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secondo capo d'una potentissima casa, che aveva egli sì celebrata (Ibid. p. 170). »

Qui, come ben vedete, ottimo signore, si fa un grande sforzo per tenere fermo il personaggio di Stefanuccio e la data del 35 e giovarsi anche della mal fida autorità del Monaldeschi sui fatti del 38. Il Petrarca era davvero profeta, se nel 35 vedeva sul Tarpeo il Colonna che vi sarebbe salito, a detta del Monaldeschi, tre anni appresso, ma secondo la verità, dopo sette anni! Soltanto sarebbe ben desiderabile che gli oppositori ci dessero qualche valida prova delle intenzioni del Pontefice, favorevoli a Stefanuccio fin dall'anno per essi indicato. Tuttavia, a me pare che il Pontefice, che il 21 luglio scriveva al Consiglio e Popolo romano la lettera sopra menzionata, sarebbe stato doppiamente imprudente se allora avesse eletto o pensato soltanto ad eleggere senatore Stefano, anzi un Colonna qual si fosse. In primo luogo, avrebbe offeso Roberto di Napoli, amicissimo della Santa Sede e saldo sostegno del guelfismo italiano, che fino al 37 continuò a nominare suoi vicarj in cotesto ufficio; e prova ne sia che il 30 aprile di cotest'anno il Papa rivolgevasi nonchè consulibus mercatorum, anche vicariis, pregandoli ad indurre gli Orsini ed i Colonna ad osservare la tregua del 35, nuovamente prorogata (Theiner, II, p. 25, n.° 46): e cotesti vicarj debbono essere oggi, non pontefici. Non prima della seconda metà del 37 osò il Papa assumere più«libero contegno di contro a'Guelfi e specialmente a Re Roberto (Gregorovius, ib. p. 231) » eleggendo egli i due senatori eugubini; dopo, cioè, che i Romani Tebber fatto, come già vedemmo, capo della Repubblica. In secondo luogo, ardendo tuttavia la discordia tra le fazioni, tanto che gli Orsini nel settembre 1335 distrussero Ponte Molle e i Colonnesi si impadronivano di Tivoli (Gregorovius, ib. p. 228), il propendere, così visibilmente, per una delle due fazioni sarebbe stato attizzare sempre più quel fuoco, che Benedetto aveva mostrato voler spengere colla lettera del 21 luglio, e che cominciò a quetarsi colla tregua del successivo gennaio.

Tale è dunque la vera storia dei fatti romani, nel tempo al quale si vorrebbe far risalire la Canzone del Petrarca. E ne

anche direi, che dovendo rinunziare per forza alla data del 35, ma non volendo rinunziare ad un Colonna, si potrebbe riferire la poesia alla rivoluzione popolare del 39, che portò al seggio supremo Stefano il Vecchio e Giordano Orsini, e neanche alla elezione pontificia del 42, che cadde su Stefanuccio e su Bertoldo Orsini. Ed ecco il perchè. Ognuno sa qual contrasto provò nel cuor suo il Petrarca fra l'amore ai Colonnesi e l'entusiasmo per Cola e per la rinnovellata repubblica; ed è noto anche com' ei scrivesse: Nulla toto orbe principum familia carior; carior tamen Respubblica, carior Roma, carior Italia (Famil. XI, 16). E nelle Canzone stessa, chi ben guardi, si vede chiara cotesta predilezione pei Colonnesi, separati e distinti dagli Orsi, Lupi, Leoni, Aquile e Serpi, cioè da tutti gli altri patrizj di Roma, sui quali soli il Petrarca vuol gettare tutta la colpa delle civili discordie, e contr'essi soltanto eccitare l'ira vendicatrice del Tribuno. Se gli Orsini, i Savelli, i Frangiscani non contrastassero ai Colonnesi, non si accanissero contro la gran marmorea colonna, non danneggerebbero sè stessi e Roma. Per tal modo il poeta, pure animando il Tribuno alla magnanima impresa di sanare Roma delle vere cagioni d'ogni suo male, concedeva quanto era possibile all' amicizia e alla riconoscenza pei Colonnesi, segregandoli dagli altri. Ma se la Canzone fosse scritta in altra occasione da quella del 47, e diretta ad uno dei due Stefani, sarebb'egli stato conveniente al Petrarca, che pur era anche amico ed ospite degli Anguillara, eccitare il suo eroe contro l'altra fazione, quando ambedue quei Colonnesi ebbero nel proprio rettorato a collega un Orsini? Se l'unione nel primo magistrato municipale di due rappresentanti le grandi famiglie rivali era simbolo di pacificazione, poteva e doveva il Petrarca aizzare l' un Senatore contro l'altro? Roma si sarebbe rifatta bella, se uno dei due Senatori, a istigazione del poeta, scannasse l'altro? Ma invece, innanzi alla giustizia popolare e all'autorità tribunizia, tutti i Baroni erano egualmente colpevoli, e contr'essi poteva il Petrarca dar animo al Tribuno, additando in essi la vera causa della rovina di Roma sebbene in qualche modo cercasse appartare dagli altri i suoi Colonnesi, quasi meno colpevoli, come obbligati a difendersi dagli oltraggi degli altri.

