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Togliendo rifugio nella propria coscienza, sotto l'usbergo del sentirsi puro, incidendo la notte nelle pagine immortali, ch'ei non poteva dare al mondo se non dopo la tomba, la nobile sua vendetta, ei si serbò fedele al suo Dio, al suo fine, a sè stesso. Nulla valse a piegare o a corromper quell'anima. Come il diamante, essa non poteva esser vinta fuorchè dalla propria polve. (Dagli Scritti, IV, p. 210 e segg.)

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MICHELE AMARI. Nacque in Palermo ai 7 luglio 1806: vide nella sua giovinezza l'imperversare dell'assolutismo borbonico, e ne concepi vivo abborrimento, e amor devoto alla libertà della patria. Postosi a studiare la storia dell'isola nativa, si fermò ai fatti del 1282, che narrò in un libro comparso a luce col titolo Un periodo delle istorie siciliane del sec. XIII, mutato poi in quello di Storia della guerra del Vespro Siciliano (1a ediz., Palermo, 1842; 9a ediz., Milano, Hoepli, 1886, 3 vol., più uno di Altre narrazioni del V.S., ibid., 1887). In esso, sfrondando l'aureola, che la leggenda aveva posta intorno al capo di Giovanni da Procida, volle dimostrare come la sollevazione siciliana del sec. XIII non fosse frutto di congiure e d'intrighi, ma opera di popolo, mosso dalla mala signoria, a gridar < mora mora. » Il governo borbonico, il quale si accorse dell'insegnamento che dal libro scaturiva, sospese l'Amari dall'ufficio da lui tenuto nella Segreteria di Stato, e lo chiamò a Napoli; ma egli, prevedendo la sua sorte, prese la via dell'esilio (1842), e si fissò a Parigi. Ivi maturò il pensiero di scriver la storia della dominazione musulmana in Sicilia, e si pose a raccoglier documenti e a studiar l'arabo. La sollevazione del '48, alla quale egli cooperava da lungi coll'opera propria, e colla pubblicazione del Saggio del Palmieri sulla costituzione del regno di Sicilia (Losanna, Bonamici, 1847), lo richiamò in patria, dove tenne l'ufficio di Ministro delle finanze dal marzo all' agosto, finchè fu mandato a Parigi e a Londra, rappresentante zelantissimo ed instancabile della rivoluzione siciliana. Caduta questa, ripigliò la via dell'esilio, e pose mano di nuovo all'insigne monumento di dottrina e di sagacia storica, ch'è la Storia dei Musulmani di Sicilia (Firenze, Le Monnier, 3 vol., 1854-1872): compì anche altri lavori, fra i quali è da ricordare la traduzione del Solvvan el Mota' di Ibn Zafer (Firenze, Le Monnier, 1851). Il 1859 gli riaprì le porte d'Italia, ed il governo provvisorio toscano lo chiamò a insegnar l'arabo a Pisa e poi a Firenze; ed il 1860 quelle della Sicilia, ove Garibaldi lo fece Ministro dell'Istruzione e dei Lavori pubblici, e poi degli Esteri. Fatta l'unità della patria, fu nominato Senatore (1861), indi Ministro dell'Istruzione pubblica (1862-64). Uscito dal Ministero, riprese l'insegnamento e chiese alla famiglia le gioje ch'essa sola sa dare, continuando indefesso a lavorar per la scienza colla pubblicazione dei Diplomi arabi del R. Archivio fiorentino (Firenze, Le Mon

nier, 1863) e con Memorie negli Atti dell'Accademia dei Lincei, e a giovar la patria nelle discussioni del Senato. Nel 1882 fu a Palermo a celebrarvi il sesto centenario del Vespro, del quale in tal occasione pubblicò un Racconto popolare (Roma, Forzani), oltre una lezione sull' Origine della denominazione Vespro Siciliano (Palermo, Tipogr. dello Statuto). Morì, da tutti amato e compianto, in Firenze ai 16 luglio 1889, e le sue ceneri furono trasportate a Palermo.

[Per la biografia e bibliografia, v. OR. TOMMASINI, La vita e le Opere di M. A., nelle Mem. dell'Accad, dei Lincei, seduta 20 apri le 1890; e A. D'ANCONA, Commemorazione di M. A., negli Atti della R. Accad. della Crusca, 21 dicembre 1890 (Firenze, Cellini, 1891), riprodotta anche in fronte al Carteggio letterario e politico di M. A. raccolto dal medesimo, Torino, Roux, 1895.]

