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assicurazione scambievole nei misfatti: e può cacciar via gli uomini rotti; ond'essi rimangono senza mallevadore nè protettore, veri sbanditi.

Sembra ancora che tra la famiglia e la tribù talvolta si trovino parecchi gradi d'associazione intermediaria, per cagion della diseguaglianza grandissima che v' ha nel numero degli uomini delle tribù: chè se ne conta di poche centinaia, ovvero di migliaia, quasi popolazione d'una provincia. Il corpo politico indipendente che noi diciamo tribù, o, per prendere una similitudine molto ovvia, il ramo staccato dall'albero, si appella in arabico con nomi diversi, secondo che si discosti più o meno dal tronco l'inforcatura ov'è tagliato il ramo: poichè ogni frazione di tribù consanguinea si accompagna alle altre o se ne spicca a suo piacimento nei liberi campi del deserto.

Non è mestieri aggiugnere qual divario corra tra le famiglie in punto di ricchezza; consistendo questa in proprietà mobili, e di più mal difese contro gli uomini e peggio contro i fenomeni della natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e riputazione delle famiglie in una nazione, che sta sempre in su la guerra e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta necessariamente la nobiltà ereditaria. V ha inoltre la riputazione di nobiltà di una tribù, o circolo sopra gli altri, poichè tra loro quella che noi diremmo cittadinanza, si confonde con la parentela. La forma di governo della tribù torna all'aristocrazia, ma larga; temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza dell'ordinamento sociale. Perciò, di rado si vede degenerare in oligarchia e quasi mai in principato.

Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali, nate quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a comporre con essi per danaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a chiamare in lor divisioni quegli agguerriti vicini. Le abitazioni fisse dell'Arabia centrale sono stanze di commercio o ville di agricoltori; concorronvi uomini di altre schiatte arabiche, concorronvi stranieri, e il reggimento talvolta si riduce nelle mani di pochi e anco vi prevale un solo: effetto necessario della proprietà più certa, delle plebi vili e mescolate, della fatalità della umana natura, che si stempera quando sta in riposo. Nondimeno, sendo le armi in mano delle tribù libere, la servitù non può allignare troppo tra i cittadini.

Per le medesime cagioni le fattezze e costumi, ancorché diversi, pur in molti punti si rassomigliano. I figli del deserto hanno alta statura, corpi robusti, asciutti, puri lineamenti della schiatta caucasica in volto, barba non troppo folta, bellissimi denti, sguardo sicuro, penetrante; avvilup

pati la persona in ampie vestimenta, coperti la testa e il collo con bizzarra foggia di cuffia, chè da loro par ne venga tal voce; vanno alteri al portamento, maneggian destri le armi, padroneggiano i cavalli, animale amico loro più che servo traggono vanto dalla rapina; impetuosi nell'ira, tenaci nell'odio, ospitalissimi, leali alle promesse; ardenti nell'amore che merita il nome; son contenti per lo più d'una sola moglie, la comprano, la ripudiano, ma li ritiene di maltrattarla troppo il rispetto della parentela di lei ; nè tengon chiuse le donne, nè appo loro la gelosia vieta le oneste brigate con donzelle, ne i teneri canti e i balli. Tra la libertà della parola, l'uso alla guerra e la compagnia del sesso più delicato, si comprende perchè i Beduini sentano si altamente in poesia. La gente delle città, meno schietta di sangue, anco per cagion dei figliuoli che han da schiave negre, men forte, usa turbanti e fogge di vestire più spedite e di pregio, e con ciò non pare svelta nè elegante al par de' Beduini; unisce le passioni violente con la frode; le tenere non conosce, ma la libidine; usa poligamia, divorzj, concubine; sprezza e tiranneggia le femine, quando il può senza pericolo; sempre le allontana da' ritrovi cerca in vece gli stravizzj, in ogni cosa mostra il predominio dei piaceri materiali sopra quei dell'animo. Tali i cittadini i cui costumi più discordino dai nomadi. Ma v'ha gradazioni tra gli uni e gli altri. Le popolazioni mercatantesche, stando sempre in cammino, partecipano del valore e sobrietà dei Beduini. Similmente le famiglie nobili delle città amano a imitare i guerrieri della nazione; e alcune usano mandare a balia i figliuoli appo le tribù del deserto, nelle quali sono educati fino all' adolescenza. Son poi virtù comuni a tutta la schiatta arabica la liberalità, l'ospitalità, il coraggio, l'audacia delle intraprese, la perseveranza; vizj comuni la superstizione, la rapacità, la vendetta, la crudeltà; tutti han pronto ingegno, arguto parlare, inclinazione alla eloquenza ed alla versificazione. (Dalla Storia dei Musulmani di Sicilia, lib. I, cap. 3.)

