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Vittorio Emanuele stimò opportuno visitare le Marche, l'Umbria e Napoli. Fu una vera marcia trionfale: presso Teano (26 ottobre) gli andò incontro Garibaldi. Il re galantuomo e l'eroe popolano, sintesi dell'Italia redenta, si abbracciarono ed entrarono insieme in Napoli (2 novembre): nel giorno seguente il re accolse la deputazione che gli presentò il patto dell'annessione, ed assunse il governo di quelle provincie. La diplomazia riconobbe i fatti compiuti. Gaeta, dopo valida resistenza, cedè al Cialdini (12 febbraio 1861): Francesco II riparò a Roma: con la resa della ròcca di Messina il 13 marzo e di Civitella del Tronto il 20 caddero gli ultimi propugnacoli della signoria borbonica. Giuseppe Garibaldi, consegnata la meridionale Italia al re, nel cui nome aveva guerreggiato e vinto, si ridusse a Caprera (9 novembre): Vittorio Emanuele, dopochè ebbe visitata Palermo, ritornò a Torino (1o dicembre): bisognava rifare da cima a fondo la nuova Italia. A questa laboriosa opera il re ed il Cavour si applicarono con intenso ardore. Innumerevoli gli ostacoli, tra i quali il papa, che non cessava di protestare, scomunicare e chieder vendetta: i demagoghi che attribuivano a sè soli i trionfi di Sicilia e Napoli e ne volevano trar profitto: la difficoltà enorme di fondere in uno i due eserciti, regolare ed irregolare: tanti interessi danneggiati da risarcire, e le pubbliche finanze esauste, e il brigantaggio che infestava le provincie napoletane, e per giunta le impazienze del partito d'azione anelante ad affrancare Roma e Venezia. Il Cavour sopperiva a tutto: niente lo sgomentava, sapendo quanta autorità egli ed il re esercitavano sulle italiche popolazioni e sui gabinetti europei. Difatti, il 18 febbraio 1861 fu inaugurato in Torino il primo Parlamento italiano: il 17 marzo Vittorio Emanuele II fu gridato re d'Italia, e il 27 del mese stesso Roma, quantunque tuttora soggetta al papa, venne salutata capi

tale d'Italia.

Addi 6 giugno 1861 un'irreparabile sventura sembrò arrestare il maraviglioso corso del nostro risorgimento. Cammillo Cavour morì quasi improvvisamente: tetra disperazione, come se con lui avesse a ruinare l'Italia, occupò gl' italiani; li sostenne la fede nel re e negli altri campioni della nostra indipendenza, che si misero tosto sulle orme dell' insigne uomo di Stato. Alla morte di lui succedono momenti assai difficili, principalmente perchè si voleva strappare per forza e senza indugio Venezia all'Austria e Roma al papa. La facilità con la quale eransi liberate le provincie meridionali incitava gl'impazienti, che si misero attorno a Garibaldi. Sguainasse la spada, tutta Italia darebbe di piglio alle armi: contro di lui essere impotente la diplomazia e i nemici sarebbero tosto debellati. In nome di Garibaldi si radunano volontari a Sarnico contro l'Austria; ma il governo italiano li disperde (giugno 1861). Allora Garibaldi vola in Sicilia (28 giugno 1862): al grido suo o Roma o morte accorrono parecchi e si getta con essi in Calabria (24 ago

sto), dove il governo italiano, per impedire mali maggiori, è costretto a trattenerlo con la forza: ad Aspromonte ei fu ferito e fatto prigioniero (29 agosto 1862). La questione più malagevole era senza dubbio Roma. Anche Napoleone III bramava risolverla, serbando indipendente il papato senza urtare il sentimento nazionale degl'italiani. Stimò raggiunto lo scopo mediante la Convenzione del 15 settembre 1864, con la quale egli s'impegnava di ritirare le soldatesche francesi da Roma, ed il governo italiano di rispettare e far rispettare quel resto di dominio pontificio; come garanzia di ciò si trasporterebbe la capitale da Torino a Firenze. Quella Convenzione suscitò un gran malcontento in Torino, ove accaddero sanguinosi tumulti (20-22 settembre); ma a poco a poco l'opinione pubblica si persuase dei vantaggi che ne sarebbero derivati, e il 12 novembre del 1865 il re inaugurava il Parlamento a Firenze.

L'anno 1866 segna un'èra memorabile nella storia contemporanea. La Prussia vinse in guerra l'Austria e la escluse dalla Confederazione germanica. Il colpo di grazia per l'Austria fu la battaglia di Sadowa (3 luglio). Vittorio Emanuele erasi alleato con la Prussia per finir di cacciare gli austriaci. Anche questa volta tutta Italia corse alle armi: migliaia di volontari riempirono le file dell'esercito o indossarono la camicia rossa sotto Garibaldi. A Custoza (24 giugno) fummo respinti: nelle acque di Lissa (20 luglio) fummo sconfitti. Alcuni vantaggi ottenuti da Garibaldi nel Tirolo e dal Cialdini nel Veneto mal potevano compensare quei disastri. Ci mostrammo però leali, ricusando per due volte il territorio veneto offertoci dall' Austria a patto di far pace con essa. La Prussia vittoriosa impose all' Austria il trattato di Praga (22 agosto): Italia ed Austria si accordarono a Vienna (3 ottobre). Le provincie venete cedute a Napoleone III qual mediatore, furono da lui retrocedute all' Italia (18): non troppo onorevole, a dir vero, il modo dell'acquisto, ma dopo le nostre infelici prove guerresche non potevamo aspettarci di più. Così l'Italia vedeva in quell'anno la fine della dominazione tedesca cominciata nella seconda metà del decimo secolo. L'Austria ci restitui la corona di ferro (4 novembre), e Vittorio Emanuele ricevè nel medesimo giorno l'unanime plebiscito dei veneti.

