno di Gian Luigi del Fiesco. Io mi trovava a Genova per caso, proprio tornata con le galere che costui aveva compro da Pier Luigi Farnese. Guardate ventura! me ne stava dormendo nel fondo del porto di dentro, che si domanda la Darsena, quando il Fiesco mi cascò addosso grave dell'armadura con tale un tonfo, da sprofondarmisi nel grembo, e di poi seppellirsi nella mota. Pesante tutto di ferro com' egli era, non potei risollevarlo a galla.

Rimasi pesta io pure della sua percossa, e per timore del Doria, il quale era uomo di grandissima autorità nelle faccende marinaresche, me n'andai di buon passo a seapricciarmi co' Portoghesi intorno alle loro caravelle. Ebbi pure qualche negozio co' popoli dell' Olanda e con gl' Inglesi, arditissimi navigatori, i quali seguitai nell' Oceano artico, dove gelai per alcuni mesi. Venuta la primavera, e ripresa la mia prima forma, dimenticai la loquela italiana; poichè fui sempre alle mani de forastieri: Alla fine del secolo passato, vidi la rovina delle terre marittime d'Italia; per l'ultima volta sulle ali d'un vento da scirocco volli uscir del mare, e superando la Riva degli Schiavoni vedere la piazza di San Marco. Gonfiai perciò la persona, e mi distesi com'era lunga e larga sulla Piazzetta; di modo che andai a baciare col mio ultimo lembo le Procuratie vecchie presso alla Torre dell'Orologio. Mi tolsi di là mutato il vento; tornai nella laguna, e senza voltarmi indietro, gonfia di pianto, andai fuori per Sant'Andrea a seppellirmi nell'Adriatico.

Caduta la vecchia republica di Venezia, volli pure vedere come correvano i negozj per la nuova republica partenopea. E non vi saprei dire a parole come io me ne rimanessi, quando mi sentii piombare sul capo il cadavere dell' ammiraglio Caracciolo. A spavento di re Ferdinando, io non volli dare spacciata sepoltura a quell' infortunato é intrepido marinaio, ma si feci di me una cotal sorte di bara funebre, e lo raddussi presso al vascello nel quale, quasi tremando di paura, e orrido per furore cornuto, se ne stava il Borbone. Udii chiedere a quel tristo « Che vuole da me quel morto?» e io glielo rinnalzai quasi ritto in piede fuor dell'onde, a rimproverio della sua regia fede. Indi mi tolsi di là, e scorrazzai l'Adriatico nel quale v'aveste la culla;

in guisa che vi conobbi fanciulletto, allorchè venivate armato di sassolini piatti, a farli saltellare sulla mia faccia. Vi ricinsi delle mie braccia amorose quando vi commettevate al nuoto; vi mormorai parole di pace, quando me la chiedevate; perfino seppi di spesso quel che v'andava per la fantasia nelle vostre ore notturne. Fui proprio io, che vi aiuta a salvare due naufraghi nel 1844; che v'accompagnai all'isola di Grado, e non volli finiste cibo d'un pesce cane nella valle di Muggia.

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Dio di misericordia! interruppi io, dunque v'ho il tristo debito di avermi salva la vita?

· Di certo, signor mio; vedete che gli è da buona pezza che io vi conosco; anzi, se sono qui con forma quasi umana, gli è per provarvi che non v'ho per anco dimenticato. Ma vi dirò più là: io so tutti i vostri amori marittimi; imperciocchè vi udiva di soppiatto, quando venivate a narrarli pazzamente agli aquiloni; se non che passarono anni di molti senza ch'io m'avessi altrimenti novella de' fatti vostri. Ora che vi riveggo, abbiatevi le mie salutazioni; se vi piglierà la fantasia di gettarvi in mare, tenete per fermo che vi verrò compagna dalla lunge;

e se vorrete chiuder gli occhi nel mio grembo, io vi coprirò co' miei liquidi lini e v'avrete libero sepolcro, da che non v'è concessa libera e feconda vita. Che ve ne pare?

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· Grammercè, sorella; Dio mi creò alle tempeste; lasciate che il mio destino si compia.

A queste ultime mie parole, mi trovai immollato dal capo alle piante. Gli era forse il dispettoso saluto dell'Onda, la quale aveva sprecato meco il consiglio, e che tornava a' suoi sconsolati riposi; per me non avendo altro a divisare, rifeci la via di casa a mutarmi di vesti, e a scrivere il nostro colloquio. (Da Marine e Paesi, pag. 370-382.)

LUIGI CARLO FARINI. Nacque in Russi presso Ravenna ai 22 ottobre 1812. Si addottorò in medicina a Bologna nel 1832, e riuscì valente medico (v. S. GHERARDI, Dei meriti scientif, di L. C. F., Torino, 1863; C. GHINOZZI, Necrologia di L. C. F., nello Sperimentale, luglio-ag., 1866). Di famiglia liberale, collo zio Domenico, valente letterato, che fu ucciso poi da un settario sanfedista, prese parte alla rivoluzione del 1831, e poi a quella del '43, e dovette esulare in Francia, in Toscana e a Lucca. Pel moto del '45, dettò il Manifesto di Rimini, che precedè e generò il libro del D'Azeglio su I casi di Romagna, separandosi dal Mazzini e accostandosi alle idee del Gioberti e del Balbo. Stampò anche in questo tempo, un libro sulle risaje (Firenze, Galilejana, 1843), e nell'Antologia di Torino, una lettera al D'Azeglio Dei nobili in Italia e dell'attuale indirizzo dell'opinione italiana (1847). Era intanto stato prescelto medico di un figlio di Girolamo Buonaparte, in

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