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di canzonarti, come se non fosse maggior vergogna a loro, e confessione di bricconeria. Settembrini aveva un po' aria di scemo, di bonomo: e se ne inquieta e se ne difende, e dice più d'una volta che faceva lo scemo; come volesse dire: poteva parer così; ma non era; anzi... Si vede che quella sua aria di scemo gli dava noia un pochino.

Era un galantuomo, e vuol dire che era un uomo sincero. La sincerità è il pudore dell'uomo, come il pudore è la sincerità della donna. Sincera è la sua parola e il suo sentire e il suo pensiero; e dietro non c'è fine e non c'è interesse che si vergogni di comparire. Quest'assenza compiuta di fini e interessi personali, questa purità lo innalza fra' contemporanei. Vedete le memorie del Montanelli. Ivi è una pretensione, una vanità che vuole gonfiare la persona, e riesce al fine opposto. Settembrini non s'accorge neppure di esser grande e di esser buono. Questo gli par cosa naturale. Ed era davvero in lui natura. La sua modestia non è virtù, è innocenza, una inconsapevolezza spensierata del suo valore. Se gli stranieri sparlano di Ferdinando II, si sente pungere. Se liberali impazienti mettono innanzi Murat, se ne sdegna. Se vogliono domandi grazia al Re, sorride. Il suo Raffaele, la sua Giulia, la sua compagna lo inteneriscono, solo a nominarli. Non domandate i perchè. Non li dice, perchè non li sa, e non ci pensa, e gli pare che non potea essere che così, e che tutti farebbero a quel modo.

Di qui nasce l'infinita semplicità e spontaneità del suo dire, quasi fanciullesca ingenuità. Rara è l'analisi. Piglia le cose così come gli si porgono a prima guardatura e a prima impressione, e le rende intere, con quel calore e con quella luce che gli viene dall'anima. Ed è soddisfatto, non ci torna più, non ci si ferma, non analizza, non accarezza, non ri

cama. Di questa maniera semplice e rapida era perduta la memoria. Settembrini la trova senza cercarla e non la trova già nell'aureo trecento, e non in questo o quello scrittore, la trova nella sua natura, nel suo modo di sentire e di concepire. Vero è che lo studio de' trecentisti gli ha dato il materiale tecnico. Ma quella forma lì non è imitazione, non è scuola, è lui. E non si scrive a quel modo se non da uomo tutto impressione, e non uso a riflettersi, a pensarvi su. Questo è quel fanciullesco e quasi primitivo, così caro nei trecentisti, e che in lui è la grazia della sua natura. Scarsa era la seconda vista, la riflessione, e usava chiamare trivella quell'approfondire e analizzare le cose, di che non sentiva bisogno. Suppliva con alcune qualità geniali concesse a pochi: intuizione pronta, sicuro buon senso o buon senno, come dice lui, rettitudine di gusto e di giudizio. Così tutto gli esce vivo e vero, vita di superficie, ma vita. Molti dotti getterebbero a mare le loro dottrine, pur d'avere quel segreto lì. Che ne dice il mio amico de Gubernatis?

Questo naturale eccellente era illuminato da un cotal mezzo riso che stava tra la bonomia e la canzonatura, ed era tutto altro che di uomo scemo, come pareva a' più. Vero è che non conosceva l'individuo nel suo particolare, e perciò gli mancava la profondità dell'odio o del disgusto; sùbiti sdegni placabili, frizzi, antipatie, erano i suoi modi; spesso un motto era una pittura. La sua bontà lo tirava a giudicare buono il primo che gli si offriva, e leggermente lo faceva suo familiare, anzi confidente. Di rado si pentì; perchè quelli coi quali aveva a fare, erano gli uomini più eletti del paese. E come in quell'uomo semplice e modesto non entrava invidia, e volentieri prendeva il secondo posto, il suo animo si apriva a' più dolci affetti, all' ammirazione e all'amicizia. La sua

moderazione nel dir male si volgeva in entusiasmo, quando parlava degli amici. Perciò molti gli furono affezionatissimi, nessuno fu nemico. Sentivano che in quell'anima non c'era fiele. Ma la conoscenza leggiera dell'individuo era in lui congiunta con la viva apprensione dell'uomo in genere, come era in Leopardi, osservatore originale della natura umana, inetto a giudicare dell' individuo. Anche Settembrini aveva un talento raro di osservazione, che gli faceva cogliere le parti fisiche e morali di un individuo, riferendole a questo o a quel tipo d'uomo, con vivacità di artista, anzi che con severità di storico. E in queste Ricordanze abbondano ritratti geniali, avvezzo a fare come il pittore, a porsi innanzi gl' individui come modelli, e a spassarcisi un poco. Questa disposizione di spirito si rilevò principalmente nell'ergastolo, dove traduceva Luciano e dipingeva compagni. L'individuo guardato a quel modo di artista non gli poteva ispirare altro che un'amabile indulgenza. Indi quel suo mezzo riso canzonatorio, che voleva dire: ti ho capito; non iscompagnato mai dalla bonomia. Gli sembrava un fare lucianesco, ed era il suo fare, quel suo ridere a mezzo, che gli errava perpetuamente tra le labbra, e che è spesso l'impronta di quell'uomo contemplativo che dicesi artista.