II Vespro Siciliano. A mezzo miglio dalle mura meridionali della città, sul ciglio del burrone dove scorre l'Oreto, sorge una chiesa dedicata allo Spirito Santo; della quale i latini padri non lascerebber di notare, come il di che sen gittava la prima pietra, nel secol dodicesimo, seguì una ecclisse di sole. Dall' una banda il dirupo e il fiume, dall'altra corre infino a città la pianura, la quale in oggi ingombrasi per gran tratto di muri e d'orti, e un chiuso negro di cipressi, tutto scavato di tombe, e sparso d' urne e di lapidi, rinserra la chiesa con giusto spazio in quadro; cimitero pubblico, che si costruì al cader del decimottavo secolo, e la dira pestilenza del milleottocentotrentasette, esiziale a Sicilia, in tre settimane orribilmente lo colmò. Per questo allor lieto campo, fiorito di primavera, il martedi a vespro, per uso e religione, i cittadini traeano alla chiesa: ed erano frequenti le brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano lor danze; fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da' rei travagli un istante; allorchè comparvero i famigliari del giustiziere, e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l'usato piglio veniano gli stranieri a mantenere, dicean essi, la pace. A ciò mischiavansi nelle brigate, entravano nelle danze, abbordavano dimesticamente le donne; e qui una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle più lontane, parole e gesti disdicevoli. Onde, chi pacatamente ammonilli se n'andassero con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma i rissosi giovani alzarono la voce si fieri, che i sergenti dicean tra loro: << Son armati questi ribaldi paterini, poichè osan rispondere; » e però rimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie vollero per dispetto frugarli, se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi ad alcun cittadino. Già d'ambo i lati battean forte i cuori. In questo, una giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto, con lo sposo, coi

congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta o licenza, a lei si fa come a richiedere d'armi nascose, e le dà di piglio, le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; lo sposo soffocato di rabbia : « Oh muoiano, urlò, muoiano una volta questi Francesi! » Ed ecco dalla folla che già traea, s'avventa un giovane; disarma Droetto, lo trafigge; probabil è ch'ei medesimo cadesse ucciso al momento, restando ignoto il nome e l'essere suo, e se l'abbia mosso amor dell'ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o alto pensiero di dar via al riscatto. I forti esempj, più che ragione o parola, infiammano i popoli. Si destaron quegli schiavi del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e il grido, come voce di Dio, dicon le storie de' tempi, eccheggiò per tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadon su Droetto vittime dell' una e dell'altra gente; e la moltitudine si scompiglia, si spande, si serra: i nostri con sassi, bastoni e coltelli disperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a piè; cercavanli, incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchi festivi, e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza del popolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zufľa: grossa la strage de nostri; ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento.

Alla queta città corrono i sollevati, sanguinosi, ansanti, squassando le rapite armi, gridando l'onta e la vendetta: Morte ai Francesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola, l'arcano linguaggio delle passioni, sommossero in un istante il popol tutto. Nel bollor del tumulto fecero, o si fece dassè, condottiero Ruggier Mastrangelo, nobil uomo e il popolo ingrossava; spartito a stuoli, stormeggiava per le contrade, spezzava porte, frugava ogni angolo, ogni latebra: « Morte ai Francesi! » e percuotonli, e squarcianli; e chi non arriva a ferire, applaudisce e schiamazza. S'era il giustiziere a tal subito romore chiuso in palagio; e in un momento, una rabbiosa moltitudine chiamandolo a morte, circonda il palagio; abbatte i ripari, infellonita irrompe: ma il giustiziere le sfuggi, che ferito in volto, tra le cadenti tenebre e 'l trambusto, inosservato, montando a cavallo con due famigliari soli, rapidissimo s'involò. Intanto per ogni luogo infuriava la strage; nè posò per la notte soppraggiunta, e rincrudi la dimane; e l'ultrice rabbia non pure si spense, ma il sangue nemico fu quel che le mancò. Duemila Francesi morirono in quel primo scoppio. Negossi ai lor cadaveri la sepoltura de' battezzati; ma poi si scavò qualche carnaio ai miserandi avanzi : e la tradizione ci additava la colonna sormontata d'una croce di ferro, che la pietà cristiana aveva innalzata in un di quei luoghi, lungo tempo dopo il di della vendetta. Narra la tradizione ancora, che il suon d'una voce fosse stata la dura prova onde scerneansi in quel macello i Francesi, come lo scibbolet nella

