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GIACOMO LEOPARDI.

In Recanati, città delle Marche, nacque d'antica e nobil famiglia (v. C. ANTONA-TRAVERSI, Docum. e notizie intorno alla fam. L., Firenze, Münster, 1888) Giacomo Leopardi, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi Antici, il 29 giugno 1798. Suo padre Monaldo (1776-1847), educato da un gesuita, si mantenne cattolico fiero e nemico delle nuove idee, che anche in Recanati penetravano. Corse pericolo della vita per la vivace protesta, che fece contro l'abolizione de' titoli nobiliari. Amò gli studj e compose varie operette morali, storiche e polemiche contro i novatori e contro anche i conservatori più tepidi e tolleranti, ch'ei non fosse; raccolse una ricca biblioteca che nel 1812 consacrò filiis amicis civibus. Non così si mostrò abile per l'amministrazione do mestica; sicchè nel 1803 ne fu legalmente interdetto e, prosciolto nel 1820, non la riassunse giammai, continuando a tenerla la moglie, che con rigorose economie restaurò, dopo trentacinque anni, il patrimonio. (Autobiografia di Monaldo Leopardi con Appendice di A. AVOLI, Roma, Befani, 1883. Sui primi anni e su molti particolari della vita domestica del Leopardi, v. G. L., Napoli, Detken, 1887; Lett. scritte a G. L. da' suoi parenti C. ANTONA-TRAVERSI, Studj per cura di G. PIERGILI, Firenze, Succ. Le Monnier, 1878; A.D'ANCONA, La famiglia di G. L., nella N. Antologia, 15 aprile 1878: esa Monaldo in specie, C. ANTONA-TRAVERSI, Un'ultima difesa dM. L., Roma, Befani, 1885, e I genitori di G. L., Recanati, Simboli, 1887; R. BONARI, I genitori di G. L., Napoli, 1886.) Giacomo ebbe la prima istruzione in famiglia col fratello Carlo e colla sorella Paolina: maestri, prima Giuseppe Torres messicano exgesuita e già precettore di Monaldo; dal 1809 in poi, il sacerdote marchigiano Sebastiano Sanchini, che fu sempre caro al suo grande alunno, sebbene non gli avesse data, nè più avrebbe potuto, se non un' elementarissima istruzione. Alla sua eroica fanciullezza, scrive il Giordani, niuno potè arrogarsi d'insegnar nulla (Proemio al 3 vol. delle Opere di G. L.): » già fino da' dieci anni 6'era dato a provvedere da sè medesimo alla propria cultura; dai tredici ai diciassette, passando lunghissime ore nella biblioteea paterna, s'era immerso nello studio della filologia latina e greca. La sua salute ne soffri tanto, che rimase per tutta la vita malaticcio e deformato nelle spalle, si da parer gobbo. Cade in questo tempo (1817) l'inizio della sua corrispondenza epistolare con Pietro Giordani, che esortava il già dotto giovinetto alla moderazione nello studio; consiglio, che non accade frequentemente di dover dare ai giovani. E pur di questi anni il primo amore suo, che fu per Geltrude Cassi-Lazzari, cugina paterna, la quale nell'autunno del 1816 dimorò in Recanati in casa Leopardi, e ritornatavi nel 1817 rinfocolò l'amore del giovanetto, che per essa compose il Primo

amore, e le due poesie Spento il diurno raggio e Io qui vagando. Il padre e la famiglia avrebbero voluto avviarlo alla carriera ecclesiastica; ma Giacomo, sebbene, secondo il costume delle famiglie come quella di Monaldo, fin verso il ventunesimo anno vestisse l'abito di cherico, esitò, mostrandosi fino dal 1818 disposto a ben altri pensieri. Le canzoni A Dante e All'Italia, che rimontano a quest'anno, spiacquero al padre per i sentimenti che il figlio vi mostrava ben diversi dai suoi, ed essenzialmente mutati da quando nel 1815 scriveva una orazione per la liberazione del Piceno ». Il Giordani, il quale con gran soddisfazione conforto di Giacomo continuava ad esser con lui in relazione epistolare, e che nel settembre 1818, trattenendovisi circa quindici