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biano ad essere, come le altre, il frutto del suo animo generoso, del suo cuore italiano, ma l'effetto di una coazione!

Quel Re non può essere stato offeso dal generale Garibaldi, poichè il cuor suo e il mio concordano pienamente, e quello che non potrei far io non può far egli. Quando il liberatore dell'Italia è il Re, e gl' Italiani tutti hanno lavorato sotto questo duce magnanimo a questa liberazione, non c'è nè primo nè ultimo cittadino. Quegli il quale ha avuto la sorte di poter adempiere più generosamente il suo dovere, compire il suo dovere in una più larga sfera di azione, d'onde una maggiore utilità alla patria ne venisse, e l'abbia veramente compito, ha un dovere più grande ancora, quello, cioè, di ringraziare Iddio che gli abbia concesso questo privilegio prezioso, chè a pochi cittadini è dato di poter dire: Servii bene la patria, ho interamente compiuto il debito mio! Quindi, se nella scala di tutte le opere magnanime che gl' Italiani hanno saputo compiere in questi due anni, vi è un numero di due, sei, dieci cittadini, cui sia stato dato di poter adempire a doveri più grandi, più solenni, che abbiano più efficacemente contribuito al risultato finale della Nazione, ben lungi dal potere questi levare altiera la voce e chiamarsi superiori alla legge, ben lungi dal dovere mettere a calcolo le loro imprese, al contrario eglino hanno, come dissi, il dovere di rivolgersi al cielo e ringraziare Iddio di aver potuto compiere dei nobili fatti, delle opere generose, e dire quindi: Se la patria mi chiama, mi avrà sempre suo figlio obbediente; a me l'esempio dell'abnegazione, della modestia; a me l'esempio agli altri del come si dee obbedire alla legge. Ecco quello che compete ad ogni cittadino, il quale abbia avuto nel breve corso della sua vita il privilegio prezioso di poter compiere opere magnanime.

Il generale Garibaldi so che pensa così; dunque io non temo che egli possa smentirmi ; egli non può tenere un linguaggio diverso da quello che potrei tener io. Quindi quelle parole egli non le ha pronunziate. Il generale Garibaldi verrà in quest' aula, sarà glorioso di sedere al nostro fianco, e noi saremo lieti di vederlo assidersi in questa famiglia, potendo tutti dire: contribuimmo alla felicità, al bene della patria.

GIUSEPPE GIUSTI. Ragiona a lungo di sè e de' suoi tempi nell' Epistolario e nelle Memorie inedite (1845-49) pubbl. con proemio e note da F. MARTINI (Milano, Treves, 1890), sì da essersene potuta formare una specie di autobiografia (Vito di G. G. scritta da lui medesimo, raccolta e pubbl. da G. BIAGI, Firenze, Le Monnier, 1893). Nacque il 13 maggio 1809, a Monsummano in Val di Nievole, presso Pescia, ove poi si stabili la famiglia. Dai sette ai dodici anni fu a dozzina da un prete, dalla disciplina del quale riportò « parecchie nerbate e una perfetta conoscenza