tribù d'Efraim; e che se avveniasi nel popolo uom sospetto o mal noto, sforzavanlo col ferro alla gola a profferir ciciri, e al sibilo dell'accento straniero, spacciavanlo. Immemori di sè medesimi, e come percossi dal fato, gli animosi guerrieri di Francia non fuggiano, non s'adunavano, non combatteano: snudate le spade, porgeanle agli assalitori, ciascuno a gara chiedendo: Me, me primo uccidete; » sì che d'un gregario solo si narra, che ascoso sotto un assito, e snidato coi brandi, deliberato a non morir senza vendetta, con atroce grido si scagliasse tra la turba de' nostri disperatamente, e tre n'uccidesse pria di cader egli trafitto. Nei conventi dei Minori e dei Predicatori irruppero i sollevati : quanti frati conobber francesi trucidarono. Si lavaron le mani nel sangue degli uccisi. Gli altari non serviron d'asilo: prego o pianto non valse non a vecchi si perdonò, non a bambini nè a donne. I vendicatori spietati dello spietato eccidio d'Agosta, gridavano che spegnerebber tutta semenza francese in Sicilia; e la promessa orrendamente scioglieano, scannando i lattanti su i petti alle madri, e le madri da poi, ne risparmiaron le incinte; se non che alle siciliane gravide di Francesi, con atroce misura di supplizio spararono il corpo, e scerparonne e sfracellaron miseramente a' sassi il frutto di quel mescolamento di sangui d'oppressori e d'oppressi. Questa carnificina di tutti gli uomini d'una favella, questi esecrabili atti di crudeltà, fean registrare il Vespro siciliano tra i più strepitosi misfatti di popolo; chè grosso è il volume, e tutte le nazioni scrisservi orribilità della medesima stampa, e peggiori le nazioni or più civili, e in tempi miti e anche svenevoli; e non solo vendicandosi in libertà, non solo contro stranieri tiranni, ma per insanir di setta religiosa o civile, ma ne' concittadini, ma ne' fratelli, ma in moltitudine tanta d'innocenti, che spegneano quasi popoli intieri. Ond' io non vergogno, no, di mia gente alla rimembranza del Vespro, ma la dura necessità piango che avea spinto la Sicilia agli estremi, insanguinata coi supplizi, consunta dalla fame, calpestata e ingiuriata nelle cose più care; e si piango la natura di quest' uom ragionante che si dice plasmato a somiglianza di Dio, e d'ogni altrui comodo ha sete ardentissima, d'ogni altrui passione è tiranno, pronto ai torti, rapido alla vendetta, sciolto in ciò d'ogni freno quando trova alcuna sembianza di virtù che lo scolpi; sì come avviene in ogni parteggiare di famiglia, d'amista, d'ordine, di nazione, d'opinion civile o religiosa. (Dalla Guerra del

Vespro Siciliano, cap. VI.)

Gli Arabi e loro costumi. La tribù nomade, o, come di con essi, beduina, che suonerebbe appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz'altri legami che del sangue, senz'altra sanzione penale che la vergogna e il timore dell' altrui vendetta e rapacità. Quivi l'unità elementare delle società

non è l'individuo, ma si la famiglia; nè risiede vera autorità che nel capo della famiglia. Ei comanda assoluto ai figliuoli e a lor prole; agli schiavi fatti in guerra o comperati; ai liberti che rimangono in clientela; agli affidati, uomini stranieri e liberi venuti a porsi sotto la sua protezione: ei li nutrisce, li difende dall' altrui violenza, e, quando ne recassero ad altrui, ripara il torto o affronta la vendetta. Nel numero e zelo de' suoi sta la forza del capo; la ricchezza nei servigj loro, negli utensili e negli armenti: nè è mestieri autorità di legge a mantenere insieme tal corpo.

Fuori dalla famiglia cominciano le associazioni: volontarie al tutto; ma seguon anco la parentela. Così varie famiglie fanno un circolo, come lo chiamano gli Arabi dall'uso di piantare in cerchio lor tende; al quale è preposto uno sceikh, o diremmo noi anziano, più tosto che eletto, designato senza forme di squittinio dalla riputazione della persona e importanza della famiglia; talchè l'ufizio spesso diviene ereditario per molte generazioni. È capo fittizio della parentela: magistrato senza impero sopra i privati; senz' arbitrio nelle cose comuni del circolo, nelle quali dee seguire il voto dei padri di famiglia. Infine lo sceikh rappresenta, come oggi direbbesi, il proprio circolo nella tribù. La quale unisce insieme varie parentele di un medesimo legnaggio; ordinata alla sua volta come il circolo, guidata da un capo, che vien su tra accordo e necessità come quello del circolo, e regge le faccende comuni della tribù: mutare il campo, far guerre o leghe; sempre con l'assentimento degli sceikhi, fors' anco di altri potenti capi di famiglia. Suole altresi capitanare gli armati della tribù nelle scorrerie e zuffe; ma talvolta, e più spesso oggi che nei tempi andati, il condottiero è scelto a posta.

Tale è loro gerarchia, politica insieme e militare, chè mal si distingue appo i Beduini. Ordini civili, che meritino il nome, non ve n'ha. La forza mantiene la roba quando non vi basti il credito della famiglia; e se la forza non può, il furto divien legittimo acquisto. Un po' più efficace la guarentigia delle persone; perchè il circolo è la tribù vi si sentono tenuti in onore, e più volentieri pigliano le armi a vendicare il sangue, o contribuiscono con le facoltà a pagare il prezzo di quello ch'abbia sparso alcun de' loro. Il quale compenso, assurdo e iniquo in una civiltà, umano nella barbarie, è in uso da antichissimi tempi in Arabia, come nel medio evo in Europa, ove il portarono i nomadi del Settentrione; ma gli Arabi, men pazienti di freno che non sieno mai stati i popoli germanici, non soleano accettare il prezzo del sangue se non che esausti dopo lunga vicenda di omicidj. Le multe per omicidio, troppo gravi ad una sola famiglia, troppo fastidiose a tutta la tribù, si soglion fornire dal circolo; il quale indi si direbbe società di

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