Page images
PDF
EPUB

tuti da Bolognesi, Toscani, Tedeschi. Vittorie insomma alternate a sconfitte, più vergognose talvolta delle sconfitte; brevi concordie, brevi trionfi, lunghi guai, tenaci odii, propositi perseveranti, fortissime volontà; esuberante la vita, in estrinseci atti sfogate e dilatantisi le potenze dell'anima: passioni non fiacche, virtù non bugiarde, misfatti non timidi. Robusti i corpi, ardenti le fantasie, svariate le usanze, giovane e maschio il linguaggio. La donna or conculcata come creatura men che umana, or venerata com' angelo, ora partecipante della virile fierezza, comunicante all' uomo le doti che la fanno divina. Vicenda a vicenda succedere com'onda a onda; la sventura alternata alla gioia, come a brevi di lunghe notti; il governo de' pochi e il governo de' troppi confondersi insieme. Alti fatti di guerra, esempi degni dell'ammirazione de' secoli, chiusi nel cerchio d'anguste città; grande talvolta, nella piccolezza de' mezzi, l'intenzione e lo scopo; parole e opere che pajono formole d'un principio ideale. La religione sovente abusata, ma non si che i benefizii non ne vincano i danni: ignudi i vizii, ma non senza pudore; efferate le crudeltà, ma non senza rimorso; memorabili le sventure, ma non senza compenso di rassegnazione o di speranze o di gloria. Le plebi occupate alle nuove arti, al traffico, al conquisto de' civili diritti; i nobili operosi spesso al bene, spessissimo al male, ma pure operosi; e dalle inquietudini dell'animo e dalle fatiche del corpo fugata l'inerzia, peste degli Stati, la noja, inferno degli animi. La religione non divisa dalla morale, nè la scienza dalla vita, nè la parola dall' opera: il sapere composto a forte unità. Le dottrine de' secoli passati abbellite di novità o per l'ignoranza delle moltitudini, o pe'nuovi usi in cui si venivano, applicate, innovando. Novità ad ogni tratto nelle costituzioni, ne' costumi, ne' viaggi, nelle arti. Tale era il secolo in cui vide la luce Durante Aldighieri.

A lui fu grande maestra la pratica appunto de' civili negozii. «Niuna legazione (dice il Boccaccio) si ascoltava, a niuna si rispondeva, niuna legge si riformava, niuna pace si faceva, niuna guerra s'imprendeva.... s'egli in ciò non desse prima la sua sentenza. » E quale dalla vita attiva provenga temperamento equabile alle umane facoltà, sempre intese a soverchiar l'una l'altra: quanta rettitudine di giudizii, agilità di concetti, sicurezza di modi, parsimonia d'arfifizii, autorità, compostezza: i letterati moderni sel sanno, che, per volere o per fortuna lontani dalla esperienza delle pubbliche cose, svampano in fiamma fumosa il calor dell'affetto; i fantasmi dell'imaginazione scambiano con la viva realtà, or troppo meno or troppo più bella che ai lor occhi non paja: e parlano si che gli uomini involti nella pratica delle faccende, quelle loro artifiziose declamazioni disdegnano, le moltitudini quell' affaticato linguaggio comprendono appena. Molto dunque dove l'Allighieri all' essere vis

suto cittadino non inerte di repubblica sua: dovè forse la somma delle sue lodi, quella franca e virile severità, che già comincia nel Petrarca ad ammorbidirsi in gentilezze letterarie, e nel Boccaccio è sepolta sotto le molli eleganze.

Ne gli studi dalle civili faccende, nè queste lo stolsero dagli studi: rara costanza e concordia di due in apparenza contrarii esercizii. « Per la bramosia degli amati studi non curò (dice il Boccaccio) nè caldo nè freddo, nè vigilie nè digiuni, nè alcun altro corporale disagio: » ed egli medesimo parla de' lunghi studi con grande amore consumati, e delle fami, de' freddi, delle vigilie sofferte, che lo dimagrarono per più anni. Queste cose son buone a ridire. Perchè, sebbene ne'giovani italiani sia in modo fausto scemata la cupidigia delle vergognose ricchezze e de' vituperevoli onori, e s'additino con dispetto gli esempi di chi vende a speranze indegne la coscienza e la fama; pur tuttavia manca ai più l'animosa pazienza di battere le lunghissime vie che alla vera lode conducono. Le facilità molte oggidi procurate a molte opere della vita fanno altrui parere mirabilmente agevole della sapienza l'acquisto; si che il piacere è da costoro creduto premio e corona al piacere. E veramente piene di diletti inenarrabili sono le fatiche dell'uomo che intende a conoscere e a difendere il vero; ma fatiche pur sono, e richieggono tempo e intensione d'animo e di mente, e vita modesta e astinente dalle turpi inerzie del mondo.