Vedete nell'ergastolo. Si spassa a fare ritratti. Dico si spassa, perchè ci mette un piacere di artista, anche a dipingere ladri ed omicidi. E come ne afferra bene i tratti caratteristici con parole impressionate, pregne di caricatura, di sarcasmo, d'ironia, di disgusto. Il Nasone (un contadino abruzzese) è un ometto grigio, con certi occhiuzzi neri lucenti e maliziosi, con un naso come tromba; con una voce stridula e fendente tartaglia strane parole del suo dialetto; serba il tabacco in una pina selvaggia scavata, e di tanto in

tanto ne versa un tantino sul dorso della mano, vi pone su il trombone e tira. « Costui è avaro, sudicio, schifoso oltre ogni dire, ha un letto, che sarebbe onorato se fosse chiamato canile; presta danari ad usura, e ne raschia anche l'untume». Pure il disgusto non è tale che gli vieti quell'allegria artistica che viene dalla caricatura. Si mette innanzi i suoi compagni di stanza, e li squadra con quel cotal riso, e foggia tipi. Spesso li coglie nel parlare, e con vivezza napoletana li contraffà e li fa parlare con le loro frasi e con i loro modi e gesti e intonazioni, sì che è un gusto a sentirli, e dimentichi l'ergastolo, come lo dimenticava dipingendo o traducendo il povero Luigi. Il ritorno era più crudele, e gridava: la morte fa paura, e a me fa paura la vita, e troverei un po' di quiete nel nulla donde sono uscito, e dove ritornerò. Io fo come Giobbe, mi siedo sul mio letamaio ». E dopo di essersi sfogato, conchiude: «ma seguitiamo a dipingere i compagni della mia cella. » Con questi intermezzi pigliava i ritratti, e ci sentiva piacere, e ci gustava l'obblio. Ecco il Giudice, un contadino abruzzese, un allegro matto, « secco, asciutto, senza barba, con l'aria, il contegno, il sussiego, la cravatta, le labbra strette del giudice criminale Sculieri, suo parente ». Ecco « l'omicciattolino di civile condizione, bruno, acceso, butterato, facile ad accendersi come un solfanello, pronto come una vespa ».

E quel bestione, rosso di peli, con tre denti in bocca! Ma il prediletto è Pasquale il calzolaio; giovanotto pervertito dallo zio e da' compagni, innamorato di Lucia, ladro, omicida, camorrista, diede ed ebbe di brave coltellate, e ora mansuefatto conosce i suoi errori e li piange. Il ritratto è tirato giù d'un fiato, e conchiuse con questo tratto di bonomia : mentre scrivo, egli mi sta vicino, seduto innanzi al suo

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bischetto e tira lo spago; nè potrebbe mai immaginare che io scrivo di lui e della sua bella Lucia ». Come ci si vede il piacere dell'artista e del brav'omo! Pure quel Pasquale gli martellava il cervello per tutto il giorno; e quando cominciava a dormire, ei lo svegliava con lo spietato martello che mi ammaccava le membra ». Fu un refrigerio, quando, attenuati i rigori, ebbe compagnia di soli politici. E venne il caro Gennarino col signor Zio, un galantuomo di Cosenza, e il festevole Bellantonio, che Settembrini fece suo siniscalco * un giovinastro alto, diritto, ben fatto della persona e con lunga chioma, ma un uccellaccio scapato, sventato, distratto, che parlando nel suo dialetto, pare un tartaro, anzi gestisce più che parla, e leva le mani in alto, e mugola inarticolatamente: che ora corruga gli occhi loschi e sorride, ora li straluna, e piglia un atteggiamento goffamente tragico; spesso in veste ed aria di gentiluomo, spesso tinto, lordo, affumicato, rabbuffato come un fornaio: e fornaio era la sua arte. È uno spasso a sentirlo narrare le sue geste. «Io sono il Napoleone di Reggio; venite a Reggio, dimandate chi è Napoleone, e tutti vi risponderanno: è Francesco Bellantonio.— Una sera la signora e la servetta sole sole passeggiavano, io le vedo, mi salta il pensiero di rubarmi la criata, me l'afferro tra le braccia che pareva una piuma e scappo e me ne vo dietro certi scogli. Poi mi ritirai al forno e mi posi a dormire sopra una tavola. Stava facendo un sonno saporitissimo, quando mi sento rompere le ossa; apro gli occhi e vedo la signora che con una pala del forno mi menava forte, ed io strillava più forte, per fare capire che mi faceva male assai.-Sapete chi è Bellantonio? È più di Poerio che fu condannato a ventiquattro anni, e Bellantonio all'ergastolo". Ecco ora un tratto finissimo. « Gli capitarono le lettere di

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