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dell'ortografia, nessuna ombra di latino.... pochi barlumi di storia.... svogliatezza, stizza, noia, e persuasione interna di non essere buono a nulla. Poi fu a Firenze nell'istituto di Attilio Zuccagni: vi stette dieci mesi ed ebbe a maestro Andrea Francioni, che gli inculeò vivo amore agli studj e fu il suo vero maestro, come scrisse egli stesso nella nota lettera autobiografica al Vannucci. Chiuso questo istituto, vagò in altri, finchè ritornò presso la famiglia, e poi passò all' Università di Pisa (novembre 1826) consumandovi tre anni a far tutt'altro che studiare, iscritto al corso di Giurisprudenza, ma più noto che ai professori alla polizia granducale, e frequentando più l'Ussero che la Sapienza (F. MARTINI, Il Giusti studente, nella Nuova Antol., 16 ott. e 16 nov. 1890). Nell' estate del 1829 fu richiamato dal padre in famiglia, ma dopo tre anni e mezzo ritornò a Pisa, e nel giugno del 1834, in soli quindici giorni, si preparò alla laurea in legge : questa aveva egli dovuto ritardare per esser stato creduto autore di versi di sapor politico, ond'ebbe dal Commissario una ammonizione, che gli porse soggetto al Proponimento di mutar vita, e gli apri la vena alla poesia politica. Degli studj e della città consegnò poi nel 1841 i ricordi rimastigli, nelle Memorie di Pisa. Addottoratosi, si portò a Firenze per farvi pratiche d'avvocato, ma più ch' altro continuando gli studj letterarj e i lavori poetici, pei quali era già salito in qualche fama: ivi però la vita gli fu turbata da un amore sfortunato (v., sugli amori del poeta, il commento, che citeremo, di G. FIORETTO, II, 219), e da incomodi di salute. Impauritosi nel 1842 di esser stato morso da un gatto, che gli si attraverso fra le gambe per via dei Banchi, e ch'ei temeva fosse arrabbiato, ma non era, ne ebbe grande spavento e malinconia per tempo non breve. Per rimettersi, nel '44 viaggiò colla madre a Roma e a Napoli; tornò a Firenze nell' anno medesimo, senza averne riportato vero refrigerio, e fu successivamente a Livorno, a Colle di Valdelsa, presso affettuosi amici, e a Pescia co' suoi. Nel 1845 andò a visitare con G. B. Giorgini il Manzoni a Milano, e ne fu ospite per un mese. L'inverno del 1845 e 1846 passò a Pisa presso il suo antico condiscepolo e poi amoroso biografo Giovanni Frassi, e indi stette fra Pescia Firenze. Partecipò agli entusiasmi patriottici di quegli anni, sperando nelle riforme del granduca Leopoldo II, cui, sospendendo il pungolo severo » onde l'aveva già flagellato, diresse un'ode. Ebbe il grado di maggiore nella guardia civica di Pescia e i nuovi tempi permisero la sua elezione ad accademico della Crusca. Fu deputato assiduo nella prima e seconda Assemblea legislativa toscana: non nella Costituente del 1849, dove non mise piede. Favorevole al ritorno del Granduca, purchè colla costituzione, si ritrasse dalla vita pubblica, come gli altri capi del liberalismo toscano, quando quegli tornò cogli Austriaci. Peggiorando in salute, passò l'estate del 1849 a Viareggio. Tornò in Firenze ospite di Gino Capponi, e una lapide ricorda la dimora

che fece nel palazzo dell'amico, ove mori improvvisamente il 31 marzo 1850, consunto da tisi tubercolare. Fu sepolto in San Miniato al Monte, ove gli eresse un monumento il padre. Una statua ebbe poi a Monsummano.

Ai dodici anni risale il suo primo saggio poetico: certe ottave sulla Torre di Babele. Dal '31 in poi si volse alla poesia burlesca e satirica, seguendo le orme del Pananti e del Guadagnoli, come nel poema su Stenterello (Epistol., I, 84) e in altri componimenti, più tardi rifiutati; ma poi via via trovò una forma propria e nuova, e prese a soggetto la vita pubblica e le condizioni politiche. I suoi scherzi, com'egli li chiamava, corsero per l'Italia manoscritti e di bocca in bocca per qualche tempo, incontrando favore per l'argomento, per la novità della forma, e per certa facilità, apparente e non reale, dacchè, come appare dai manoscritti, costavangli grande fatica. Molti, anzi, crederono di poterlo imitare, non accorgendosi che quelle del Giusti, come disse il Manzoni, son chicche che non potevano esser fatte che in Toscana, e in Toscana che da lui (v. E. PANZACCHI, L'italianità del G. e le « chicche manzoniane», nell'Antolog. crit. mod. del MORANDI, p. 691). Poesie apocrife si trovano nella prima edizione fatta ad insaputa dell'autore in Lugano (1844), con prefazione di C. CORRENTI, e in molte successive. Le stampe curate o permesse dall'autore furono quella di Livorno, Bertani, Antonelli e C., 1844 (contenente rime amorose e varie), quella di Bastia, Fabiani, 1845 (contenente i versi politici); di Firenze, Baracchi, 1847, dei Nuovi Versi; postuma usci, già preparata in gran parte da lui e curata sugli autografi da M. TABARRINI, l'edizione di Firenze, Le Monnier, 1852. (Tra le edizioni posteriori citiamo quella di G. CARDUCCI nella collezione diamante del Barbèra, 1859; tra le commentate quelle del F10RETTO, Verona, Münster, 1876, del FANFANI e del FRIZZI, Milano, Carrara, 1880, del BIAGI, Firenze, Le Monnier; e con scelta di Prose, del BICCI, Firenze, Bemporad, 1895, ec.) (L. ALBERTI, A proposito di una nuova ediz. sulle poesie compl. di G. G., nella Rass. Nazion., 16 luglio 1891. Su poesie del Giusti poco conosciute o perdute, v. C. ALDERIGHI nel Giorn. di erudiz., V, 9, 10.)