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LUIGI GORACCI. Nacque ai 17 aprile 1808 in Foiano di Valdichiana, dove fu priore di Santa Cecilia alla Pace, e ai 9 marzo 1883 mori proposto di Laterina in Valdarno; passò vita operosa e modesta nell'insegnamento privato, e come rettore, per pochi anni, del Collegio di Castiglion Fiorentino. Latinista insigne, scrittore italiano facile e purgato di prosa e di verso, lasciò inedita, lavoro di tutta la sua vita, una versione delle Metamorfosi in ottava rima; pubblicata (Firenze, Success. Le Monnier, 1894; due vol. col testo a fronte) per cura di ISIDORO DEL LUNGO, che vi ha premessa una Notizia biografica e critica, ed aggiuntovi un Discorso di MICHELE KERBAKER, comparativo del lavoro del Goracci con quello de' due pur recenti traduttori (ma in verso

sciolto) del poema ovidiano, Brambilla e Dorrucci. Il Del Lungo e il Kerbaker presentano concordi quest' Ovidio toscano come il trionfatore di tutte le altre versioni, e quello pel quale l'arte pittrice del Poeta sulmonese rivive con brio ariostesco, ma co' suoi genuini caratteri, nella poesia italiana.

Mida.

Era Mida costui, cui il tracio Orfeo
Ed Eumolpo d' Aten le orgie insegnaro.
Poichè il compagno in lui del buon Lieo
Conobbe il re, tanto il venir gli è caro
Del forastier, che dieci giorni e diece
Notti gran festa ed allegria ne fece.

Già il seguente Lucifero disperse
Avea le stelle per lo ciel sereno;
Quando in Lidia venuto, il re profferse
Lieto all'alunno e ridonò Sileno.

A lui la grata e in un dannosa offerse
Scelta d'un don, qual che i suoi voti sieno,
Contento il dio. - Deh fa', disse lo sciocco,
Che oro diventi tutto ciò ch'io tocco. -

Al folle voto satisfece, e sciolse
Bacco il bel dono, al chieditor funesto;
Ma poi che il fin ne presagia, si dolse
Che altro chieder potea miglior di questo.
Lieto di ciò che in proprio danno volse
Mida sen va; ned è a pigliar men presto,
Tutto toccando, esperienza e fede
Del ben promesso, e a sè quasi non crede.
Distacca un verde ramoscel da bassa
Elce, già d'oro è il ramoscel che ha tratto:
Toglie un sasso dal suol là dov' ei passa,
E quel sasso già d'òr pallido è fatto:
Tocca una zolla, e preziosa massa
Divien la zolla alla magia del tatto:
D'aride spighe ancor strappa una ciocca;
Aurea messe si fan quelle ch'ei tocca.

Se da pianta spiccando un pomo ei coglie,
Dell' Esperie, diresti, ecco è un presente:
Sol d'un dito al posar sull' alte soglie,
L'auro là vedi sfolgorar lucente:
Se onda a lavarsi nelle palme accoglie,
Potria Danae ingannar l'onda scorrente.
Mal nell' ebro suo cor cape l'immensa
Speme, e in oro mutar tutto già pensa.

Il re Mida conobbe in Sileno il compagno di Bacco.

Mentre lieto è così, le mense foro
Colme di pane e di vivande elette;
Ma tolse appena il cereal tesoro,
Che rigido metallo in man gli stette:
O mosse il dente alle vivande, e d'oro
Fulgida piastra ogni boccon splendette:
O il donator con la pura onda mesce,
Per le labbra fluid or gorgoglia ed esce.

Stupito al nuovo danno, odia e detesta
Suoi folli voti il misero opulento;

Pure in mezzo ai tesor fame il molesta,
Di sete arde, e gli è l'òr degno tormento;
E alzando al ciel le man fatate, in mesta
Voce, O padre Leneo, disse, mi pento;
Miserere di me, dammi perdono,

E ripigliati il tuo funesto dono.

Son clementi gli Dei: Bacco, ritolto
Al pentito il suo don, del fallo il monda;
Ma perchè del maligno oro sia sciolto,

- Va', dice, al rio che la gran Sardi inonda;
E là, contr'acqua il tuo cammin rivolto,
Tanto fa' di salir lungo la sponda,

-

Che giunto si fino alla ricca fonte,
D'onde il fiume spumante esce dal monte.
Sopponi il capo alla fluvial sorgiva,
E fia col corpo in un tua colpa astersa.
Giunto il re si gettò giù dalla riva
Là 've il fiume la molta acqua riversa.
Qui da lui nel Pattòl passò la diva
Aurea virtù nel vasto gorgo immersa;
D'allór quei campi han tra le glebe il seme
Del pallid' or che occulta vena spreme.

