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è tanto scolpita nelle opere, come quella del Colletta.... quella sicurezza che appare nel libro era in ogni sua parola, quel non so che d'imperativo ch'è nel suo stile, l'aveva egli da natura impresso nel volto e in ogni suo portamento; era stile tutto suo, spontaneo, necessario, nè avrebb' egli potuto scrivere o dir parola che in sè non portasse quella sua impronta. » La Storia, ch'è una terribile accusa al malvagio Borbone, fu tacciata d' inesattezze; nè queste potevansi evitare scrivendo col solo aiuto della memoria, lontano dai luoghi, senza sussidio di documenti; ma ad ogni modo è nelle linee generali fedel ritratto dei tempi e de' casi, e insieme insigne monumento di arte storica. Ricordiamo qui alcune scritture sulla storia del Colletta: ANT. CAPECE-MINUTOLO, principe di Canosa, Riflessioni critiche sulla storia ec., Capolago, 1834; FR. PIGNATELLI-STRONGOLI, Discorsi critici sulla storia ec., Lugano, 1836; P. BORRELLI, Intorno al romanzo storico di P. C., Coblenz, 1847; ANDREA CACCIATORE, Esame delle storie ec., Napoli, 1850; P. CALA ULLOA, Intorno alla storia di P. C. ec., Napoli, 1877, ec. Nel 1861 a Napoli dalla stamperia nazionale, per opera di un nipote, furono pubblicati due volumi di Opere inedite erare, ove, oltre una autobiografia incompiuta, si trovano alcune scritture storiche: la Memoria militare sulla campagna dell' an0 1815, Pochi fatti su G. Murat, Cenno storico sulla rivoluzione del 1820, Sul libro degli Italiani in Spagna del Vacani ec.; scritture militari, cioè un Progetto di codice militare, una Memoria sulla frontiera di terra del regno di Napoli e Lettere filologicomilitari a G. Grassi; scritture economiche, cioè Pensieri sull' economia agraria della Toscana, e sullo stato economico di essa, duzioni di Tacito, e Lettere. Per queste, veggansi anche le dirette al Leopardi nell' Epistolario di G. L., ediz. del '92, III, 281, e quelle al Capponi nel vol. I delle Lett. di G. C. e di altri a lui, Firenze, Le Monnier, 1882.

tra

Vedi sul Colletta, FR. PALERMO, P. C. uomo di stato e scrittore, in Arch. stor., nuova serie, III, 61, IV, 75; G. CAPPONI, Notizie intorno alla vita, premesse alle ediz. della Storia; M. D' AYALA, Vita, premessa al II vol. delle Opere ined.; G. LAZZARO, P. Colletta, Torino, Unione tipogr. edit., 1861.]

Dopo la bat

Ultimi casi e morte di Gioacchino Murat. · taglia di Vaterloo e la caduta dell'impero francese, molte Voci si divolgavano sulle sorti del re Gioacchino; chi lo diceva in Tunisi, chi in America, o che nascosto si tenesse in Francia, o che travagliato fuggisse a ventura, quando s'intese che da re era giunto in Corsica, ed indi a poco da nemico in Calabria. Qui lo attendea la fortuna per dare al mondo novelli esempi di sua possanza, abbattendo le sublimità ch'ella dalla polvere aveva erette, e confondendo gli

estremi di felicità e di miseria.

Ho detto le sventure di lui nella guerra d'Italia, e la fuga dal Regno, e come in Ischia, restato un giorno, prese asilo sopra piccolo legno che navigava per Francia. Traversando il Golfo di Gaeta, vedendo su le torri sventolare la sua bandiera, pensando che i suoi figli stavano tra quelle mura, e oltre ciò l'impeto naturale ed il lungo uso di guerra lo spingevano ad entrare nella fortezza, ed ivi combattere, non a speme di regno, per disperato consiglio; ma parecchie navi chiudendo le entrate al porto, egli, addolorato, proseguì a navigare verso occidente.

