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forti ed invaghiti che l'Italia fosse conquistata: solo pensa-
vano alle vittorie, non alle battaglie. - (Dalla Storia d'Ita-
lia dal 1709 al 1814, libro XX.)

Ritorno dei Francesi oltr' Alpe nel 1814. Era giunto il momento dell'ultimo vale fra gli antichi compagni: i soldati di Francia salutavano commossi, abbracciavano piangenti i soldati d'Italia; a loro migliori sorti auguravano; ultimo grado di disgrazia chiamavano che la disgrazia li separasse; offerivano gli umili abituri loro in Francia; venissero, si ricorderebbero dell' avuta amicizia, delle comuni battaglie, della con le medesime armi acquistata gloria; fuorichè Italia non sarebbe, tutto parrebbe loro Italia; la medesima amicizia, la medesima fratellanza troverebbero; voler essi con le povere facoltà loro pagare all'Italia il debito di Francia. Cosi con militare benevolenza addolcivano i soldati di Francia le amarezze dei soldati d'Italia. Questi, all'incontro, ai loro partenti compagni andavano dicendo: gissero contenti, chè, l'Alpi li separerebbero, l'affezione e la ricordanza dei gloriosi fatti insieme commessi li congiungerebbero; conforto loro sarebbe il pensare che chi conservava la patria si ricorderebbe di chi la perdeva; la disgrazia rinforzare l'amicizia; avere per questo l'amore dei soldati italiani verso i soldati francesi ad essere immenso; vedrebbero quello che in quell'ultimo eccidio fosse per loro a farsi per satisfazione propria e per onore dell'insegne italiche; ma bene questo credessero, e nel più tenace fondo dell'animo loro serbassero, che, come li avevano veduti forti nelle battaglie, cosi li vedrebbero forti nelle disgrazie; questo speravano di mostrare al mondo, che, se più patria non avevano, patria almeno di avere meritavano. Che Eugenio benefici, li amammo; infelici, fede loro serbammo: ma per che Napoleone a noi? dicevano: gloriosi, li servimmo; l'Italia i nomi diemmo, per l'Italia combattemmo, per l'Italia dolore sentimmo: il dolerci per si dolce madre fia per noi raccomandazione perpetua a chi con animo generoso a generosi pensieri intende.

di Tenda incamminandosi; gli ultimi segni di Francia a poco Partivano i Francesi, alla volta del Cenisio e del Colle a poco dall'Italia scomparivano, ma non iscomparivano le ricordanze di si numerosi anni, nè il bene fatto, nè anco il male fatto, quello a Francia, questo a pochi Francesi attribuendosi; non iscomparivano nè i costumi immedesimati, né le parentele contratte, nè gl'interessi mescolati; non iscomparivano nè la suppellettile dell' accresciuta scienza, né gli ordini giudiziali migliorati, nè le strade fatte sicure ai viandanti, nè le aperte fra rupi inaccesse, nè gli eretti edifizj magnifici, nè i sontuosi tempj a fine condotti, nè l'attività data agli animi, nè la curiosità alle menti, nè il commercio fatto florido, nè l' agricoltura condotta in molte

parti a forme assai migliori, nè il valor militare mostrato in tante battaglie. Dall'altro lato non iscomparivano nè le ambizioni svegliate, nè l'arroganza del giudicare, nè l'inquietudine degli uomini, nè l'ingordigia delle tasse, nè la sottigliezza del trarle, nè la favella contaminata, nè l'umore soldatesco; partiva Francia, ma le vestigia di lei rimanevano. Non venti anni, ma più secoli corsero dalla battaglia di Montenotte alla convenzione di Schiarino-Rizzino. La memoria ne vivrà finchè saranno al mondo uomini. - (Ibid., libro XXVII.)