giorni, lo aveva visitato in Recanati, fu imputato, ma a torto, del notevole cambiamento d'idee, politiche prima e quindi filosofiche e religiose, che in lui avvenne (E. COSTA, P. Giordani e la famiglia Leopardi, in Spigolature storiche e lett., Parma, Battei, 1887); egli, confortandone gli studj, presentiva in Giacomo una fulgida gloria italiana, e celebrava già nel giovinetto oscuro e infermiccio di Recanati il primo prosatore del suo tempo. È noto che il Giordani s'immaginava l'ottimo prosatore italiano fornito della lingua de' nostri trecentisti e dello stile de' greci.- Dobbiamo a questo punto ricordare l'amore di Giacomo per quella fanciulla che chiamò Silvia, ed era Teresa Fattorini (1797-1818), tessitrice, figlia del cocchiere di casa (G. MESTICA, Gli amori di G. L., nel Fanfulla d. dom.,4 aprile 1880). Nè questo fu il suo solo amor giovanile, dacchè, lasciando della Elvira ricordata nel Consalvo, che può essere altro nome dato alla Fattorini, ovvero anche denominazione senza rispondenza colla realtà (v. A. STRACCALI, nel Commento ai Canti di G. L., Firenze, Sansoni, 1892, p. 68), sembra che più tardi amasse un'altra popolana, Maria Belardinelli, ch'ei chiamò Nerina e pianse morta nelle Ricordanze composte nel 1829; altri (ad es. G. BRANCA, Gli amori di L., Macerata, Mancini, 1882, e G. A. CESAREO, Nuove ricerche su G. L., Torino, Roux, 1893, p. 3 e segg.), fa tuttavia di Silvia e Nerina una sola e medesima persona (v. la questione riassunta da O. BACCI, in Giorn. St, lett, ital., XXI, 422). Il fratello Carlo ammette i due amori, giudicandoli, forse assai rettamente « molto più romanzeschi che veri»; e segue: « Vedevamo dalle nostre finestre quelle due ragazze, e talvolta parlavamo a segni. Amori, se tali potessero dirsi, lontani e prigionieri. Le dolorose condizioni di quelle due povere diavole, morte nel fiore degli anni, furono bensì incentivo alla fantasia di Giacomo a crear due de' più bei tratti delle sue poesie (VIANI, Appendice all' Epistol. di G. L., Firenze, Barbèra, 1878, p. XXXVI) ». — Intanto, crucciato e martirizzato sempre dal pensiero» (Epistol., ediz. del 1892, n. 33), ch'era il suo maggior carnefice, attristato anche da una malattia d'occhi, oltrechè grandemente debilitato di nervi e impedito di occuparsi de' suoi studj, con uno smo¬ derato e insolente desiderio di gloria» (Epistol., n. 17), conscio ormai

della sua dottrina e del suo ingegno, egli anelava di recarsi in una gran città. La sua condizione di corpo e di spirito in questo tempo ei la ritrae così al Giordani: «Insomma, io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi andava formando e doveva assodarsi la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo (Epistol., n. 51). Nè in patria trovava con chi discorrere di cose letterarie, sicchè ei la disse borgo selvaggio e sepolcri di vivi, e l'esistenza a cui egli era condannato descrisse amaramente al Giordani (Epistol., n. 23); in famiglia v'era come un muro di ghiaccio fra lui e i genitori, e la plebe lo scherniva chiamandolo il gobbo (P. MORICI, Reminisc. leopard., nell'Ordine di Ancona, 20-21 giugno 1881). I genitori s'opponevano a' suoi disegni, per le ristrette condizioni domestiche e per timore del suo totale pervertimento a contatto d'un mondo così diverso. Il suo carteggio con letterati ben noti e di parte liberale gli era intercettato; egli medesimo, sorvegliato; con riprovevole sistema d'educazione, niente ei sapeva della rovina finanziaria domestica. Aggravandosi le condizioni fisiche, crescendogli lo sconforto e la malinconia, fece nel luglio del 1819 col fratello un tentativo di fuga dalla casa paterna, che non riuscì (v. G. PIERGILI, Le tre lettere di G. L. intorno alla