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Maroncelli era mille volte più infelice di me; nondimeno, oh quanto io pativa con lui! Le cure d'infermiere m'erano dolci, perchè usate a si degno amico. Ma vederlo così deperire, fra si lunghi atroci tormenti, e non potergli recar salute e presagire che quel ginocchio non sarebbe mai più risanato! e scorgere che l'infermo tenea più verisimile la morte che la guarigione ! e doverlo continuamente ammirare pel suo coraggio e per la sua serenità! ah, ciò m'angosciava in modo indicibile!

In quel deplorabile stato, ei poetava ancora, ei cantava, ei discorreva; ei tutto faceva per illudermi, per nascondermi una parte de suoi mali. Non potea più digerire, nè dormire; dimagrava spaventosamente; andava frequentemente in deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti, raccoglieva la sua vitalità e faceva animo a me.

Ciò ch'egli pati per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne il protomedico, approvò tutto quello che il medico avea tentato, e, senza pronunciare la sua opinione sull' infermità e su ciò che restasse a fare, se n'andò.

Un momento appresso, viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: Il protomedico non s'è avventurato di spiegarsi qui in sua presenza; temeva ch'ella non avesse la forza d'udirsi annunziare una dura necessità. Io l'ho assicurato che a lei non manca il coraggio.

-Spero, disse Maroncelli, d' averne dato qualche prova, in soffrire senza urli questi strazj. Mi si proporrebbe mai ?... -Si, signore, l'amputazione. Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, esita a consigliarla. In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l' amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo?...

-Di morire? E non morrei in breve egualmente, se non si mette termine a questo male?

ed

-Dunque faremo subito relazione a Vienna d'ogni cosa, appena venuto il permesso di amputarla....

-Che? ci vuole un permesso?

-Si, signore.

Di li ad otto giorni, l'aspettato consentimento giunse. Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch'io lo seguissi.

Potrei spirare sotto l'operazione, diss'egli; che io mi trovi almeno fra le braccia dell' amico.

La mia compagnia gli fu conceduta.

L'abate Wrba, nostro confessore (succeduto a Paulowich), venne ad amministrare i sacramenti all'infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare

e non

un inno.

I chirurgi vennero alfine: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli, quando

occorrevano operazioni, aveva il diritto di farle di sua mano e non volea cederne l'onore ad altri. L'altro era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal governatore per assistere all'operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli stesso, ma gli convenne contentarsi di vegliare all' esecuzione.

Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò, tutto intorno, la profondità d'un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo si segò l'osso.

Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un'occhiata di compassione, poi, vôltosi al chirurgo operatore, gli disse:

-Ella m'ha liberato d'un nemico, e non ho modo di rimunerarla.

V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa, - Ti prego di portarmi quella rosa, - mi disse. Gliela portai. Ed ei l'offerse al vecchio chirurgo, dicendogli - Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine.

Quegli prese la rosa e pianse.

I chirurgi aveano creduto che l'infermeria di Spielberg provvedesse tutto l'occorrente, eccetto i ferri ch'essi portarono. Ma, fatta l' amputazione, s'accorsero che mancavano diverse cose necessarie: tela incerata, ghiaccio, bende, ec.

Il misero mutilato dovette aspettare due ore, che tutto questo fosse portato dalla città. Finalmente poté stendersi sul letto; ed il ghiaccio gli fu posto sul tronco.

Il di seguente, liberarono il tronco dai grumi di sangue formativisi, lo lavarono, tirarono in giù la pelle e fasciarono.

Per parecchi giorni non si diede al malato, se non qualche mezza chicchera di brodo con torlo d'uovo sbattuto. E quando fu passato il pericolo della febbre vulneraria, cominciarono gradatamente a ristorarlo con cibo più nutritivo. L'Imperatore aveva ordinato che, finché le forze fossero ristabilite, gli si desse buon cibo, della cucina del soprintendente.

La guarigione si operò in quaranta giorni, dopo i quali fummo ricondotti nel nostro carcere; questo per altro ci venne ampliato, facendo cioè un'apertura al muro ed unendo la nostra antica tana a quella già abitata da Oroboni e poi da Villa.

Io trasportai il mio letto al luogo medesimo, ov' era stato quello d' Oroboni, ov' egli era morto. Quest' identità di luogo

m'era cara; pareami di essermi avvicinato a lui. Sognava spesso a lui, è pareami che il suo spirito veramente mi visitasse e mi rasserenasse con celesti consolazioni. — (Da Le mie prigioni, capi LXXXVI, LXXXVII, LXXXVIII.)