Giunse a Frejus il 28 maggio ed approdò al lido istesso che il prigioniero dell' Elba, due mesi avanti e con fato migliore, avea toccato. Sulla terra di Francia mille pensieri e memorie lo agitavano; le primizie del suo valore, le fatiche, le fortune, il diadema, il nome: e dall'opposta parte gli ultimi fatti della guerra di Russia, l'ira di Buonaparte, le pratiche con l'Austria e con la Inghilterra, l'alleanza e la guerra contro la Francia, l'abbandono e la ingratitudine, Le avversità avevano ammollito quell' animo, e prevalendo il timore alla speranza, non osò recarsi a Parigi, si fermò a Tolone.

Scrisse lettere al ministro Fouché suo amico nelle prosperità, e diceva: «Voi conoscete i motivi ed i casi della guerra d'Italia; or io in Francia offro all'imperatore il mio braccio, ed ho fede che a'cieli piacerà di ristorare le sventure di re colle fortune di capitano. » Fouchè presentò il foglio a Buonaparte, che richiese qual trattato di pace avesse egli fermato col re di Napoli dopo la guerra dell'anno 14; così ricordando e vendicando le offese. Gioacchino restò in Tolone, venerato da quelle genti, o che fosse pietà della sua sventura, o memoria dell'antica grandezza, o sospetto di novelle fortune.

Pur quel molesto riposo gli fu turbato dopo i fatti di Vaterloo. Tolone, Nimes, Marsiglia si viddero agitate da furie civili e religiose; i partigiani dell'impero trucidati, divise le spoglie. Gioacchino si nascose, e mandò lettere allo stesso Fouchè, che poco fa ministro di Buonaparte ora di Luigi, serbava illesa l'autorità e la potenza presso re nemici, fra le rovine de' regni. Gioacchino lo pregava di un passaporto per la Inghilterra, promettendo vivere da privato sottomesso alle leggi. E così scrisse a Maceroni, suo uffiziale di ordinanza quando regnava, rimastogli fido, e per ingegno e fortuna noto a' re alleati. Ma Fouché non rispondeva, e Maceroni venuto in sospetto della polizia di Francia, fu imprigionato.

Peggiori ogni di si facevano le sorti dell'infelice Murat: cercato da' manigoldi di Tolone, insidiato dal marchese La Rivière, che anni prima scampato per suo favore dal supplizio, ora gli rendeva ingratamente morte per vita: scrisse lettere al re di Francia non superbe nè abbiette, ma da re

profugo ed infelice, e le mandò a Fouché onde le appresentasse alle regie mani; il foglio al re non avea data per non palesar l'asilo e non mentirlo; quello al ministro diceva: dall' oscuro abisso del mio carcere, nè altro di miserevole, vietandolo il regale orgoglio. Nulla ottenne per que' prieghi, chè l'astuto ministro non rispose, e il re pur tacque. Misero e disperato deliberò di recarsi a Parigi e fidare le sue sorti a're collegati, memore del cinto diadema, e de' fasti di guerra, e de' confidenti colloquj con que're, e delle tante volte distese mani in pegno di amicizia e di fede: egli sperava nobile accoglimento e salvezza. Non imprese il cammino di terra per evitare le strade ancora bagnate del sangue del maresciallo Brune; fece noleggiare una nave che lo portasse ad Havre de Grâce, donde senza periglio poteva recarsi a Parigi.

