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guari occasioni, niun nome, niun profitto, e fortuna in breve troncata; ed all'incontro io debbo alle lettere non dico qualche speranza di nome futuro, ma quest'onore e questa soddisfazione tanto maggior di parlar qui con qualche fiducia d'essere udito da' miei compatriotti con quell'amor mostratomi altre volte; ondechè il mio interesse, il mio egoismo sarebbe d'esaltare le lettere sopra l'armi. Ma, io il dico con sincerità, periscano le lettere, sieno abbandonate, rinnegate del tutto per l'avvenire come il furono quasi sempre finora nel mio paese, e rimanga questo illitterato, rozzo, ed inferiore alle altre provincie italiane, se è necessario ciò a serbare in quest'angolo almeno la gloria delle virtù militari passate, la speranza dall'avvenire. Io credo stoltezza ed ignoranza e falsa deduzione dalla storia antica, quest' incompatibilità che si pone tra le arti di pace e quelle di guerra da alcuni, e credo che nella moderna civiltà sieno molto compatibili; ma s'io m'ingannassi, e fosse necessario il sacrificio dell'une o dell' altre, non esitino mai, ne credano pure un letterato, i miei compaesani. — (Dai Pensieri sulla Storia d'Italia, lib. I, cap. XXVII.)

TOMMASO GROSSI, Nacque il 20 gennaio 1791 a Bellano sul lago di Como. Studiò legge a Pavia e laureatosi nel 1810, si trasferi a Milano, ove strinse amicizia col Manzoni, che gli cede due camere in casa sua (Via del Morone, 1168), ed ivi stette modestamente fino a che non si ammogliò. Nel maggio 1838 aprì ufficio di notaro, e in tal qualità nel 1848 rogò l'atto di fusione della Lombardia col Piemonte. Al ritorno degli Austriaci emigrò per qualche tempo; poi rimpatriò e di lì a poco, ai 10 gennaio 1833, morì. Ha una statua nel palazzo di Brera, un'altra a Bellano con questa epigrafe di A. Manzoni: IL TUO NOME — È GLORIA DELL'ITALIA -O TENERO E PODEROSO POETA — CUI SEMPRE ISPIRÒ IL CUORE. Delle Opere poetiche del Grossi l'edizione più completa è quella di Milano, Carrara, 1877; di tutte le Opere quella pur di Milano, Oliva, 1862.

Il Grossi cominciò dallo scrivere in dialetto. Del 1815 è la Prineide in sestine milanesi, nella quale finge che gli apparisca l'ombra del ministro Prina ucciso a furor di popolo. Il componimento venne attribuito al Porta, ma il Grossi se ne dichiarò autore al ministro Saurau e soffrì un breve arresto. Alcune cose vernacole scrisse insieme col Porta, come il dramma in prosa Giovanni Maria Visconti; di suo La pioggia d'oro in 6a rima, La fuggitiva in 8a, che poi tradusse in italiano; In morte di Carlo Porta (1821), in sestine. In queste poesie dialettali, meglio che il maestro ed amico suo, del quale raccolse le opere e scrisse un cenno biografico (Milano, Ferrari, 1821), si mantenne entro i limiti dell'onestà. Serisse novelle romantiche in 8a rima, secondando il gusto dei

