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in tutte la vivanda e chiamò: — Michele venite a cena. Ma in quella che il marito obbedendo alla voce di lei s'accostava alla tavola, la donna s'accorse d'aver messo un tagliere di più, pigliò affrettatamente una delle tre scodelle e la posò in terra, volendo far sembiante di averla riempita pel cagnolino: al marito però non isfuggì quell' atto sollecito e turbato; notò egli quel terzo cucchiajo, che rimaneva tuttavia sulla tavola ad un posto consueto, e indovinando l'amorosa smemoratezza della madre, rivolse la faccia altrove per non lasciarsi scorgere commosso, prese il suo piattello, il cucchiajo, e tornò al posto di prima.

Marta chinò il capo sul petto, stette un momento per ricomporsi, poscia chiamò pel suo nome il barboncino, il quale levando appena il capo d'in fra le gambe, dimenò lievemente la coda e non si mosse; ond' ella accostatasi al letto accarezzandolo colla mano e colla voce, lo prese su e portollo presso la vivanda. Quel cane ella non l'avea mai veduto di buon occhio; l'aveva avuto, si può dire, sempre in uggia, e per sua cagione avea garrito qualche volta il figliuolo, perocchè in quegli anni che andavano sì scarsi, le sapeva male di dar quel po' di sopraccarico alla grama famigliuola; ma dopo che Arrigozzo fu morto, il mancare al povero animale d'alcuna di quelle cure, ch'egli era solito avergli, il dirgli una mala parola, il fargli un atto sinistro, il non volergli bene, le sarebbe parsa una cosa nera, un delitto, un sacrilegio.

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Il cagnolino ringraziava a modo suo la padrona di quella insolita sollecitudine, con un mugolio che somigliava al gemere d'una persona; da ultimo abbassò il muso sul piat tello, leccò un momento, e poi balzò di nuovo sul letto, vi si acchiocciolò come prima, e fu quieto. Anche quella povera bestia vuol morirgli sopra disse fra sè la vecchia, che gli avea sempre tenuti dietro gli occhi. Sedette, si fece il segno della croce e si pose a mangiare. Pigliava qualche cucchiajata di quel panico dopo d' aver tramestato un pezzo per la scodella; ma pareva che le crescesse in bocca; non poteva cacciarlo giù se non che quando ebbe visto il marito, che tornava a deporre sulla tavola la sua ciotola, ne ingojò in fretta due o tre cucchiajate una dopo l'altra, per mostrare a lui che mangiava di voglia.

Un momento dopo s'accorse che la scodella riportata sul desco dal suo uomo era presso che ancora piena, la prese in una mano, ed accostandosi a lui che si era seduto ancora a canto al fuoco, gli toccò una spalla e disse: Michele, via, mangiate per l'amor di Dio; non volete tirar innanzi, vedete, se fate questa vita: in tutta la giornata siete ancora, si può dir, digiuno. Il barcajuolo levò rozzamente le spalle senza rispondere, ed ella seguitava con voce accorata: :- Via, mangiatene almeno un poco, volete lasciarvi morir d' inedia? Siete obbligato in coscienza ad avervi cura;

fatelo per me, che se m'aveste a mancar voi.... scoppio di pianto le soffocò le parole.

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Eh!si cacciò allora a gridare il barcajuolo,

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la finirete più con questo vostro piangere? tutto il giorno, tutto il giorno sempre a quelle medesime! - e asciugandosi egli stesso gli occhi col dorso della mano: - Lo farete risuscitare, è vero? Per l'anima mia, che non posso più durarla!

L'infelicissima vecchia si ricacciò indietro le lagrime, che le tornarono più amare e più angosciose sul cuore; si terse gli occhi col grembiale, e si rimise a filare.

Per un pezzo nessuno dei due fiatò: la donna, non intermettendo mai il suo lavoro, gettava ad ora ad ora qualche occhiata al marito, il quale seduto su d'una bassa predella, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e il capo nelle mani, parea che piangesse.

Finalmente questi si levò, venne presso la moglie, le si mise d'intorno, e parea che volesse dir qualche cosa per rabbonirla, che la volesse con qualche amorevolezza compensar della pena che le avea dato con quel suo parlare spropositato di poco prima, ma poi non disse altro che questo:-Ebbene, Marta, farò a modo vostro, mangerò per accontentarvi voi, e si mise di fatti a mangiare. tite, Marta, ripigliò di lì a poco, - domani ho da menare a Dervio il Sindaco qui del paese: coi danari del navolo gli faremo dire una messa, la faremo dire a Lugano, dove non c'è l'interdetto.