divisata fuga, Torino, Loescher, 1880), anzi accrebbe la sorveglianza domestica e le sciagure della sua vita. Com' ei durasse a tante sofferenze, senza perder la ragione, poichè la debole fibra ancor resisteva, è difficile a immaginare, Nella primavera del 1820 ebbe speanza di riaversi; e ai primi annunzj di quella, com' ei racconta al fido amico Giordani, aperte, una sera innanzi di coricarsi, le finestre della sua stanza e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di ndire dopo tanto tempo (Epistol., n. 129). Ma immediatamente ripiombo in quella vita senza illusioni e senza speranze; finchè il marchese Carlo Antici suo zio gli ottenne il permesso di uscire di Recanati, ed egli se ne parti, col cuore pieno di gioia nel novembre del 1822, per recarsi a Roma. Non aveva davanti a sè se non quindici anni di una vita piena di dolori fisici e morali; nuovi formenti e disinganni continui l'aspettavano; ma in questo breve corso mortale, in mezzo alle angosce cui ormai era condannato, egli diede veramente all' Italia quella gloria, che ne sperava il Giordani. Roma, che egli, rivivendo nelle memorie dell' anfico caput orbis, aveva sognato suo rifugio e conforto, non l'appago; si da desiderare la cittaduzza natale e la famiglia, come gli accadde poi di dover sempre bramar le cose perdute o prima

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odiate, non soddisfatto mai della realtà presente. Nessun racconto più efficace di queste sue delusioni, che quello da lui stesso lasciato nelle molte sue lettere da Roma, da Milano, da Firenze. Nel maggio del 1823 tornò a Recanati, e vi si trattenne sino al luglio del 1825, ripartendone per recarsi a Milano, dove l'editore Stella lo chiamava assegnandogli un compenso mensile di diciotto scudi per lavori fatti e da fare. Dal settembre 1825 sino al novembre 1826 dimorò in Bologna: la sola città dove si trovò men male che altrove, e nella quale amò la contessa Teresa Carniani Malvezzi, che da prima gli fu benevola, poi crudelmente acerba (Epistol., n.1 423, 471, 487). Dal novembre del 1826 sino all'aprile dell'anno seguente fu di nuovo a Recanati, e un altro breve soggiorno fece quindi a Bologna (aprile-giugno 1827). Senti poi il desiderio di visitare la Toscana e si condusse a Firenze (giugno 1827), ove ritrovò il Giordani, e presso il Vieusseux conobbe molti dotti, fra' quali il Manzoni (Epistol., n. 507), che giudicò pieno di amabilità e degno della sua fama » (v. C. ANTONATRAVERSI, Leopardi e Manzoni, in Studj cit., p. 1). Da Firenze recossi a Pisa (v. ID., ibid., p. 245) e vi rimase alcun tempo (inverno 1827-primavera 1828), ritrovandovi conforto alla salute, e insieme gli estri d'un tempo, sicchè « col cuore d'una volta » (Epistol., n. 555), vi compose il Risorgimento e la bella poesia A Silvia. Ritornato a Firenze nel giugno, vi dimorò sino al novembre 1828. Tornò allora, e per l'ultima volta, a Recanati, avendo a compagno il giovane Vincenzo Gioberti (v. G. MASSARI, Vita e carteggio di V. G., Torino, Botta, 1860, I, 123), che l'ammirazione per lui, sempre testimoniatagli ne' suoi scritti, rafforzò colla conoscenza della persona. Quest'ultima dimora a Recanati riuscì al Leopardi tediosissima, ond'ei volle ancora allontanarsene; ma già invano al governo pontificio aveva dimandato un impiego nella biblioteca vaticana o una cattedra universitaria, che più di tutto avrebbe desiderato, o almeno un ufficio di cancellier del censo. Il medico Tommasini gli aveva fattà proposta d'una cattedra di storia naturale a Parma, che egli naturalmente rifiutò, come aveva rifiutato a Roma offerte d'entrare nella prelatura. Nè, specialmente per le condizioni di salute, si seppe risolvere ad accettare