RAFFAELLO LAMBRUSCHINI. Nacque in Genova ai 14 agosto 1788, e, vestito l'abito ecclesiastico, studiò a Roma dove aveva parenti in alte dignità prelatizie. Seguì lo zio, vescovo d'Orvieto (e poi, lasciando trista fama, segretario di Stato), esiliato in Corsica nei tempi napoleonici (1812); ma restaurato il governo pontificio, rinunziò ad ogni desiderio di onori ed ufficj, e, semplice prete, si ridusse colla famiglia nel nuovo possesso di San Cerbone presso Figline. Ivi si diede tutto alle occupazioni agricole, e da quel nascondiglio campestre lo scavò fuori G. P. Vieusseux quando nel 1825 volle fondare il Giornale agrario toscano. A questo ei portò molta esperienza di metodi e molta maturità di studj, estesa anche a materie economiche, delle quali, come delle agronomiche, lesse sovente nella Accademia fiorentina de' Georgofili. Volse l' operosità sua anche alla pedagogia, e nel '35 mise fuori il periodico la Guida dell' Educatore, durato fino al 1845, al quale accoppiò poi le Letture per la Gioventù, avendo a cooperatori il Mayer, il Thouar, il Bianciardi, il Vannucci. Apri anche nella sua villa un convitto pe' giovani di agiate famiglie. Amico del Vieusseux, del Capponi, del Salvagnoli, del Ricasoli, preoccupandosi con essi de' più gravi problemi di educazione civile e specialmente popolare, di miglioramenti agronomici, di riforme politiche e religiose, nel 1848 insieme cogli ultimi due fondò il giornale la Patria, e fu deputato e vice presidente della Camera dei Deputati. Col rovescio delle cose italiane, ritornò alle faccende agricole, e nel silenzio della sua villa meditò e scrisse. Nel 1859 fu nuovamente deputato all'Assemblea toscana; poi senatore; e successivamente ebbe gli ufficj di ispettore delle scuole, professor di pedagogia e Soprintendente dell'Istituto fiorentino; fu accademico, e arciconsolo della Crusca. Mori a San Cerbone agli 8 marzo 1873.

Come accade agli uomini che tengono la via del mezzo, parve, secondo scrisse egli stesso, fanatico a chi lo credeva un liberale, ed eretico a chi lo credeva un cattolico fervente»: ma egli « sacerdote cattolico, condannava soltanto l'intolleranza odiatrice » (A. CONTI, Letterat. e Patria, Firenze, Barbèra, 1892, p. 313). Quel ch'ei pensasse nel fatto della morale e della religione, con indipendenza di pensiero e temperanza di propositi, è chiarito nell'opera sua postuma Pensieri d' un solitario (Barbèra, 1887, a cura di M. TABARRINI), in che si riflettono « non solo le mutazioni delle condizioni morali della società in quasi mezzo secolo, ma anche quelle dell' animo dello scrittore, non sordo nè muto al succedersi delle vicende umane ». Di gran pregio sono i suoi scritti

Dell' Educazione (Firenze, Cellini, 1849: rist. a cura di A. LINAKER, Firenze, Bemporad, 1892) e Della Istruzione (Firenze, Le Monnier, 1871). Molte sue scritture di soggetto economico e agronomico sono sparse, e sarebbe bene raccoglierle, nel Giornale agrario e negli Atti dei Georgofili: classico è il trattato Intorno a modo di custodire i bachi da seta (Firenze, Cellini, 1852: 4a ediz. 1864). Un volume di Elogi e Biografie (di C. Cavour, del Vieusseux, del Ridolfi ec.) raccolse G. RIGUTINI (Firenze, Le Monnier, 1872). In tutte le sue scritture si rinviene nobiltà di pensieri, squisitezza di sentimenti, sicura dottrina e insieme una forma di stile foggiato alla buona tradizione italiana, che si raggentilisce nell' uso sapiente del vivo parlar toscano.

[V. per la sua vita, A. DE GUBERNATIS, Ricordi biografici, Firenze, tip. dell' Associazione, 1873, p. 68; M. TABARRINI, Vite e ricordi d' ital. illustri, Firenze, Barbèra, 1884, p. 289; A. LINAKER, Notizie sopra R. L., nella cit. ristampa dell' Educazione; P. DAZZI, Elogio di R. L., negli Atti dell'Accad. della Crusca del 1892.]