Petrarcheggiando prima, o, com'ei dice, pagando al Petrarca il noviziato, belò d'amore; quindi con colore che si potrebbe dire romanticheggiante, dette anche saggi di buona lirica, con contenuto quasi sempre elegiaco (vedi Affetti di una madre, Il sospiro del l'anima, Ad una giovinetta, All' amica lontana, La fiducia in Dio, ec. G. O. CORAZZINI, Annotazioni di G. G. ad alcune sue poesie nelle Serate italiane, 17 febbraio 1895).

Nelle poesie politiche ha il merito singolarissimo di avere adattato alla satira grande varietà di metri, liberandola dall'obbligo dell' endecasillabo sciolto e della terzina; abilmente accordando col l'agilità e spesso rapidità di certi ritmi il concitato movimento della sua sferza satirica, agitata vigorosamente da mano salda e pronta.

Le poesie satiriche del Giusti formano tutte insieme un gran quadro dell'Italia de' suoi giorni; esse flagellano ogni piaga della società contemporanea, e fomentano ogni speranza di riscatto politico e di morale rinnovamento. Nel Dies ira egli impreca al morto carceriere dello Spielberg; nell'Incoronazione vitupera i principi, vassalli dello straniero; nello Stivale fa la storia delle vicende italiane ed augura un redentore; nella Terra dei morti rimbecca le vigliacche offese oltramontane; nei Grilli e negli Eroi di poltrona deride i vanti inani, non fecondati dal pensiero e dalle opere virili; negli Spettri del Settembre flagella i falsi liberali, pullulati all'alba del risorgimento: frusta a sangue nell' Arruffapopoli i demagoghi, come nel sonetto Che i più tirano i meno il difetto di vigore delle maggioranze. E guardando il costume corrotto, nei Brindisi alla frivolezza dei gaudenti oppone la rude parsimonia dei pochi non degeneri; nel Girella pone alla berlina la voltabilità sfacciata, come nel Gingillino la servilità abbietta del pecorame dicasterico; bolla la miseria della vecchia nobiltà e la sfacciataggine della nuova danarosa nella Scritta, nella Vestizione, nel Ballo; nell'Apologia del Lotto e nel Sortilegio, deridendo la superstizione e l'ignoranza delle plebi, accusa i potenti del turpe guadagno che vi fan sopra. Nel Giovinetto burla la gioventù sfiaccolata; negli Umanitarj e negli Immobili dai nebulosi sogni degli utopisti richiama al dritto imprescrittibile d'esser cittadino della propria nazione. Fino dal 1836, nello Stivale, propendeva a vagheggiare un regime unitario monarchico. Non fu tra i liberali più audaci; e, sebbene amico del Manzoni e del Capponi, l'autore del Papato di Prete Pero (1845), non può dirsi che seguisse i concetti dei neoguelfi. Non si spaventava del nome di repubblica; ma la voleva di onesti e generosi, e soprattutto mirava all'indipendenza e all'unità; alla patria sacrava « l'amor non timido e l'incorrotta fede, » non concorrendo coll'odio e col parteggiare insano a stringerle ai polsi « nuova e peggior catena. » Il carattere della sua satira si riassume nei versi (A una giovinetta, 1843):

