Ennio da Taranto, che ristorò l'Epica; e Lelio e Cecilio, che con altissimo animo recarono la tragedia e la commedia greca sul pulpito di Roma. Ma comecchè veramente costoro fondassero favella e stile, e fossero creduti classici, pure e Cicerone e Cesare e Lucrezio e Catullo e Orazio furono venerati anch'essi come maestri del dire: e specialmente quando arricchirono il patrio sermone colle dovizie de' Greci. Gli eccellenti Italiani adunque si mossero a fare il simigliante; videro non essere possibile le cose epiche e le politiche scrivere colle sole parole de' padri loro: tolsero il fondamento e le norme dalla vecchia favella: nulla mutarono di ciò che era buono e pronto al bisogno, ma, dove la conobbero scarsa per cantare armi ed eroi e per dipingere le tremende arti dei re, recarono nella loquela tutte quelle dizioni, che a bene spiegare si nuovi ed alti concetti mancavano. Così al modo de' saggi coltivatori fecero più bella e magnifica questa pianta, levandole dintorno molte vane frasche e dannose, recidendone i rami già fatti secchi e da fuoco, e innestandovi alcuni altri tolti dai tronchi greci e latini: i quali subito vi si appresero, e tanto felicemente si fecero al tutto simili al tronco italiano, che più non parvero rami adottivi, ma naturali. Onde, visti quei frutti novelli, la fama gridò ottimi e classici coloro, per cui si produssero; e li pose al fianco del Petrarca e di Dante e di tutti i più solenni maestri. Non si può or dunque più gittare, ma tutto deesi adoperare, che fu materia a quei libri, i quali dureranno finchè vivrà memoria di noi. Che se sl dovesse scrivere nella sola lingua de' vecchi, non solo faremmo danno alla copia dello stile, ma ancora alla nostra gloria. Imperciocchè si converrebbe dire e giudicare imperfetti tutti gli autori, che dal Trecento in fino a questa età con intelletti sani ed anime dignitose scrissero o poetando o perorando o filosofando. E se poi senza questi si dovesse venire al confronto de' Francesi, degl' Inglesi, degli Alemanni, non avremmo un'epopea, non una storia, non un trattato di filosofia, che s'avesse più ardire di chiamar ottimo. Così al cospetto di quei nobilissimi popoli noi, svergognati e quasi mendichi, vedremmo questo superbo idioma tolto dal primo seggio, a cui si stimava inalzarlo, tra gli ultimi confinarsi; e noi rimanerci senza l'onore di quei libri, onde vinciamo la gloria di molte genti, nè siamo ancor secondi ad alcuna. Aggiungasi che, salvo la Divina Commedia, il Decamerone e il Canzoniere, gli altri volumi del Trecento saranno meno validi a sostenere la guerra del tempo, e ne' lontani giorni saranno o già perduti o non letti: ed ultimi potranno mancare nella memoria dei tardissimi posteri questi poemi del Furioso e della Gerusalemme, e queste opere di filosofi e di gravissimi istorici, perchè di tanto ci fa fede la fama, che n'uscì non pure all'Italia, ma ai termini della terra. Quindi le cose scritte al modo di questi autori saranno sempre più lette e meglio intese, e più durevoli e più care a quanti amano Italia. Come dunque sbandire i preziosi vocaboli in tanto preziose carte riposti? Chi sarà così folle, che voglia persuaderci ad abbandonarle e chi si valente che il possa? Diremo anzi che il popolo, usato a commuoversi alla maraviglia, al terrore, alla pietà, nel leggere questi autori, accuserebbe di freddi e digiuni coloro, che non adoperassero quelle voci, quelle forme, quegli artificj, quegli stimoli, onde ora egli è assuefatto a sentirsi dolcemente rapire, come per incanto, il cuore e lo spirito. Che se in questi più nuovi libri sieno talvolta alcune guise non belle e alcune voci non elette, queste non seguansi, anzi si guardino come colpe; perchè nullo, per quanto siasi eccellentissimo, dee stimarsi mai interamente immacolato. Non tali però si credano tutte le cose, che appieno non rispondessero con gli antichi. Basta che queste sieno state accolte per buone dai buoni, e imitate da loro, e per tali tenute nell' universale, e costantemente. Perciocchè stimiamo che