tempi: l'Ildegonda (Milano, Ferrario, 1820), l'Ulrico e Lida, lavorata in gioventù e pubblicata più tardi (Milano, Ferrario, 1837) in sei canti, togliendo per esse argomento dalle cronache lombarde del medio evo. Letta la Storia delle Crociate del Michaud e i romanzi del Walter Scott, immaginò da prima una novella, poi un poema, audacemente mirando ad emulare il Tasso: I Lombardi alla prima crociata, in canti quindici in 8a rima (Milano, Ferrario, 1826). Dalla pubblicazione ricavò, caso non comune, un 30,000 lire. Il poema fu tradotto in latino; ne fu tratto e stampato a parte l'episodio di Giselda e porse argomento al celebre melodramma musicato dal Verdi. Appena uscito alla luce sollevò grandi tempeste, e pro e contro di esso fu scritto una quantità di articoli e di opuscoli (vedine l'elenco in VISMARA, Bibliografia di T. G., Como, Tip. provinciale, 1881). Non si possono disconoscere i difetti del lavoro, maggiori forse de' pregi, che pur non mancano (v. G. M. GAMNA, T. G.ei Lomb. alla 1a Crociata, Torino, Bona, 1885), nè la tenuità dell'argomento in confronto dei propositi solenni ; sicchè maggior fama resta alle vere e proprie novelle. Ricordiamo per ultimo, fra le produzioni poetiche, il Cantico composto nel 1848 per le Cinque giornate di Milano (Milano, Borroni e Scotti). - Lavorò otto anni (1826-1834) al romanzo storico Marco Visconti (Milano, Ferrario, 1834), che è dedicato al Manzoni. Il fatto risale al 1329 ed avviene in Lombardia; Bellano e i paesi del Lago di Como vi sono descritti a meraviglia. In esso sono intercalate cinque liriche, delle quali è più nota, anzi popolare, la Rondinella, messe in bocca a menestrelli, ma per forma ed argomento, moderne. Interessante è la storia d'amore, che è principale argomento del romanzo, tuttora letto e riletto; ma e il fatto sostanziale e gli eroi, e più particolarmente le eroine di esso romanzo e delle novelle poetiche, si rassomigliano fra loro un po' troppo e attestano nel Grossi maggiore abilità nel trattare i miti affetti e i dolori della vita, che nell'inventare casi e intrecciarli fra loro. Studiò accuratamente col sistema del Manzoni la lingua: n'è prova una copia del Dizionario milaneseitaliano del Cherubini, nella quale segnò i corrispondenti toscani. Amò di imparare la lingua viva dalla conversazione di amici toscani, tra i quali il Giusti: ma pur studiando accuratamente il toscano, non riuscì a liberarsi del tutto dai lombardismi.

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[Per la biografia, vedi T. G., nel libro Prose e poesie scelte di C. Tenca, per cura di T. MASSARANI, Milano, Hopli, 1888, vol. I, p. 113 e seg.; G. CARCANO, Nell'inaugurazione del monumento a T. G., Discorso, Milano, 1858; C. CANTU, T. G., nei Contemporanei italiani, Galleria nazion. del sec. XIX, Torino, Un. Tip. Ed., 1862; poi nel vol. III degli Italiani illustri, Milano, Brigola, 1874.]

I genitori dell' annegato. Il lago era piano, liscio, lucente come uno specchio: di tanto in tanto si vedeva or

qua or là balzarne fuori con un guizzo leggero qualche pesciolino, brillare un istante nell'aria d'una luce d'argento, e ricadendo farsi increspare lievemente in giro, per poco spazio d'intorno, quel piano inerte e levigato.

Il cielo splendea d'un candido azzurro, l'aria era limpida e molle. Su per gli alti gioghi dei monti, giù per la china sino alle falde estreme che si confondono coll' acqua, si distingueva all'intorno a diversi intervalli ogni tugurio, ogni casa, ogni chiesetta: il verde fresco e rugiadoso delle piante, delle macchie, dei cespugli veniva acquistando nuovi e più splendidi colori ai primi raggi del sole nascente, nuove ed infinite varietà dai molteplici accidenti della luce, quando spiccata in mezzo a grandi ombre vaporose, quando degradata a poco a poco e morente in misture ineffabili.

Quello spettacolo di letizia e di pace contrastava troppo coll'angoscia, colla tempesta dell'animo del povero barcajuolo. Egli seguitò innanzi alcun tempo in silenzio, accorandosi sempre più: alfine, vinto da un impeto di dolore e di rabbia, diede di tutta forza nell' acqua col remo che tenea dalla mano destra, sclamando: - Lago traditore! - il remo si spezzò ed ei tirato sgarbatemente in barca l'altro, col mozzicone del primo che gli era rimasto in pugno percosse un gran colpo sulla sponda, con che fracassò una forcola.