<< Se, inimicato (dice il Boccaccio di Dante) da tanti e siffatti avversarii, egli, per forza d'ingegno e di perseveranza, riusci chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare ch'esso fosse divenuto avendo altrettanti aiutatori?> No. Con meno avversità l'Allighieri sarebbe sorto men grande; perchè gli uomini rari alla natura debbono il germe, alla sventura l'incremento della loro grandezza. Quella vena di pietà malinconica che nel poema pare che scorra soavemente per entro alla tempera ferrea dell'anima sua, quell' evidenza che risulta dalla sincerità del profondo sentire, quella forza di spirito sempre tesa e che par sempre quasi da ignoto movente irritata e in alto sospinta, sono in gran parte debite alle umiliazioni e ai disagi della sua calunniata, raminga e povera vita. (Dal Commento a Dante, vol. I.)

[ocr errors]

Di sè stesso quasi cieco e presso a esser vedovo.

Sole di Dio, la vivida

Luce che crea l'aprile e fa l'aurora,
Nella pupilla languida

Versa di sè pur qualche stilla ancora.
Qual chi da buia carcere

Esce all' aperto, e la catena ha seco;

Qual chi, l'opaca tunica

Toltagli, esclama: or non son io più cieco?;

Tal, come di miracolo
Quotidian, ti rende il pensier mio
Grazie, e con gioia trepida

Dice: I'ti veggo ancor, sole di Dio.
Dal buio che l'attornia,

Discerne ancor sulla parete il bianco
Raggio posare, e il coglie,

Quasi candido fior, quest'occhio stanco.
Ma non distingue il tremulo

Scintillar delle stelle, e i bei colori
Dell'iride, e il sorridere

De' visi amati, e in mezzo al verde i fiori.
Ah sia continue tenebre

La mia giornata estrema tutta quanta,
Purchè tu sole all'anima

Quaggiù mi resti, oh mansueta, oh santa.
Nel paziente e vigile

Senno romita, ed umilmente altera,
Tu nel mio verno un florido
Ispirasti alitar di primavera.

La man tua fida il povero

Cieco sorregga, e di tua mente pura
L'occhio la via gl'illumini,

Salvo mi scorga alla mia sepoltura.
Senza di te, cadavere

Pien di vivi dolor', che farei io?
Della sua pace il raggio

Non mi s'asconda. Orate, Angeli, a Dio.

FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI. Di « antica gente: com'ei più volte afferma, ma ridotta a condizion popolare, nacque in Livorno ai 10 agosto 1804. Fin da fanciullo mostrò vivo ingegno, forte volere, animo risoluto, e tenace per modo, che, venuto a contrasto col padre, abbandonò giovinetto la casa paterna, campando del correggere stampe. Dalla madre non ebbe che rimbrotti e percosse, e di queste portò le cicatrici sulla persona tutta la vita (v. Lettere, I, 160). Così, privo di conforti domestici, < sulle jattanze della plebe livornese, come dice il Capponi (Scritti editi ed ined., II, 128), foggiò a sẻ medesimo l'idea della forza », e, chiuso in sè medesimo, ma presago del suo valore, divenne < smisurato nei disegni, intemperante nelle ambizioni. » Andato quindicenne a Pisa a studiarvi legge, fu fatto segno ai sospetti della polizia, e bandito per un anno: « la somma degli studj fu, secondo egli scrive, istruzione nulla, persecuzione molta, fastidio degli uomini e della vita, tristezza crescente. » Com' egli, adolescente leggesse d'ogni sorta libri e come si innamorasse dello

stile bironiano, si vede dal brano delle sue Memorie che riferiamo. Attendendo insieme alle cose forensi, che gli dovevan procacciar guadagni, e alle letterarie, onde cercava gloria, dopo aver fatto per editori compilazioni e traduzioni, tentò il dramma con un Priamo, non recitato ma stampato (Livorno, Vignozzi, 1826), e coi Bianchi e Neri, che non ebbero lieta accoglienza, sicchè si svogliò del teatro e della poesia, e fu poeta in prosa, come portavano il genio de'tempi e gli esempj, massime stranieri, del romanticismo in voga. Primo suo lavoro di mole fu La Battaglia di Benevento, uno dei più cospicui saggi di quella letteratura, che fu detta satanica. Ne giudicò con benevolenza non disgiunta da severità il Tommaseo nell'Antologia, rimproverandogli più ch'altro una << affettazione di forza, che tien del convulso », e che rimase difetto costante dello stile guerrazziano. Ne parlò il Mazzini nell'Indicator genovese, ravvisando in lui « possanza d'immaginazione, di cuore e di mente», ma biasimandolo di offuscar le sue doti colla nube della disperazione, che fa del creato un deserto », e affermando inutile ogni opera d'arte « se dal fondo non penetri il raggio della speranza ». Licenziandone nel 1852 la quindicesima edizione, ritoccata nello stile (Firenze, Le Monnier), l'autore stesso giudicava il suo romanzo « libro ardentissimo, e non di bella fiamma », nel quale « traspira certo sgomento per nulla naturale all'età» in che esso venne scritto, che fu il ventunesimo anno; e di ciò incolpa i molti guai che fin dalla gioventù lo inasprirono, la condizione de' tempi, che pareva irrimediabile, e il culto del Byron. Ma, con tutti i difetti, la Battaglia di Benevento, specialmente dopo le nuove cure dell'autore, resta, per vivezza di forme e gagliardia di composi zione, uno de'migliori suoi scritti narrativi. Soppresso l'Indicator genovese (10 maggio-20 nov. 1828), il Guerrazzi fondò (2 marzo 1829) insieme col Mazzini e col Bini l'Indicator livornese, giornale settimanale, che venne soppresso anch'esso dopo pubblicati 48 numeri. Invitato a scrivere l'Elogio di Cosimo del Fante livornese, valoroso milite delle guerre napoleoniche, per punizione dei liberi sensi in esso manifestati venne per sei mesi mandato a confine in Montepulciano, ove ebbe la visita dei due ricordati amici, che intendevano aggregarlo a una vendita di Carbonari, da essi fondata in Livorno. « Vidi il Guerrazzi, dice il Mazzini; ei scriveva l'Assedio di Firenze, e ci lesse il capitolo d'introduzione. Il sangue gli saliva alla testa, mentr' ei leggeva, ed ei bagnava la fronte per ridursi in calma.... Sentiva altamente di sè, e quella persecuzioncella, che avrebbe dovuto farlo sorridere, gli rigonfiava l'anima d'ira.... Non aveva fede.... Stimava poco, amava poco.... Sorrideva fra il mesto e l'epigrammatico, e quel sorriso m'impanriva.... m' impauriva di tanto, ch'io partii senza parlargli a viso aperto del motivo principale della mia gita» (Scritti, I, 29). A Montepulciano scrisse il Guerrazzi La Serpicina, piccolo giojello di stile, nel quale volle dimostrare l'inferiorità dell' nomo sotto