della lingua affatto si avveri ciò che di tutte le umane cose affermava Pitagora: quello, cioè, esser vero che si reputa vero. — (Dall' opera Degli scrittori del Trecento e dei loro imitatori, lib. II, cap. XI.) La famiglia del contadino. A una sposa. Vieni, fanciulla mia, vien dentro il bruno Figlioletti vedrai tutti d'un conio; Quando moviam per la campagna insieme, 1 D'ogni bene che possa capirsi. * Così è detto il sonno della mattina. Finchè poch' erbe e bruno pane e latte Quando la faccia d'oro il sol ripone, Io non rattengo per la gioja il pianto, Vien, fanciulla, a veder che dolce stato! E chiusa la capanna; per lo bianco Dan le appese lucerne un lume lento, Qua Menichetto sta presso un fastello Più là Cecchino verdi giunchi intesse 3 Strimpella Pippo il cembalo scordato, Ella è di Menicon l'alma e 'l diletto; Nudo e paffuto intanto un bambinello Che ognor che 'l veggo egli mi par più bello. Le gambe ha in arco, il capo ha d'oro fino, 1 Sull' imbrunire. 3 A salutar col canto 4 Innamorato. 2 Stadigli. mattutino: colla mattinata. Grosse le braccia, e le guance han colore Meo, Beco e Ciapo, come tu mi vedi, Di latte di dolcezza una tal vena, Che pieno il cuor ne porto e 'l ciglio mollo. La Mea dall' arcolajo il fil divide, Finchè le fugge di mano la rocca, Non v'è più fiamma; solo il carbon fioco Si stan le donne, nè fan più parole (Dalla Cantilena di Menicone.) LORENZO COSTA. Di famiglia patrizia, nacque a Spezia ai 18 ottobre 1780. Studiò giurisprudenza a Genova; ma attese alle lettere italiane e latine. Rimangono incompiuti un poema latino su Andrea Doria, e uno italiano, il Cosmo, del quale furono pubblicati solo sei canti (Genova, Pellas, 1846); sparse o inedite la maggior parte delle sue liriche, salvo un Inno al Paganini (1837), una Canzone a Genova (1840) e una pel monumento innalzato a Napoleone a Marengo (1847), ambedue pubbl. da A. NERI, Sarzana, Ravani, 1876, ma la seconda, che riproduciamo, già inserita da 7. BICCHIERAI nell'Antologia poetica, Firenze, Le Monnier, 1855. Il suo maggior titolo alla fama è il poema il Colombo, in otto libri (Genova, Ponthenier, 1846; 2a ediz., Torino, Unione tipogr. edit., 1858), in che vincendo di gran lunga altri che vi si erano provati fin dal sec. XVII (v. C. STEINER, Crist. Colombo nella poesia epica ital., Voghera, Galli, 1891), narrò la scoperta dell'America e glorificò l'eroe di essa. Superò in esso molte difficoltà, arrivando perfino a descrivere la forza motrice del vapore, che un giorno avrebbe rinnovata la navigazione; tratteggiò bene la grandezza morale di Colombo; temprò ottimamente e variò il verso; ma ormai un poema epico era frutto fuor di stagione, e la macchina poetica irrugginata non vi si muove libera e franca, impedita da episodj e non giovata dalla larga introduzione del sovrannaturale. Quest' illustre rappresentante della tradizione classica morì in Genova ai 16 luglio 1861. [Per la biografia vedi ANT. CROcco, Della vita e degli scritti di L. C., Genova, 1868, e MICHELE SARTORIO, Cenni biograf. preposti alla cit. stampa delle Due Canzoni.] Pel monumento da innalzarsi a Napoleone I in Marengo. (1847.) Io vi saluto, o campi Fieri nella memoria, De la tresca danzata al suon di guerra, Quando fra tuoni e lampi Incoronò Vittoria Colui che nacque a rinnovar la terra; Vasti silenzj ov' erra Il vol de l'aure amiche, E move in suo viaggio Il trepido oceán dell' auree spiche, Voi pur saluto, e voi Da l'aratro commiste ossa d'eroi. Di patteggiar con morte Per nobil preda in conquistato agone, Questa ragion del forte, Che fa merito i rischi al guiderdone; L'ardir de' Franchi esalto E il tedesco furore, E chi uccide e chi muore Nell' acerbe difese e nell' assalto Profondendo la vita, Tutta di sangue e di corrucci ordita. Ma cui fruttò quel sangue Corso da stranie vene Quasi a torrenti in queste glebe amare, S'ebbe la patria esangue Più barbare catene, Più atroci scherni da le torme avare, Se vide il suo bel mare Vuoto di navi e merci, Dilacerati i figli E involate oh dolor! l'opre che dierci |