Ma in quel tramenarsi, venne un tratto a far piegare la navicella in guisa che si spostò un terzo remo messo pel lungo d' una panchetta, il quale sdrucciolando stava per cadere addosso al corpo del figlio. Michele ne fu spaventato, spiccò un salto, raccolse il remo per aria, lo tenne un momento fra le mani, lo guardò, e disse: - È il suo quindi lo depose soavemente al posto di prima.

Signore! esclamò allora ajutatemi, tenetemi la vostra santa mauo in capo, chè il nimico non mi tenti per farmi morire disperato e dannar l'anima; — si rimise a vogare dicendo fervorosamente le sue divozioni.

Pregava e pregava mandando innanzi a poco a poco la barca, ma intanto che le braccia coll'usato moto ora si raccoglievano al petto, ora se ne staccavano distendendosi su i remi; intanto che le labbra mormoravano le parole consuete, la mente dell' infelice riandava tutti gli anni della vita di quel suo perduto, da quando era bambino, poi faneiullo, poi giovincello, poi giovine fatto, fino a quel giorno: gli tornavano alla memoria le prime parole, che aveva inteso balbettare dal suo labbro; parole che gli avean fatta sentire tutta la dolcezza del nome di padre; rammentava le speranze che aveva collocate, che aveva veduto crescere e maturare su quell' amato capo; gli ultimi pensieri di sostentamento, di riposo e di pace pei vecchi suoi anni, per gli anni della sua dolce compagna, composti in lui solo: rammentava la sua consolazione e il giubilo glorioso della madre, quando lo videro la prima volta raccorre alla riva

la sua navicella, tornato dal primo viaggio che gli era stato affidato rammentava i terrori che avea divisi tante volte colla sua cara donna quando la notte, udendo stormire il vento tra il fogliame dei castagni, si facevano insieme a una finestrella, e guardando giù il lago in fortuna venivansi interrogando: « Dove sarà ora il nostro Arrigozzo?» Si richiamava alla memoria i vanti del figlio, che era uno dei più valenti rematori del lago, che non avea chi gli potesse star innanzi nel maneggio d'una vela o d'un timone; gli pareva di sentire ancora da proda il tonfo di quel suo remo vigoroso, gli sonava pur anco nelle orecchie l'armonia della sua favorita canzone, di che era usato rallegrargli la malinconica solitudine del lago in bonaccia.

Mentre tutti questi pensieri si succedevano nella mente del povero padre, la sua bocca continuava ad articolare le parole della preghiera, la quale sonava involontaria o inavvertita come il ruscello che mormora correndo alla china. Se non che da ultimo rompendo a mezzo, senza accorgersi, un'orazione, i labbri si volsero da sè ad intonare con un basso mormorío l'aria consueta del suo Arrigozzo: ma riscosso poi tosto da quel suono materiale che gli percosse l'orecchio, crollò il capo, e levando la faccia al cielo se la trovò tutta piena di lagrime.

Intanto la barchetta si veniva accostando a Limonta, e una più intensa e più angosciosa cura, raddoppiata dalla vista di quei luoghi, ottenebrava la mente dell'orbo padre, del misero marito.

Ma, oh Dio di misericordia! che crepacuore fu il suo quando accostandosi alla spiaggia la vidè piena di popolo, che guardava verso di lui e pareva aspettarlo, e in mezzo a tanta gente, potè discernere una donna scapigliata graffiarsi la faccia, percuotersi il petto, stracciarsi i crini canuti; e sentiva il lido e gli antri del monte risuonare del suo pianto, delle sue grida disperate!