una cattedra in Germania, propostagli dal ministro prussiano Bunsen (v. A. TOBLER, Ungedruckte Briefe von G. L. an C. von Bunsen, Leipzig, Teubner, 1873). Accolse finalmente la pietosa e delicata offerta, che, a titolo di compenso per una edizione delle sue poesie, gli fece Pietro Colletta, d'accordo con altri amici di Firenze (v. A. DE GENNARO FERRIGNI, Leop. e Colletta, Napoli, Tip. Universitaria, 1888). Parti da Recanati nel maggio 1830, e fino all'ottobre 1831 soggiornò a Firenze. A Luigi De Sinner, grecista svizzero, professore a Parigi, consegnò tutti i suoi scritti filologici, sperando che li avrebbe fatti pubblicare in Germania e ne avrebbe conseguito quello ch' ei gli prometteva: « danari e un gran nome. » Ma le pro

messe del De Sinner non furono attenute (G. PIERGILI, Nuovi docum, intorno alla vita e agli scritti di G. L., Firenze, Succ. Le Monnier, 1882). Giacomo nel 1832 chiese e ottenne dal padre un assegno mensile di dodici scudi, ed ebbe anche sussidj straordinarj. Nel 1831 nell'ottobre e fino all'aprile 1832 fu ancora a Roma; tornò quindi a Firenze, ove visse coll'amico Antonio Ranieri, napoletano, ivi da lui conosciuto. A Firenze aveva frequentata già nel 1830 e amata la signora Fanny Ronchivecchi, maritata Targioni-Tozzetti: non molto si sa di questa passione, che apparirebbe essere stata veemente; forse ei fu lusingato di corrispondenza, forse la donna amata vigorosamente difese l'onor suo di moglie e di madre: certo è che l'acerbezza del disinganno ispirò a lui il canto violento ed amaro Ad Aspasia. Col Ranieri si recò a Napoli, dove arrivò il 2 ottobre 1833, sperando ristoro alla sua salute sempre più affranta. Questi ultimi anni, Sette anni di sodalizio, raccontò il Ranieri in un libro (Napoli, Giannini, 1889), in che non mancano nè reticenze ne forme di senso oscuro e variamente interpretabili, nè gravi omissioni, e che gli può essere perdonato solo in grazia delle molte e reali sue benemerenze verso il Leopardi (v. PIERGILI, Nuovi doc., ec., p. XLVII e segg.; A. D'ANCONA, nel Fanfulla della dom., 18 aprile 1880; F. D' OVIDIO, nella Rass. settimanale, 23 maggie 1880; F. GUARDIONE, Del libro di A. R. su G. L., Napoli, Morano, 1881). Non gli mancarono certo cure affettuose da parte dell'amico e della sorella di lui, Paolina; ma la sua malattia s'agigravava. Dimorava al poggio suburbano di Capodimonte (N. ZINGARELLI, Il L. in Napoli, nel Don Marzio, 3 giugno 1894), passando il maggio e l'ottobre in una villetta a otto o nove miglia da Napoli, posta a piè del Vesuvio, dove si rifugiò, per sottrarsi dal colèra, nel 1836, fin dall'agosto. Sempre ammalato, e con uno strano governo di vita, pur seguitò a meditare e a poetare, dettando all'amico Ranieri. Nel febbraio 1837 ritornò a Capodimonte: il suo male, ch'era insieme, e alternamente, tisi e idropisía, andò sempre aggravandosi. L'ultima lettera al padre, del 27 maggio, così si conchiude: Se scamperò dal colèra, e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rivederla in qualunque stagione; perchè aneor io mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che sempre ho preveduto, che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l'età ad un grado tale, che non possono più crescere: spero che superata alfine la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all'eterno riposo, che invoco caldamente ogni giorno, non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo. Ringrazio teneramente lei e la mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio, acciocchè, dopo ch'io gli avrò riveduti, una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici, che non possono guarire altrimenti »

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