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in sè qualche idea di quella scienza divina del futuro che ha riguardo all' eterna salvezza dell' uomo, pure non fato, ma predestinazione si volle essa chiamare. Così prevalse il nome di male o di peccato originale a quello di malum nativum, o vitiositas, che alcuni più rigorosi osservatori della latina purità voleano introdurre. Così, benchè Tullio non abbia mai detto libero arbitrio per libera volontà, pure quella parola fu giudicata più abbondante nello spiegare la libertà dell' uomo, e come tale adoperata dal comune dei teologi.

Il fonte migliore, però, da cui i Padri e i teologi attinsero nella creazione della novella lingua latina ecclesiastica, si fu l'idioma greco. In tal modo, benchè il vocabolo latino di pontefice soccorresse a meraviglia per nominare i sacerdoti maggiori delle chiese, pure fu adoperato a preferenza il nome greco di una prefettura civile, e, per la correlazione fra il governo temporale e lo spirituale, quei sacerdoti con greca voce furono chiamati episcopi. In egual maniera dissero meglio grecamente sinagoga che latinamente collegio, poichè quella parola significava congrega di uomini, e questa indicava solamente una comunione di leggi. Perciò preferirono la parola angelo a quello di genio, il qual vocabolo era di moltiplice e dubbiosa significazione. Per questo anche la voce greca di battesimo parve più acconcia di quella di sacro lavacro, che latinamente sarebbesi potuta adoperare; ed elemosina, di fonte greco, sembrò più propria che stipes o benignitas di fonte latino; e la voce di simulatore non si stimò così espressiva come la parola greca d'ipocrita, usata nel Nuovo Testamento.

Introdotta così nella lingua latina una novella serie di vocaboli non conosciuti nella lingua originale, tanto fu l'impero delle parole nuove, che anche quelle frasi le quali, rigorosamente parlando, trovavansi essere non solamente meno pure, ma anche meno corrette, restarono al pari delle altre accreditate. Scorrezioni sono, per esempio, il popule meus in vece di popule mi, e il Deus meus in vece del Deus mi, e l' Agnus Dei per Agne Dei. Tuttavia nissuno bada a tali mende di lingua, e sarebbe forse impossibile cosa lo sbarbare dalle nostre liturgie queste piccole imperfezioni, specialmente nella bocca del volgo.

Sia conclusione di questa digressioncella un avviso di più ai così detti puristi delle lingue, acciò veggano che l' introduzione di cose nuove necessita l'ammessione di novelle voci; e che l'intromessione delle parole viete a denotare quello ch'è nato dopo di esse, è, le più volte, non solo uno sfregio che fassi alla parola antica, costringendola quasi forzatamente a comprendere nella sua significazione, ciò che nell'età sua non erà ancora conosciuto, ma eziandio un tradimento alle cose novelle, delle quali lasciasi in tal guisa mal sonante ed imperfetta la spiegazione. - (Dalla Fortuna delle parole, lib. II, cap. IV.)

LUIGI CIAMPOLINI. Nacque in Firenze ai 7 agosto 1786; studió a Pisa, e vi fu amico del Pagnini, del Pignotti, del Labindo e del Rosini. Recatosi in Grecia, dimorò quattro anni a Corfù coll'amico suo Vincenzo Nannucci, dando lezioni a giovinetti. Conversando con alcuni suliotti, n' ebbe primo impulso a scrivere le Guerre di Sulli contro Ali bassà di Janina, che stampò al suo ritorno in Toscana nel 1826 insieme con altre prose e poesie, e che il Tommasèo giudicò « una delle più robuste opere pubblicate da gran tempo in Italia.» Volse poi l'animo a scrivere la Storia del Risorgimento della Grecia (Firenze, Piatti, 1846) che gli costò parecchi anni di lavoro, ma della quale non vide la pubblicazione, essendo morto ai 30 aprile 1846. Oltre queste scritture, si hanno di lui nella citata raccolta di Prose e Poesie, le biografie di Labindo, del Benedetti, del Pananti ec., diciassette Idilli e alcune liriche. Nella strenna fiorentina Ricorditi di me del 1842 abbiamo di lui un Frammento del dialogo Il Leopardi, nel quale riferendo alcuni generosi sensi del poeta, afferma ch'ei fu suo « familiarissimo. Altro Dialogo fra Pietro Aretino e L. Ariosto, fu pubblicato dal nipote P. MARIANI per nozze Pesenti-Orsucci-Dini; Pisa, Nistri, 1880.

(Vedi per la biografia, P. CONTRUCCI, Cenni sulla vita e sugli scritti di L. C., premessi alla Storia della Grecia.]