Vantaggi materiali e morali della mezzeria toscana. Lettera al marchese C. Ridolfi. Effetto necessario della buona agricoltura dev'essere l'accrescimento non passeggiero e non casuale dei frutti della terra; e tal accrescimento, che mentre porga al proprietario un maggior interesse de' suoi capitali, e al direttore (chiunque egli sia) delle culture e dell'azienda, una più larga rimunerazione della sua industria, arrechi egualmente una mercede bastevole al contadino. Bastevole io chiamo quella, che somministri un conveniente sostentamento per sè e per la sua famiglia, a coloro che spendono tutte le loro forze e tutto il loro tempo nel coltivare la terra. Aggiungerò, senza timore d'essere da voi contraddetto, che questa mercede dovrebbe con equa proporzione crescere pel contadino, come cresce pel padrone la rendita netta. La buona agricoltura dà di che provvedere a tutti due; e perciò l' ho chiamata il pane per tutti. Giacchè dunque ella deve dare e dà tanto, vuole giustizia e umanità, e il pro nostro medesimo, che i doni suoi siano compartiti liberamente fra tutti quelli, che cooperano alla produzione dei frutti della terra.

Ma sventuratamente non si può escludere il caso che possidenti o fattori di cuore stretto e gelato, e perciò medesimo di poco senno, pensando di poter mandare innanzi la cultura dei terreni con operanti mal pagati, e costretti dal bisogno ad accettare qualunque mercede, si rallegrino al pensiero che, licenziati i mezzajoli, possano accrescere la parte padronale: e chiudendo gli occhi sui mali, che la loro durezza genererebbe immancabilmente, chiamassero a risolvere il quesito che abbiamo tra mano, non la scienza,

non l'esperienza, ma l'avarizia; e attirassero sopra la nuova agricoltura quelle maledizioni, che sarebbero méritate dalla loro stolta grettezza. A costoro adunque è necessario dichiarare altamente che le riforme agrarie da noi credute necessarie e da noi desiderate, le avremmo noi i primi per riforme insipienti e crudeli, se dovessero procacciare a noi più agiata e dilettevole vita, e far languire di stento chi s'affatica e suda per noi : che la terra fecondata dalla virtù dei capitali, dal lavoro della mente e dal lavoro della mano, deve ad un tempo e retribuire del giusto merito i danari che si sono spesi, e premiare lo studio, e ricompensare le fatiche: che noi non pensiamo soltanto a noi stessi, ma ai compagni della nostra opera; i quali hanno pur essi un corpo da alimentare, una famiglia da sostenere, un' anima da dover pascere di qualche alto pensiero e di qualche nobile affetto, e non da essere avvilita, addolorata, annientata in fatiche che affrangano il corpo, e nella miseria che privi d'ogni comodità: che per provvida legge di quel Creatore, il quale fa levare il sole per tutti, e venire per tutti le rugiade e le pioggie, non può su questa terra violarsi la giustizia e l'equità a danno degli uni, senza che presto o tardi ne espino la trasgressione coloro a pro de' quali fosse stata violata; e che perciò la sopraparte mal presa dall'avido possidente, gli sarebbe ripigliata in furti, in tasse per ospedali e per carceri, in limosine forzate a difetto delle volontarie; e gli sarebbe avvelenata dal nessuno amore, dalla nessuna stima in che si vedrebbe tenuto, e dal segreto malessere che abbatte e corrode questo cuor nostro, ove non sia mai dilatato e consolato da un affetto benevolo e generoso . . .

Per condannare la mezzeria come ostacolo insuperabile al perfezionamento dell'agricoltura, non basta il dire che al presente l'agricoltura per lavoranti mezzajoli è viziosa. E non basta neppure il mettere innanzi de poderi o anco vaste tenute, coltivate come la buon' arte richiede, per lavoranti a giornata. Ma è necessario, a voler proferire la condanna, di provare rigorosamente che co' mezzajoli non si può (generalmente parlando) emendare i presenti vizj, e aver poderi coltivati così bene, come si farebbe tenendoli a propria mano. Perciò, quando pure non si avessero finora esempi di chi, rispettando la mezzeria, ha condotto la cultura dei proprj beni a conveniente perfezione; non si potrebbe dichiarare che la mezzeria si oppone al miglioramento dell'agricoltura, se non si provasse con fatti generali e costanti questa opposizione. Perché non si tratta già di stabilire oggi come cosa nuova o il lavoro a mezzeria o il lavoro a giornata; ma si tratta di distruggere una cosa che è una cosa antica, una cosa universale; e che per questi due capi deve aver grandi ragioni di essere e di durare: una cosa che a toccarla, ne smove cento altre. Si

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