ogni aspetto, a confronto delle bestie: paradosso da comportare in breve scrittura, ma grave e fastidioso quando, pur con molto vigore di stile umoristico ed erudizione forse soverchia, lo ampliò e dilui nell'Asino. Pei fatti del 1831 fu messo in carcere, e poi di nnovo nel '34, mandandolo a Portoferraio. Ivi scrisse l'Assedio di Firenze, romanzo fremente d'amor patrio, del quale ei diceva, mandandolo al Mazzini, di averlo scritto per non aver potuto « combattere una battaglia. » Ma battaglia fu veramente, così nel campo politico contro ogni sorta di tirannide e in favor della libertà, come in quello letterario, contrapponendosi alla scuola manzoniana, e delle lettere facendo un diretto e affilato strumento di civile riscatto. Il romanzo pubblicato a Parigi nel '36 collo pseudonimo di Anselmo Gualandi, ebbe molte edizioni fino a quella, ritoccata nello stile, del 1859 presso il Le Monnier; e innanzi al '48, formò una delle preferite letture della gioventù, che in esso infiammavasi all'amor di patría, sebbene ivi pure il Mazzini trovasse un alito di scetticismo. Ma l'Assedio ha veramente pagine roventi di patria carità e di grande efficacia, e la caduta di un popolo e di qual popolo !- trovò nel Guerrazzi un degno poeta, che volle, scrivendolo, eccitare la sensibilità della patria caduta in miserabile letargia », e torturarla e galvanizzarla, onde speculare se in qualche parte del suo corpo si fosse raccolta una scintilla di vita » (Memorie). Dopo l'Assedio, scriveva la Veronica Cibo duchessa di San Giuliano (Livorno, Rossi, 1837), raccoglieva poi insieme quattro Orazioni funebri d'illustri italiani con alcuni scritti di belle Arti (Firenze, Le Monnier, 1844), e nel medesimo anno, pur dal Le Monnier, stampava un nuovo romanzo, l'Isabella Orsini, duchessa di Bracciano, e poi un volume di varj Scritti (ibid., 1847), ove è notevole il racconto I nuovi Tartufi, che col sarcasmo e colle invettive prelude alle sue future battaglie di azione e di penna contro i seguaci di dottrine politiche moderate. Intanto erano al cospetto quegli avvenimenti politici, a maturare i quali, senza dubbio, aveva il Guerrazzi cooperato, scrivendo, cospirando e soffrendo; ed egli aspettavasi di dovervi avere una delle parti più cospicue. Ma a ciò eran d'ostacolo l'indole sua stessa, più che altiera, orgogliosa e sprezzante, e più ardente d'odio che di amore, e le relazioni sue con gente avventata e manesca: sicchè, separatosi dai capi di quel moto, e ostentando quasi la sua solitudine, nemmeno nella città propria si trovò stimato quanto, per altezza d'ingegno e per ripetute persecuzioni, avrebbe meritato; il che viepiù inaspri lui, impaziente di primeggiare. I primi urti manifestaronsi per misere gare, cui diede impulso l'istituzione della guardia civica (v. GIUSTI, Memorie ined., pubbl. da F. Martini, Milano, Treves, 1890, p. 123 e segg.). Poco dopo, oltrepassando quel limite che dai più credevasi dover osservare nello svolgimento delle riforme civili, in un Discorso al Principe e al Popolo (Livorno, tip. La Calliope, 1847) chiese, senza accordi e intese con altri, una

« PreviousContinue »