VINCENZO COCO. Di Campomarano nel Sannio, ove nacque ai 10 ottobre 1770. Andato a Napoli a compiervi gli studj, prese parte ai moti politici, e al ritorno de' Borboni prima fu cacciato, poi condannato all'esilio. Riparò in Francia, ed ivi scrisse il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, che stampò nel 1801 a Milano, dove nel 1802 fu compilatore del giornale del governo, ed ebbe incarico di scrivere una Statistica della Repubblica Cisalpina. Invitato a andar a Cracovia professore, come prima a Torino nel Liceo, non accettò. Mise mano a un romanzo storico, sul fare dell'Anacarsi, ritraendo in esso le condizioni civili e intellettuali delI'Italia meridionale, quando fu detta Magna Grecia: il Platone in Italia, ch'ei finse essere traduzione di un dissotterrato manoscritto greco, fu pubblicato nel 1805. Liberata Napoli dai Borboni, vi tornò (1806) ed ebbe ufficio di consigliere di cassazione, e di membro della Giunta incaricata della compilazione del codice civile; fu anche di quella per la riforma degli studj, e poi direttore del Tesoro. Tornati i Borboni non fu remosso: ma, avendogli il ministro Medici, o com' altri dicono il Principe di Salerno, a malizia o ingenuamente, chiesto di leggere il suo Saggio, n' ebbe tale impres sione che, rinnovandoglisi antichi malori di nervi, a poco a poco perdè l'intelligenza. Durò in tale stato dal 1816 al 13 dicembre 1823. Oltre le due opere citate, si hanno di lui alcuni Frammenti di lettere politiche a Vinc. Russo; un Discorso dell' antica agricoltura italiana (Napoli, 1805) e il Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione (Napoli, 1848).

[Per la biografia, vedi GABRIELE PEPE, in Antologia, vol. XIV (1824), e MARIANO D'AYALA, innanzi al Saggio storico, ediz. di Firenze, Barbèra, 1865.]

Persecuzione de' repubblicani napoletani nel 1799. - Dopo la partenza di Méjeant, si spiegò tutto l'orrore del destino che minacciava i repubblicani.

Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma già da due mesi un certo Speciale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove condanno a morte un sartore perchè avea cuciti gli

abiti repubblicani ai municipj, ed anche un notaio, il quale in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla, e si era rimasto nella perfetta indifferenza. Egli è un furbo, diceva Speciale, è bene che muoia. Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest'ultimo non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per ventiquattro ore, allorchè si portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido segno di vita : si domandò a Speciale che mai si dovea fare di lui: Scannatelo, egli rispose.

Ma la Giunta che si era eretta in Napoli si trovò per accidente composta di uomini dabbene, che amavano la giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse; giusto, perchè, se prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo capitolato non rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perchè non è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare della parola di un re; e perchè si deturpa così la causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le ri

voluzioni.

Allora fu che Acton disse, che se non avea luogo la capitolazione, poteva averlo la clemenza del re. Ma quale clemenza, quale generosità sperare da chi non osservava un trattato? La prima caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi superiori al giusto, e di voler dare per capriccio ciò che debbono per legge: così sotto l'apparenza del capriccio nascondono la viltà, e promettono più di quel che debbono per non servare quello che hanno promesso. Rendasi giustizia a Paolo I. Egli conobbe quanto importasse che i popoli prestassero fede alle parole dei sovrani, e il di lui gabinetto fu sempre per la capitolazione. Il maggior numero degli officiali della flotta inglese compresero quanta infamia si saraglio era il vero, l'unico autore di tanta violazione del rebbe rovesciata sulla loro nazione, giacchè il loro ammidiritto delle genti, e si misero in aperta sedizione.

La Giunta intanto rammentava al governo le leggi della giustizia, ed invitata a formare una classificazione di trentamila persone arrestate (poichè non meno di tante ve ne erano in tutte le carceri del regno), disse che doveano esser posti in libertà, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro, che di un fatto avvenuto dopo l'arrivo dei Francesi. La rivoluzione in Napoli non potea chiamarsi ribellione; i repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era più re di Napoli, dopo che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista, cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i Francesi occupato il di lui regno. Che se i repubblicani revan distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a delitto, perchè eran le massime del vincitore