Aumentano frattanto le strettezze economiche del nuovo regno, e a ripararle non bastano nè un imprestito nazionale, nè il corso forzoso (1866). Le spese per la guerra, il riordinamento dell'amministrazione, la repressione del brigantaggio, la fondazione di scuole popolari, la costruzione di strade, ferrovie, fortezze, porti, ec., assorbivano tutte le entrate, e il disavanzo ingrossava ogni dì più minaccioso. Anche i continui tentativi del partito avventato costavano assai per contenerli o reprimerli. Garibaldi, eludendo la vigilanza del governo, invade il territorio romano (23 ottobre 1867) con parecchie centinaia di volontari. Vince i pontificj a Monterotondo (24-25); ma sopraggiungono i francesi in loro aiuto, e lo sbaragliano a Mentana

(3 novembre). Tutta Italia si volta contro a Napoleone III pro-
pugnatore del potere temporale dei papi.

In mezzo a tante peripezie politiche ed economiche, le quali talvolta misero a rischio anche l'esistenza del giovane regno, fu raggio di serena luce il matrimonio (29 aprile 1868) del principe ereditario Umberto con Margherita, figlia del compianto duca di Genova fratello del re. Il popolo italiano festeggiò le bene au gurate nozze, ripromettendosi che ambedue avrebbero continuato le gloriose tradizioni della stirpe sabauda. Il popolo italiano non si è ingannato.

Dalla spedizione del Messico in poi (1862) Napoleone III precipita di errore in errore: l'ultimo e più funesto fu la guerra contro la Prussia (1870). A Sédan (1o settembre) perdè lo scettro e la libertà personale; e i francesi, ad onta di sovrumani sforzi, furono schiacciati dagli agguerriti eserciti tedeschi. Il governo italiano, presidente dei ministri Giovanni Lanza, colse il destro della caduta di Napoleone, e, dopochè Vittorio Emanuele ebbe infruttuosamente invitato Pio IX ad un'amichevole sistemazione (8 settembre), ordinò al generale Cadorna s' impadronisse del territorio pontificio. La breccia di porta Pia schiudeva all'esercito nazionale l'entrata in Roma (20 settembre 1870): in quel giorno di imperitura memoria cadde la sovranità temporale della Chiesa durata ben undici secoli. Il 2 ottobre con quasi unanime suffragio votarono i romani l'unione al regno di Vittorio Emanuele. Ai 27 novembre del 1871. Roma accoglieva i rappresentanti della intera Italia, e Firenze cedeva reverente alla città eterna la dignità di capitale d'Italia. Con la legge delle guarentigie il Parlamento aveva assicurata la indipendenza spirituale del Pontefice (13 maggio 1871): infatti, nessun impedimento fu posto mai al libero esercizio del suo potere, e sotto la tutela della nostra bandiera si compiono numerosi pellegrinaggi cattolici, e non di rado nella basilica di San Pietro s'inneggia dai pellegrini al papa-re.1

Compiuta la unificazione d'Italia, il governo, auspice Vittorio Emanuele, diede opera indefessa a fortificarsi di buone leggi, mentre, diventata l'Italia strumento di pace, tutti gli Stati europei, non ultima l'Austria, le dimostrarono benevolenza e rispetto. Con sorprendente alacrità s'intrapresero lavori di utilità pubblica, segnatamente ferrovie, tra le quali giova rammentare quella tra Francia e Italia col gigantesco traforo del Fréjus inaugurato il 17 settembre 1871, e l'altra tra l'Italia e la Svizzera col traforo del Gottardo recato a termine il 2 giugno 1882. Ci studiavamo di correre senza posa, desiderando di non restare addietro alle maggiori nazioni, e ci siamo riusciti; bensì la fretta, la inesperienza e la smania di segnalarci ci hanno condotti a spendere assai più del

dovere.

mila spagnoli, nel mese di aprile 1894.

L'ultimo pellegrinaggio cattolico a Roma è stato quello di circa dodici

F.