Fu scelta per lo imbarco spiaggia recondita e molta notte; ma fosse errore o caso andò la nave in altro luogo, ed egli dopo un lungo aspettare e cercarla, vedendo che spuntava la prima luce, andò vagando tra boschi e vigneti; trovò a caso altro asilo, scampò altre insidie, ed alfine sopra piccola navicella fuggì di Francia verso Corsica, isola ospitale, patria di molti che un di furono suoi seguaci nella guerra e compagni di gloria. Dopo due giorni di navigare sorse improvvisa tempesta, si che, raccolta la piccola e sola vela latina, corse il legno per trent' ore a fortuna di mare. Calmato il temporale (e fu ventura perchè il piccolo naviglio in più parti sdrucito non poteva reggere alle procelle), scoprirono altra nave più grande che veleggiava verso Francia; e raggiuntala, uno de' tre seguaci di Gioacchino dimando con preghi al piloto di accoglierli, e per larga mercede menarli in Corsica. E quegli, o che avesse cuore inumano, o che temesse d'insidia o di contagio, rigetto con disdegno la richiesta. Ma volle fortuna che gl'infelici fossero raggiunti dalla Corriera che fa continuo passaggio tra Marsiglia palesò il suo nome ai nocchieri, e soggiunse: «Io Francese e Bastia: Gioacchino, a viso alzato, parlo a' Francesi, e vicino al naufragio dimando aiuto a chi naviga fuor di periglio. » Fu accolto ed onorato da re.

Nel di seguente sbarcò a Bastia, La Corsica in quel tempo era sconvolta da discordie civili, parteggiando i Borbonici, Buonapartisti, gl'Indipendenti; delle quali parti la prima vità di stato in Gioacchino. Perciò le autorità dell'isola inera poca e debole; le altre due, più forti, fidavano per noSospettivano; ed egli, per sicurtà e prudenza, passò a Vescovado, indi ad Ajaccio, sempre perseguito da' reggitori dell'isola e sempre difeso dagli isolani sollevati in armi. Le quali popolari accoglienze lo rendevano allo stato di re, mostrandogli falsa immagine di fortuna, sì che spesso diceva: <Se popoli nuovi per me combattono, che non faranno i Napoletani! Io ne accetto l'augurio. » Allora fece disegno,

non rivelato che a' suoi più fidi, di approdare in Salerno, dove tremila del già suo esercito stavano oziosi e scontenti del governo Borbonico, passar con essi ad Avellino, ingrossare, procedendo, di soldati e partigiani; precorrere di tre giorni sul cammino di Basilicata le schiere tedesche, le quali forse movevano da Napoli per combatterlo, riempiere della sua fama tutto il regno: e non volgere alla capitale primachè il grido dei successi non avesse disordinato il governo, spinto il timido Borbone alla fuga. Non prevedeva sventure, non curava pericoli, vietandolo naturale baldanza e lungo uso di fortuna e di guerra. Fra' quali pensieri raccolse una squadra di duecentocinquanta Corsi, fidi a lui, pronti a cimenti, e noleggio sei barche.

Prefisse il giorno al partire; ma poco innanzi di muovere, lettere del Maceroni da Calvi annunziavano ch'egli portatore di buona nuova era in cammino per Ajaccio. Gioacchino lo attese, e quegli, giunto il dimani, narrò brevemente i proprj casi, e gli porse un foglio che in idioma francese diceva:

<< Sua Maestà l'Imperatore d'Austria concede asilo a re Gioacchino sotto le condizioni seguenti:

» 1° Il re assumerà un nome privato; la regina avendo preso quello di Lipano, si propone lo stesso al re.

» 2o Potrà il re dimorare in una delle città della Boemia, della Moravia, o dell'Austria superiore: o se vuole in una campagna delle stesse province.

» 3° Farà col suo onore guarentigia di non abbandonare gli stati austriaci senza l'espresso consentimento dell'imperatore, e di vivere qual uomo privato sottomesso alle leggi della monarchia austriaca.

» Dato a Parigi il 1° settembre 1815.