-

Sen

-La messa gliel' ho già fatta dir io, — rispose la donna, e alzando il dito al pennecchio, Vedete questa lana? diceva, è appunto del Messere di Lugano: la filatura sconta la limosina della messa.

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Il barcajuolo premette insieme le labbra che, sporgendo in fuori per la subita commozione, gli s'eran fatte aguzze e tremanti, e rattenendo a fatica le lagrime, provò una compassione, una tenerezza, uno struggimento per la vecchia compagna de' suoi giorni, che avea qualche cosa di più santo e, dirò ancora, di più soave del primo fervente amore, che le avea portato negli anni della giovinezza. — (Dai capitoli V e XI del Marco Visconti.)

La Rondinella.

Rondinella pellegrina,
Che ti posi in sul verone,
Ricantando ogni mattina
Quella flebile canzone,

Che vuoi dirmi in tua favella,
Pellegrina rondinella ?

Solitaria nell'oblio,

Dal tuo sposo abbandonata,

Piangi forse al pianto mio
Vedovetta sconsolata?

Piangi, piangi in tua favella,
Pellegrina rondinella.

Pur di me manco infelice
Tu alle penne almen t'affidi,
Scorri il lago e la pendice,
Empi l'aria de' tuoi gridi,
Tutto il giorno in tua favella
Lui chiamando, o rondinella.

Oh se anch'io !... Ma lo contende
Questa bassa, angusta vôlta,
Dove sole non risplende,
Dove l'aria ancor m'è tolta,
Donde a te la mia favella
Giunge appena, o rondinella.

Il settembre innanzi viene
E a lasciarmi ti prepari :
Tu vedrai lontane arene,
Nuovi monti, nuovi mari,
Salutando in tua favella,
Pellegrina rondinella.

Ed io tutte le mattine
Riaprendo gli occhi al pianto,
Fra le nevi e fra le brine
Crederò d'udir quel canto,
Onde par che in tua favella
Mi compianga, o rondinella.
Una croce a primavera
Troverai su questo suolo:
Rondinella, in su la sera
Sovra lei raccogli il volo:
Dimmi pace in tua favella,
Pellegrina rondinella.

Canto notturno.

Ma una notte che stesa al pavimento Ne' suoi tristi pensier stava raccolta, Le giunse il suon d'un flebile concento Che udito aver pareale un'altra volta: Sorge, e là s'indirizza a passo lento, D'onde un'imposta leggiermente tolta, Il vasto spaldo dominar le è dato, Che la città difende da quel lato.

Era sereno il ciel, splendea la luna Ridente a mezzo della sua carriera, Sicchè da lungi in armatura bruna Vedea un guerrier calata la visiera: Nessun fragor s'udia, voce nessuna;

Sol quella universal quïete intera
D'improvviso venia rotta talvolta
Dal grido dell'allarme d'una scolta.

S'innalza un canto: « Errante, pellegrina,
E pur segnata della croce il petto,
La regal casa abbandonò Fiorina
Per seguitar l'amato giovinetto;
Combattendo al suo fianco in Palestina,
Fu il terror de' credenti in Macometto:
Da valorosi insiem caddero in guerra;
Dormono insieme in quella sacra terra.

Era d'autunno un bel mattin sereno,
L'ultimo ch'ella si destava all'armi.
- Fiorina, ah non voler, diceale Sveno,
Non voler nella pugna seguitarmi :

Immensa strage s'apparecchia; oh almeno
Il diletto tuo capo si risparmi! -

Non l'ascoltava: insiem caddero in guerra;
Dormono insieme in quella sacra terra.
1 cadaveri santi fur trovati

Nel campo ove la strage era maggiore
Tenacemente insieme ambo abbracciati,
In atto dolce di pietà e d'amore:
Riposano gli spiriti beati

Nella pace ineffabil del Signore :

I corpi, come già caddero in guerra,

Dormono insieme in quella sacra terra. »

Tacque, ma non fu il suon del tutto spento

Che in quell' alto silenzio trascorrea,

Però che dalle mura del convento

Le triste note l'eco ripetea;

E mormorare un flebile lamento

Per la vasta campagna s'intendea,

Che a poco a poco manca, e si confonde
Col susurrar dell' acque e delle fronde.