La caduta di Missolungi. - Fattasi dai generali di Missolungi la rassegna, fu trovato avervi ancora tremila uomini, compreso i feriti capaci di mettersi in via. Circa un migliaio di gente inabile alle armi, e cinquecento fra donne, fanciulli e vecchi. Le donne di animo più virile assunsero vesti maschili. Molte appendevano al collo degl' infanti qualche devozione con fede che basterebbe a difenderli, mentre cingevansi al fianco la spada per avere mezzo a combattere per la libertà o morire. Le più deboli nè atte ai disagi della fuga, si univano ai feriti, ai vecchi, agl' infermi risoluti di seppellirsi sotto le rovine della città, ora in più luoghi munita. Intanto l'ora della partenza si appressava, e ognuno con grandissimo pianto dal congiunto, dall' amico accomiatavasi. Erano le parole, gli amplessi, quali fra persone che mai più si hanno a rivedere, ad abbracciare. Ognuno accennava al cielo per luogo di comune convegno, per compimento delle ultime speranze. Quelli che erano stati abbastanza forti da separarsi dai famigliari e dai parenti, non sapevano staccarsi dalla città ove erano nati, o che del loro sangue avevano in tante battaglie bagnata, di tante fatiche aiutata, con tanti sacrificj più e più volte redenta. Altri poi soccombevano ne domestici affetti. Non valeva talora l'autorità d'un padre, d'una madre a determinare un figlio alla partenza: un fratello giovane e forte non sapeva vincere la repu

gnanza di lasciare la madre, la sorella inferma, un fratello ferito. Un Cristo Kipsalis, il più notabile fra i primati della città, fatto sordo nelle preghiere dei congiunti, degli amici e pressochè di tutti i cittadini, volle rimanere per servire di guida alla schiera inerme de' vecchi, de' fanciulli e delle donne.....

Dispongonsi quattro ponti per discendere dalle mura. Intanto suona le otto; scorrono nuove pattuglie per tutti i bastioni a raccogliere il resto dei soldati: solo le scorte, chiamandosi l' una l'altra secondo l'uso, sparano di tempo in tempo. Ma il pulsare dei puntoni, il battere dei martelli, il cigolio de travi, assicurandosi le macchine, le grida delle piangenti donne e dei fanciulli nell'estremo commiato, fecero ben manifesto ai Turchi il disegno dell'uscita e il luogo determinato all' uscita. I soldati del presidio, con in mezzo le femmine e i fanciulli traversano il fosso; e perchè i Maomettani erano parati, una scarica universale scoppia improvvisa da tutta la linea delle posizioni egiziane, opposte alle mura. Gettasi accortamente riverso a terra quel primo drappello che era disceso, aspettando che le genti ausiliarie diano segnale dell' assalto e che il secondo drappello dalle mura si cali. Per lo spazio di un'ora, che parve ai miseri, com'è da credere, interminabile, s'attese la scarica degli schioppi sull' Aracinto, ma non udivasi che il fragore delle artiglierie e il fischio delle palle di moschetto, che a quando a quando quella gente appiattata feriva andando la piena scarica a percuotere le mura. Stanchi dell' indugio que' miseri, e timorosi d' indurre confusione mutando l'ordine concertato, si fa passare di bocca in bocca il comando di alzarsi. Eccoli in piedi, impugnano le spade e si slanciano ad altissima voce gridando « avanti, avanti, morte ai barbari. » I ripari, le fosse, le artiglierie, le baionette degli Arabi restaño inabili a fermarli, sono in pochi minuti valicati i serragli, sparpagliati i fanti, uccisi gli artiglieri, abbattute le ostili trincere. Ma la turba degli abitanti non segue il suo avanguardo; udendosi una fatal voce che grida « indietro, indietro, alle batterie » supponendo che fosse intimato di ritirarsi, voltano le spalle per tor nare in città, e si abbattono nel nemico, perchè i Turchi e gli Arabi, avidi delle spoglie, avevano scalato le mura da tutti i lati. Nasce il più fiero e più disperato combattere: il bastione del Bozzari, ove celavasi la maggior conserva delle polveri, saltando in aria lacera e disfà una moltitudine di Musulmani. Infedeli e Cristiani battonsi rabbiosamente di strada in strada, di piazza in piazza s'inseguono, il ferro, il fuoco, le pietre sono armi eguali per ognuno. Non ebbe la morte mai più varj e spaventevoli aspetti. I Cristiani chiusi nelle case fortificate secondano il fuoco. Ma le donne timorose di essere colte, svergognate e straziate, corrono ai pubblici pozzi e vi si gettano co' loro figliuoletti. Colmi

i pozzi di morti e di mal vivi si accorre al mare, e nel mare non poche donne si lanciano. Talune cadendo restano semisepolte nel paludoso limo, cui vive, urlanti, schiamazzanti il tardo flutto ricuopre. Alcune però dettero prova di civile coraggio anche in quell' estremo di sventura. La torre di Anemomilo presa a rifugio dagli invalidi resistette fino al di ventiquattro, e una parte dei suoi difensori salvossi ai bordi di alcune barche jonie, che allontanatasi la flotta nemica, eransi a riva approssimate.