» Per comando di S. M. I. R. A. IL PRINCIPE DI METTERNICH. »

« Or dunque, disse Gioacchino, una prigione è il mio asilo! prigione è come tomba, ed a re caduto dal trono non rimane che morir da soldato. Tardi giugneste, Maceroni; ho già fermo il mio destino: aspettai per tre mesi la decisione de' re alleati; quegli stessi che non ha guari mi ricercavano di amicizia, mi han poi lasciato sotto il ferro de' miei nemici. Io vo con felici speranze a riconquistare il mio Stato; la sventurata guerra d'Italia nulla tolse alle mie ragioni; si perdono i regni e si acquistano per l'armi, i diritti alla corona sono immutabili, e i re caduti risalgono al trono se lo vuole fortuna, istromento di Dio. La mia prigionia, qualora fallisca l'impresa troverà scusa dalla necessità; ma non mai serberò, volontario schiavo, sotto barbare leggi, misero avanzo di vita. Buonaparte rinunziò al trono di Francia; vi tornò per quelle vie che ora io tento, fu sconfitto in Vaterloo e prigioniero. Io non ho rinunziato: i miei di

ritti sono illesi, destino peggiore della prigionia sarebbe contrario alla ragione delle genti; ma rassicuratevi, sarà Napoli la mia Sant'Elena. »

Nella notte che fu del 28 settembre la piccola armata salpò di Ajaccio, ed era sereno il cielo, placido il mare, propizio il vento, animosa la schiera, allegro il re: fallaci apparenze. Il governo di Napoli molto sapeva di Gioacchino, e dirò come. Appena sentì ch'egli era in Corsica cercò persona che lo spiasse, ed a quel vile offizio si offerse, o (raccomandato dalla sua mala fama) fu richiesto, un tale Carabelli, corso di patria, impiegato da Gioacchino nel suo regno, d'ingegno vario ed ingrato. Si accostò in Ajaccio all'incauto Murat, e simulando gratitudine lo distoglieva dall'impresa; consiglio amichevole come che di nemico, avendo così comandato al Carabelli il governo di Napoli, che misurava i pericoli di quella impresa. Quegli dunque riferi di Gioacchino il proponimento, le speranze, gli apparecchi e le mosse; ma il governo nulla faceva in difesa, ignorando il luogo del disegnato sbarco e temendo divolgare pensieri di Gioacchino nel regno, dov'erano molti ed audaci i suoi partigiani, pochi e deboli i borbonici, e già mancate le speranze che il ritorno dell'antico re avea suscitate nei creduli ed inesperti.

Per sei di l'armata prosperamente navigò, poi la disperse tempesta che durò tre giorni; due legni, l'uno dei quali tenea Gioacchino, erravano nel golfo di Santa Eufemia, altri due a vista di Policastro, un quinto nei mari della Sicilia, ed il sesto a ventura. Il pensiero dello sbarcare a Salerno impedirono i cieli a noi benigni, perciocchè quelle armi non assai potenti al successo, nè così deboli da restar subito oppresse, bastavano a versare nel regno discordie civili, tirannide e lutto. L'animo di Gioacchino si arrestò dubbioso, e poi, disperato ed audace stabili di approdare al Pizzo per muovere con ventotto seguaci alla conquista di un regno.

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Era l'8 ottobre, di festivo, e le milizie urbane stavano schierate ad esercizio nella piazza, quando giungendo Gioacchino colla bandiera levata, egli ed i suoi gridarono: « Viva il re Murat. Alla voce rimasero muti i circostanti che prevedevano infausta fine alla temerità della impresa. Murat, viste le fredde accoglienze, accelerò i passi verso Monteleone, città grande, capo della provincia e ch'egli sperava amica, non credendola ingrata. Ma nel Pizzo un capitano Trentacapilli ed un agente del duca dell' Infantado, devoti ai Borboni, questi per genio e quegli per antichi ed atroci gervigi, uniscono in fretta aderenti e partigiani, raggiungono Gioacchino e scaricano sopra di lui archibugiate. Egli si arresta, e non coll'armi, co' saluti risponde. Crebbe per la impunità l'animo a' vili: tirano altri colpi, rimane ucciso il capitano Moltedo, ferito il tenente Pernice, si dispongono

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