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avean professate massime le quali pa

a cui era dovere ubbidire: essi avean professata democrazia, perchè democrazia professavano i vincitori; se i vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero seguíte idee diverse. L'opinione dunque non dovea calcolarsi, perchè non solamente non era volontaria, ma era necessaria e giusta, perchè era giusto ubbidire al vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un popolo dopo la legittima conquista ritenga ancora le antiche affezioni e le antiche idee, è lo stesso che voler fomentare l'insubordinazione, e coll' insubordinazione voler eternar la guerra civile, la mutua diffidenza tra i governi ed i popoli, la distruzione di ogni morale pubblica e privata, la distruzione di tutta l'Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva, perchè nella guerra era rimasto perdente; ma se fosse stato vincitore, se in vece di perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla caparbietà l'affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? non avrebbe punito come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l'antico sovrano? La vera morale dei principi deve tendere a render facile la vittoria, e non già femminilmente dispettosa la disfatta.

I principi della Giunta eran quelli della ragione e non già quelli della Corte. In questa i partiti eran divisi. Dicesi che la regina non volesse la capitolazione, ma che, fatta una volta, ne volesse l'osservanza; di fatti, era inutile coprirsi di obbrobrio per perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione, voleva lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina che non avrebbe voluto la capitolazione, ed agli altri ai quali non dispiaceva che si fosse fatta, ma non volevano che si osservasse. Le istruzioni che furon date alla Giunta, da persone degne di fede si assicura, che furono scritte da Castelcicala. In esse stabilivasi, come massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro i quali avean seguita la repubblica ; bastava che taluno avesse portata la coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta, ammetteva che il re era partito; ma per averne una ragione, asseriva che, ad onta della partenza, era rimasto sempre presente in Napoli. Il regno si dichiarava un regno di conquista quando si trattava di distruggere tutt'i privilegi della città e del regno, i quali si chiamavano quasi in tutta l'Europa privilegj, mentre dovrebbero esser diritti, perchè fondati sulle promesse dei re; ma quando si trattava di dover punire i repubblicani, il regno non era mai stato perduto. Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a morte egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di Drusilla.

Nelson, unico autore dell' infrazione del trattato, quell'istesso Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero: nè mai, par

tendo o ritornando, ebbe la minima cura dell'onor di lui: giacchè, partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva. Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi con un suo rescritto avvisò i magistrati, che egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti! Tutti gl'infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a lui, tutti pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi l'ultimo respiro. Non s'intese mai da lui una sola parola di pietà. Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni d'infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell'acqua, per gl'insetti, sotto la più ardente canicola, nell' ardente clima di Napoli. Egli avea degl'infelici ai ferri finanche nel suo legno. Con tali principi la Corte dovea stancarsi, e si stanco ben presto delle noiose cure che la Giunta si prendeva per la salute dell'umanità. Gli uomini dabbene che la componevano furono allontanati; non rimase altro che Fiore, il quale da piccioli principj era pervenuto alla carica di uditore provinciale in Catanzaro, donde, fuggiasco pel taglione in tempo della repubblica, era ritornato in Napoli come Mario in Roma, spirando stragie vendette. Ritornò Guidobaldi, seco menando come in trionfo la corte delle spie e dei delatori, che erano fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa, e tre siciliani, Damiani, Sambuti ed il più scellerato di tutti, Speciale.

La prima operazione di Guidobaldi fu quella di transigere con un carnefice. Al numero immenso di coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la mercede di sei ducati per ciascuna operazione, che per antico stabilimento il carnefice esigeva dal fisco; credette poter procurare un gran risparmio, sostituendo a quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per dieci o do

di

Si conobbe finalmente la legge di maestà, che dovea esser horma alla Giunta nei suoi giudizj: legge terribile, ema

nata dopo il fatto, e da cui nè anche gl'innocenti si potevano

salvare.....

tare il popolo. La stessa crudeltà rese indispensabile la mocarnefici della Giunta. Essa avrebbe fatto certamente rivolL'esecuzione di questa legge spaventò finanche gli stessi derazione. Vennero da Palermo le note dei proscritti; ma rimase la legge, affinchè si potesse loro apporre un delitto. stinato alla morte dovea morire, ancorchè il preteso reo Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era de

fosse minore.

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