(Dall' Idegonda, parte seconda.)

GINO CAPPONI. Nacque il 13 settembre 1792 a Firenze, di famiglia antica ed illustre nella storia e nelle lettere. Studiò le matematiche col P. Canovai; le discipline classiche col p. Battini, servita, avendo a compagno il Niccolini: in casa ebbe precettore per qualche tempo l'ab. Zannoni; seppe ben presto il francese, l'inglese, il tedesco. Viaggiò molto, contro il costume di molti signori fiorentini d'allora; e visitando le varie città d'Italia vi cercò non solo be antiche memorie e le cose d'arte, ma anche le persone più in fama. Nel 1813 andò a Parigi in deputazione all'Imperatore; dopo altri viaggi per l'Italia meridionale, fu in Inghilterra, Olanda e Germania, fermando in iscritto impressioni e descrizioni

interessantissime. A Londra (1818) conobbe il Foscolo, col quale strinse grande amicizia. Tornato a Firenze, ivi e nella villa di Varramista visse tra studj indefessi e nobili amicizie; del Niccolini, specialmente, col quale poi si disgustò, del Confalonieri, del Colletta, del Lambruschini, del Tommasèo, del D'Azeglio, del Manzoni e d'altri insigni: per lungo tempo il palazzo di Via S. Sebastiano fu ospizio e ritrovo di illustri italiani e stranieri. Presto fu accolto nelle Accademie: nel 1811 presidente della Colombaria; nel 1819 proposto e nel 1826 ricevuto nella Crusca; nel 1820 tra' Georgofili. Fu l'anima dell'Antologia, che il Vieusseux fondò e che uscì nel 1821, concretando un antico proposito del Capponi. Aiutò la fondazione del Giornale agrario toscano (1827) e della Guida dell' educatore (1836); fu tra' più efficaci promotori dell'Archivio storico italiano, il primo vol. del quale usci nel 1842 (G. C. e la fondaz. dell' Arch. stor. ital., nella Riv. Europea, 1° marzo 1876). Non gli mancarono sventure domestiche: la morte della moglie nel 1814, e poi, suprema infelicità, la cecità che lo colse nel 1840. Partecipò alla vita pubblica e politica sempre con sentimenti temperati, e nel 1845 con un articolo sui moti di Rimini (Scritti edit. ed ined., I, 431) chiese forme di governo civile pei sudditi pontificj. Fu nel 1848 Presidente d'un ministero del Granduca, ed egli stesso narrò gli eventi di quei Settanta giorni (v. Scritti edit, ed ined., II, 62). Senatore del Regno, partecipò ai lavori della Camera vitalizia quando la capitale fu trasportata a Firenze. Per il suo ottantesimo anno ebbe grandi dimostrazioni d'affetto e di stima, che si ripeterono quando pubblicò la Storia della Repubblica di Firenze. Mori il 3 febbraio 1876. Ebbe esequie solenni in Santa Croce, e fu sepolto nella sua villa di Marignolle.

Non poche sono le scritture lasciate dal Capponi su argomenti diversi di storia, pedagogia, politica, filologia, raccolte da M. TABARRINI in due vol. di Scritti editi e inediti (Firenze, Barbèra, 1877). Ricordiamo le cose sue più notevoli. Primo scritto è, del 1812, un opuscolo polemico in difesa del P. Canovai nella controversia intorno ad Amerigo Vespucci. Importantissime, in una questione storica di capitale importanza, agitata verso il 1840 da più e valenti intelletti, sono le Lettere al professor Capei sulla dominazione dei Longobardi in Italia. Notevoli pensieri, che ebbero il conforto dell'approvazione del Lambruschini, espresse nei Frammenti sull'educazione (Lugano, 1845; v. A. PARATO, G. C. educatore, in Riv. universale, agosto 1876). Sono tra i lavori suoi più belli le Cinque letture di economia toscana, tenute ai Georgofili nel 1845. È restata incompiuta, e venne pubblicata postuma, una Storia di Pietro Leopoldo, come anche un Saggio sull' istoria del Cristianesimo ne' primi due secoli. Ordinò, ampliò e pubblicò la Raccolta di proverbi toscani del Giusti (1871). La Storia della Repubblica di Firenze (Firenze, Barbèra, 1875, e 2a ediz. rivista, 1876) ideò già provetto, mentre curava la traduzione dal francese di quella di

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