(Dal lib. XI, 16-24.)

BETTINO RICASOLI. Di antica prosapia, menzionata in una bolla di Gregorio VII del 1076, nasceva Bettino Ricasoli in Firenze ai 9 marzo 1809. Perduto ancor giovane il padre, attese con virilità di propositi e laboriosità a rimetter in sesto l'azienda domestica, non senza dar qualche parte del suo tempo alle scienze naturali. Ammogliatosi nel 1830, si ridusse nel castello di Brolio sul Senese, ed ivi, lontano dalle volgarità della vita, attese a far rifiorire il vasto possesso, introducendovi i miglioramenti dell' esperienza e della scienza, e governando la famiglia colonica con un reggimento tra il patriarcale e il feudale, raddolcito tuttavia da sensi di carità e di viva sollecitudine pel rinnovamento materiale e morale del contadino. Ma insieme attese con pari ardore e perseveranza a rifar sè stesso, e rendersi degno dei doveri di capo

di una nuova famiglia e continuatore di una stirpe illustre. Questo periodo di educazione di sè medesimo e di quanti gli stavano attorno, quest'esercizio di una volontà ferrea consapevolmente diretta al bene, fecondato da assidue meditazioni sui più gravi problemi della vita pubblica e privata, sulla morale individuale e sociale e sulla religione, ch' ei sentiva vivamente, ma non era quella < petrificata dal sacerdozio, poteva dirsi ormai compiuto, quando maturavansi i nuovi destini d'Italia. Ritornando in Firenze, egli era già conosciuto e tenuto in conto di un uomo, che, come gli antichi cittadini fiorentini, s'intendesse egualmente della « masserizia » domestica e del bene pubblico. Cogli amici suoi Vincenzo Salvagnoli e Raffaele Lambruschini, dei quali l'uno gli era stato principal consigliere nelle cose della vita civile e l'altro in quelle dell'uomo interiore, fondò allora il giornale La Patria, propu. gnando specialmente i concetti di ordinamento dello Stato e di preparazione all' indipendenza mediante la Lega. Mandato a Carlo Alberto in missione, potè cogliere dalla bocca stessa di lui concetti e speranze di una prossima impresa contro l'Austria. Fu gonfaloniere di Firenze, e poi, proclamato lo Statuto, deputato del 1o Collegio al Consiglio generale toscano. Ivi stette fra i più temperati, facendo argine per quanto potevasi all'irrompere delle passioni politiche: poi, caduto il Ministero Capponi, accettò di formarne egli un altro; ma la fiumana ormai traboccava involgendo tutto e tutti, ed egli si trasse in disparte. Quando il 12 aprile 1819 la popolazione sperò, richiamando Leopoldo II fuggiasco a Gaeta, di poter conservare anche gli ordini liberi, il Ricasoli fu chiamato con altri a far parte della Commissione governativa, che durò fino all' entrar degli Austriaci. Ritornò allora a chiudersi nel suo castello e si rimise ai lavori agricoli; ma dai fatti avvenuti riportò una profonda e chiara persuasione, che l'Italia non potesse risorgere se non per virtù di pensiero e d'armi e concordia di voleri e di forze, e di queste facendo un sol fascio. L'idea unitaria era in lui, secondo ei si esprimeva, << come ingenita; sicchè fin dal marzo 1848 scriveva al fratello Vincenzo: « Quello che non è, sarà: cioè che l'Italia tornerà una » (Epistol., I, 322). «Io aspetto, › gli riscriveva ai 14 ottobre '56, «e antiveggo che sarà; questa fede è in me radicata, e a me basta questo godimento del pensiero (Epistol., II, 378). La morte della moglie, avvenuta nel '52, e della quale rimase addoloratissimo (v. R. LAMBRUSCHINI, Elogio di Anna Ricasoli, in Elogi e biograf., Firenze, Succ. Le Monnier, 1872, pag. 189), lo avrebbe richiamato ad uscir dalla solitudine, per «riedificar cosa che gli stesse in luogo e vece della famiglia › (ibid., 210); e interrogando sè medesimo, ei notava in un libro di ricordi: Rotta la base della mia vita, or mi conviene trovarne un'altra..... Per ufficj pubblici non ho genialità. Ne accetterei quando fossero di quelli e in quelle circostanze, che potessi avere molto potere ed essere capo. Sento in me grande controgenio per tutto

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