A tutto eravamo preparati, fuorchè alla improvvisa ed immatura morte di Vittorio Emanuele (9 gennaio 1878); lo piangemmo come si piange il proprio padre; e veramente egli era padre della patria, ed in quel modo che con lui fu redenta l'Italia, così al sentimento concorde del popolo pareva impossibile che, lui vivo, nemici interni od esterni fossero capaci di distruggerla. Magnifiche e commoventi furono le onoranze funebri, a cui prese parte tutta quanta la nazione (17 gennaio): ebbe sepoltura nel Pantheon: quella tomba è il palladio d'Italia. Gli successe il figlio Umberto I, che segue impavido e leale le orme paterne. In breve gl'italiani lo fecero segno al loro reverente affetto, perchè di rado un principe vegliò con altrettanta cura al benessere dei sudditi, e s'ingegnò di sollevarli nelle loro calamità. Lo ammirarono i veneti durante le tremende inondazioni del Po e dell'Adige (ottobre 1882); accorse sollecito a Casamicciola tra le rovine dei terremoti (1883): quando il contagio colerico infieriva a Napoli e a Busca (1884), non indugiò un istante a visitare i poveri infermi, e fu anche de' primi che volarono in aiuto degli sventurati sepolti sotto le macerie per lo scoppio della polveriera a Roma (23 aprile 1891).

Addi 7 febbraio 1878 cessò di vivere Pio IX: gl'italiani non imprecarono alla sua memoria, ricordando che un giorno aveva benedetta l'Italia, e iniziato quel moto, che andò più oltre delle sue previsioni e de' suoi desiderj. Fu eletto in sua vece Giovacchino Pecci da Carpineto arcivescovo di Perugia, che assunse il nome di Leone XIII. Gli stessi avversarj del nostro risorgimento politico encomiarono il contegno del governo e della cittadinanza a tempo del conclave, e ciò servì a confermare che il Capo della cattolicità ed il Re d'Italia possono, senza nuocersi scambievolmente, stare insieme in Roma.

Ben altrimenti fu deplorata la morte di Giuseppe Garibaldi avvenuta in Caprera il 2 giugno 1882: fa un lutto nazionale. Pur troppo si son visti sparire uno dopo l'altro i valentuomini che ci diedero una patria: spetta ora ai loro figli e nepoti di conservarla libera, di renderla prospera, onorata e grande, affinchè non si avveri ciò che il D'Azeglio scriveva nel 1865: «S'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'italiani. »

ENRICO GIULIANI.

1 D'AZEGLIO, I miei Ricordi.

19

NOTIZIE LETTERARIE.

Il secolo decimottavo lasciava, morendo, al secol nuovo un manipolo di illustri scrittori, che dovevano ancor dare bei frutti del loro ingegno e lasciava inoltre nobilissimi esempj di una forma di letteratura, aliena egualmente dalle gonfiezze del seicento e dall' inanità delle arcadiche pastorellerie. Questa forma nuova l'avevano inaugurata, rendendo dignità all' arte, Giuseppe Parini col volger la poesia al miglioramento del costume, e Vittorio Alfieri col trattare sulla scena argomenti civili e istillare sensi di libertà; e da ambedue prendeva auspicj e ammaestramenti per la lirica e pel dramma, Ugo Foscolo. Le varie fortune d'Italia nell'ultimo scorcio del secolo avevano porto argomento alle poesie di Vincenzo Monti: nel nuovo secolo, il maggior artefice di versi che da gran tempo avesse avuto l'Italia, parve degno di accompagnare e celebrare colla solennità delle immagini classiche, le stupende vittorie di Napoleone; intanto che Pietro Giordani, rinnovando il panegirico de' tempi imperiali, esaltava la sapienza civile delle nuove istituzioni. I falsi e sdolcinati amori pastorali e le vanità accademiche avevano pertanto nel verso e nella prosa ceduto il logo alle imprese militari e ai grandi avvenimenti politici, e i nomi di Fille, di Cloe e di Dafni, erano sostituiti da quelli di Marengo e di Wagram, e dal nome sopra tutto, d'Italia. Con liete speranze adunque aprivasi il secolo decimonono: e la patria nostra, soggetta al cenno napoleonico, pur ne attendeva beneficj maggiori e durevoli. Il nome di Regno d'Italia dato ad una porzione della penisola, fatta partecipe agli splendori dell'impero, dotata di propria milizia, ove gl'ingegni erano riconosciuti e premiati, ed in fiore scienze, lettere ed arti, pareva avviamento alla formazione di uno Stato, che rispondesse col fatto alla maestà del titolo. Se non che il bello italo Regno si sfasciò per interne discordie, per difetto di virtù civile e militare già prima che ogni speranza di tenerlo in piedi fosse perduta, e il grido di Indipendenza italiana suonò estremo spediente di un avventuriero per salvarsi il trono, anzichè voce concorde di popoli, fermamente deliberati di togliersi di dosso il giogo e formare una sola famiglia. Tornarono gli antichi principi, non ammaestrati dall'esperienza, e men che gli altri quel Borbone, che aveva dato alla scure del carnefice il fiore degli ingegni meridionali: l'Austria riebbe gli antichi dominj, aggiungendovi Venezia, e ai professori di quell'Università di Pavia, che a' tempi di Maria Teresa e poi di Napoleone era stata vivo focolare di scienza, il nuovo Cesare imponeva che gli preparassero non uomini dotti, bensì sudditi fedeli.

Ma in Lombardia appunto, divenuta provincia austriaca e pentita dell' errore commesso nella turpe giornata del 20 aprile 1814,

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