La capanna del barcajuolo, padre dell'annegato, era posta di là dal paese, tirando a tramontana. Quel che si vedeva di essa guardando dal lago, non era che un po' di tettuccio di paglia con una croce di legno piantata in vetta; tutto il resto veniva nascosto da due vecchi castagni, i quali parevano chinarsi per abbracciarla. Al di dentro era una cameraccia non ammattonata, col palco ingraticolato e le muraglie tutte nere dal fumo.

Si vedeva in un canto un letticciuolo coperto d'una grossa e ruvida coltre, di quelle che si chiamavano catalane, dalla Catalogna d'onde venivano; nome che conservano ancora in alcuni paesi del lago di Como: era quello il giacitojo del povero Arrigozzo, e in quel momento vi dormiva sopra un barboncino, il suo cane fedele.

A piè del letto, alla distanza di non più di due passi, stava un cassone massiccio, ripieno di terra, dentro il quale,

secondo l'uso comune a quel tempo per tutta l'Europa (perocchè era ancor fresca l'invenzione dei camini) si faceva il fuoco, e v'era posto un laveggio a bollire sopra un treppiede; più innanzi, e proprio nel mezzo della camera, sorgeva un desco di faggio: quattro seggiolette impagliate, una mezza dozzina di remi, una rastrellieretta a piuoli appiccata al muro, sulla quale erano messi in parata alcuni piattelli, tre scodelle di terra e tre cucchiai d' ottone luccicanti come un oro; una cassa, una fiocina e un bertovello compievano il mobile di tutta la casa.

Seduta vicino al desco, sotto una lucernetta di ferro attaccata con un uncino ad uno staggio pendente dal palco, stava filando la vecchia Marta, la madre dell' annegato. La faceia piuttosto asciutta che scarna, segnata di poche rughe, il portar diritto della persona, il movere risoluto delle membra, mostravano in lei una natura valida e rubizza, che le fatiche e i disagi d'una povera vita non avevano domata. Ma quella fronte, dal cui fondo spirava un' aura serena di pace, si vedeva allora rabbujata da un cordoglio recente e inusato uno che l'avesse veduta per la prima volta, poteva agevolmente notare su quelle guance un pallore, che non vi doveva essere abituale, un insolcarsi ancor fresco : avrebbe indovinato che quegli occhi, gonti e sbattuti per le tante lagrime versate, non erano però usi al pianto.

Moveva visibilmente le labbra, dicendo le sue divozioni, e di quel suo tacito pregare non si udiva che lo strascico delle ultime sillabe, le quali le morivano sulla bocca in un lieve fischio ch'ella accompagnava col piegar frequente e fervoroso del capo.

Di tanto in tanto volgeva gli occhi a quel letticciuolo, poi gli alzava al cielo in atto di sì desolata pietà, da far manifesto il voto segreto che mandava al Signore, perchè degnasse di richiamarla a sè, di riunirla al suo Arrigozzo. Michele, colle spalle volte al desco, stava seduto presso al fuoco, curvo sopra di quello, con una mestola in mano tramenando una minestra di panico nel latte, che bolliva nel pentolino; un dolore più ruvido, più duro, che avea pare qualcosa del dispettoso e dell'iracondo stava sul volto di lui. Egli teneva a bello studio volte le spalle alla moglie, perchè l'aspetto del dolore materno non incrudisse il suo, e continuava in quella bisogna senza levar mai il саро.

Come fu scorsa una mezz'ora, la donna sorse in piedi, si tolse la rocca da lato, andò verso il fuoco, ne tolse giù il laveggio; quindi accostatasi alla rastrelliera, tutta inferForata com'era nelle sue orazioni, si vide dinanzi le tre scodelle; ne le trasse fuori per un moto macchinale; eripetendo in quella preoccupazione ogni atto a che la mano correva da sè per la consuetudine li tanti anni, le dispose tutte e tre sul desco, mise un cucchiajo a lato di ciascuna, versò

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