Se con sicuro viso

Tentai piaghe profonde,

Di carità nell' onde
Temprai l'ardito ingegno

E trassi dallo sdegno il mesto riso,

sicchè si assomigliò al saltimbanco che muor di fame, e in viso ilare e franco Trattien la folla, sebbene qualche volta gli venisse voglia di stracciarsi i panni, che coprivano appena il canchero dell'osso, Ride egli adunque, ma per far fremere e pensare, e getta sul viso agli oppressori la parola dello scherno, che è ultima arma rimasta agli oppressi. La sua musa è perciò seria e grave, se anche la forma è arguta e frizzante, e perfino buffonesca; ed ei può dire, come Dante, che le corde della ferza sono tratte da amore.

Poco pubblicò in prosa. All'edizione Versi e Prose di G. Parini (Firenze, Le Monnier, 1846) premise un discorso Della vita e delle opere di G. P., e andava facendo studj sulla Divina Commedia, pubblicati postumi, non privi di qualche valore (Scritti varî in prosa e in verso per la maggior parte ined. pubbl. da A. GOTTI, Firenze, Le Monnier, 1863; Nuova raccolta di scritti ined. pubbl. da P. PAPINI, Firenze, tipogr. delle Murate, 1867). I Proverbj toscani raccolse e, pur troppo taluni soltanto, illustrò con acuto giudizio; li pubblicò, ordinandoli ed accrescendoli, G. CAPPONI (Firenze, Le Monnier, 1853).

L'Epistolario (ordinato da G. FRASSI, Firenze, Le Monnier, 1859, vol. 2; Lettere scelte, postillate per uso dei non Toscani da G. RIGUTINI, Firenze, Le Monnier, 1864; Epistolario scelto e annotato dal prof. O. GIUNTINI, Napoli, Morano, 1892) venne accolto con gran favore, ma troppo spesso le lettere rivelano il pensiero della pubblicità nè sempre hanno la schiettezza, talora un po' rude, che, per esempio, si riscontra in quelle del Foscolo. Specialmente per tal pubblicazione si rinnovò la disputa sul valore delle sue prose, nelle quali gli venne rimproverata la soverchia abbondanza de' fiorentinismi e in genere de' modi familiari; ma egli usò, se anche con abbondanza, sempre però con proprietà, il dizionario che gli suonava in bocca; ed errarono i mal cauti ammiratori ed imitatori. Il Manzoni ebbe a dire, parodiando un motto della Scrittura, che se dieci giusti potevano salvare una città, dieci Giusti potevano sciogliere la questione eterna della lingua e dello scrivere italiano. E certo all'esempio suo si deve se la nostra prosa in specie si è fatta più viva, più vera, più agile, se si è disimpacciata e snodata, e se tante forme efficaci toscane sono diventate comune patrimonio. Quanto all'Epistolario, dopo il CARDUCCI, il quale la maniera onde è scritto aveva detta « pedanteria in maniche di camicia, giustamente osservò FERDINANDO MARTINI, che non di rado non vi si fa che « mutare di accademia: si lascia cioè la togata per la vernacolare; e altrove, preludendo alle Memorie inedite, notò che nella prosa il Giusti ebbe tre maniere diverse: dapprima alla meglio o alla peggio cesarizzò anche lui; in seguito volle dare allo stile atteggiamenti più naturali, ma nell' Epistolario non vi riuscì e cascò da un eccesso in un altro. Salvo poche, quelle lettere odorano di rinchiuso... l'arte non giunge a nascondere l'artifizio, e la lima soverchia non aguzza lo stile, lo smussa. Senti, io credo, egli stesso che a quella prosa mancava nerbo e calore: che a furia di scioltezza era dinoccolata, a furia di proprietà paesana, faticosa ed oscura: difetti i quali durano, o io m' inganno, nella Introduzione alle Memorie; in queste scompaiono per dar luogo intero ad una prosa schietta, lucida, rapida, senza fronzoli; a tratti, dove il Giusti ebbe agio di emendare e ritoccare, mirabile di efficacia: esempio a chi voglia oggi dir tutto e tutto bene ed essere inteso da tutti: tanto

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