Sogliono per lo più le vittorie rallegrare i vincitori : quella di Missolungi non fu lieta nè ai Turchi, nè agli Albanesi, nè agli Arabi, che pugnando fra loro per avidità della preda s'accrebbero il danno. Quattromila infedeli, il fior dell' esercito, perivano: ma non restava in piede un sol Greco che atto fosse alle armi, computandosene duemilacento estinti nella città. Tre o quattromila donne trascinaronsi in Epiro, ed esposte al mercato erano dalla pietà dei Filelleni redente. Di circa tremila teste faceva trofeo Ibrahim, raccolte a caso nel campo, e spedivansi a Costantinopoli. Invece di partirsi in due la prima adunata dei fuggitivi dalla città, come avevano divisato, se ne marciava stretta in solida massa per la pianura: e fu gran ventura che un tal ordine tenuto avessero, conciossiachè cinquecento Mammalucchi correvano a chiudergli il passo. Percuotevano, non essendo giunti a tempo, la coda di quella squadra, composta di malati e di donne, alla cui difesa periva il prode Sturnaris, che del drappello era guida. Trapassò il resto felicemente, e accozzatosi verso il monastero di San Simone con una torma di gente che fuggiva da Chissara, seguitarono la strada per l' Aracinto. Afferrate le radici del monte, scorsero gente armata; non dubitarono venisse loro incontro co' suoi soldati Caraiscaki: ma una grave scarica manifesta le bande albanesi mandate da Ibrahmi a troncare il passo. Abbenché estenuati dal digiuno di un mese, dai disagi del viaggio, da tanti patimenti e dolori, accingonsi i Greci a combattere.....

Usciti da queste novelle miserie contemplavano i Missolongiti dalla volta dell'Aracinto la distrutta città, che tanto lunghi e penosi assedj aveva tollerati, e cui tanti sacrificj, tante più che umane virtudi non avevano bastato a preservare dall' estrema rovina. Poi numeravano loro stessi, e si trovavano mancare più di cinquecento persone..... Seguitò il misero avanzo di prodi a ritrarsi per due consecutivi giorni per asprissimi luoghi, traversando torrenti, lagune, montagne a tempo rigido e tristo. In quelle orrendé solitudini non rinvenivano i miseri nè tetto che gli albergasse, nè uomo che gli scorgesse, nè pane che gli nutrisse, essendo le terre dalla feroce crudeltà e barbarie ottomana affatto disertate. La fame che avevano voluto fuggire per quel lungo tragitto ostinatamente perseguitavali. Tocca

vano finalmente il castello di Dervechistena, tra le otto e le nove leghe discosto da Missolungi, ove giaceva Caraiscaki infermo, ma non trovandovi appena cibo, per reficiarsi, proseguivano per Salona. Tristo e intollerabile spettacolo era a vedersi ad ogni passo cadere un guerriero dalla fame sfinito e dalle fatiche. Più non posso seguirvi, diceva colui che cadeva una vendetta di più per voi che restate, fratelli: sia il tuo nome immortale, replicavano gl' illustri pellegrini, davangli l'ultimo bacio, e inabili a soccorrerlo, taciti e mesti proseguivano. Dopo aver perduto in simili casi più di secento uomini, giungevano, come pur volle Iddio, in quella città, ove da Costantino Bozzari, che allora teneva quella piazza, non so se con più venerazione od affetto erano raccettati. E Noti Bozzari e Cristo Zavella scrivevano da quella città al Governo Generale in questi termini, per commuoverlo alla difesa di tutto il paese: « A voi, governatori della Grecia, deh l'animo per pietà non vi manchi. In noi per le sventure non mutò. Šiam sempre quegli stessi per cui si difese la libertà tanto nelle montagne di Sulli, che sulle mura crollanti di Missolungi, e Missolungi sarà ovunque, ovunque sarem noi. ».....

Tale fu il fine di Missolungi, che con un presidio di settecento uomini pressochè nudi, affamati e mal provvisti di difesa, sostenne per undici mesi l'assedio contro circa ventitremila barbari ben provveduti, da espertissimi duci cristiani avvalorati e guidati. Fu dunque allora il soccombere maggior gloria che il prevalere: espugnata era Missolungi, non vinta. - (Dalla Storia del Risorgimento della Grecia, lib. VIII, in fine.)

SILVIO PELLICO. Nacque a Saluzzo il 21 giugno del 1789. Di salute delicatissima, tormentato da continue malattie, per le cure amorosissime della madre ebbe salva la vita, ed educato l'animo a eletti sentimenti. Visse i primi anni a Pinerolo, indi a Torino dove il padre aveva ottenuto un pubblico impiego. A Lione stette quattro anni presso un cugino materno, dandovisi allo studio della letteratura francese: raggiunse poi la famiglia, che s'era trasferita a Milano, dove il padre era caposezione al Ministero della guerra. Ivi conobbe il Foscolo e il Monti, e d'ambedue, anche al tempo delle loro celebri inimicizie, rimase costantemente devoto; pur amando di fraterno amore il Foscolo, che lo ricambiò di egual benevolenza. Insegnò lingua francese nell'Orfanotrofio militare. Caduto il regno italico perdè l'ufficio, ma rimase a Milano precettore, prima in casa Briche e quindi (1816) in casa del conte Luigi Porro Lambertenghi, cittadino insigne e, col Confalonieri ed altri patrioti milanesi, sostenitore della indipendenza del regno italico. Dal 1818 al 1819 attese alla compilazione del Conciliatore, e così venne in sospetto al governo austriaco, che ben presto sop

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