Per tutte queste ragioni, che parmi abbiano qualche cosa di nuovo, e per tutte le altre già ampiamente e ripetutamente esposte da V. S. Chiarissima e da Zeffirino Re, mi mantegno sempre fermo nell'opinione che il Petrarca parlasse in questa Canzone a Cola, non ad un Colonna. E Cola effettivamente salì il monte Tarpeo, effettivamente prese in mano l'onorata verga, effettivamente esercitò l' alto uffizio nel 47; da lui veramente si poteva sperare quella restaurazione della romana fortuna e sin dell'universale dominio, che sono descritte uella canzone; laddove Stefanuccio se fu Senatore nel 35, fu tale soltanto in mente pontificis; e di questa non ci resta niun autorevole interprete. Resta da sapere se ai fautori di Stefanuccio accomoderebbe di porre la Canzone al 1342 anzichè al 35; ma in tal caso perdono valore la maggior parte delle loro argomentazioni, nelle quali strettamente si collegano il personaggio e l'anno:come rimarrebbe sempre la sconvenienza di volgersi ad uno solo dei rettori di Roma, mentre due erano essi, e l'uno spingere contro l'altro.

Altre cose ancora potrei soggiungere, ma qui faccio punto. Solo vorrei dire quanto all' Orazione del Baroncelli, la quale a V. S. offre argomento in favore di Cola, e al Carducci contr'esso, che a parer mio, codesto è un documento apocrifo, da non doversi perciò citare nè pro nè contro. Esso mi ha tutta l'aria di una esercitazione retorica di età posteriore, come ve n'ha tante altre tratte da avvenimenti storici, nel medio evo e nei primi tempi del rinascimento. Non l'inventò certo quell'impostore del Doni, che primo la pubblicò; ma opinerei che fosse opera di un conoscitore delle rime del Petrarca e dei fatti di Rienzi, vissuto forse alquanto più tardi. Bisognerebbe consultare in proposito i codici delle Biblioteche fiorentine, e un accurato esame sono certo che confermerebbe i miei dubbj.

Frattanto ho l'onore di dirmi, qual sono

Pisa, 12 maggio 1876.

GIORNALE NAPOLETANO, VOL. III.

Devotissimo

Alessandro D'Ancona

79

E DARWINISMO

I.

Chi studia la storia della civiltà nota agevolmente che quasi ogni secolo si presenta come un organismo, con una fisonomia propria, che gli è conferita da un certo indirizzo nelle abitudini del pensiero e nella vita sociale prevalente fra i contemporanei. Ora è un periodo artistico di creazione; ora, esaurita la spontaneità, perduta la freschezza delle prime impressioni, l'arte diventa critica e imita; ora la speciale evoluzione di una disciplina attrae tutte le attività dello spirito, e ve le concentra; ora le preoccupazioni della vita pigliano il disopra sull'ideale, e la politica, risultato di tutti i fattori sociali, uccide l'arte. E più ci avviciniamo ai giorni nostri, più, queste energie signoreggianti o come qualcuno dice ora, alte correnti dello spirito di una data epoca, ci appajono distinte. La Rinascenza che trasforma e rinnova l'arte, la Riforma che proclama la libertà di coscienza, la formazione delle grandi Monarchie che dà il primo assetto politico stabile all' Europa, la Rivoluzione Francese che alla libertà religiosa aggiunge la politica e dà valore al terzo stato, il Romanticismo, vario di forme e di tendenze, ma in fondo reazione al Classicismo divenuto forma pura senza contenuto vivente, sono momenti culminanti nella storia moderna che ci presentano i gradi

di evoluzione dello spirito nuovo. Se il nostro secolo vien guardato da questo aspetto non potrà designarsi meglio che coll' appellarlo sperimentale poichè ora il fatto più importante e più fecondo di risultati è il rinnovamento delle scienze per mezzo dell' osservazione induttiva.

Il metodo sperimentale ravvivò e dette un impulso vigoroso alle scienze quando esse si resero autonome staccandosi dalla filosofia, la scienza per eccellenza, che le comprendeva tutte. E pure da Platone a Galileo la filosofia non avea mosso un passo innanzi affannandosi a risolvere problemi insolubili. Rinchiusasi nel campo puramente metafisico della ricerca delle idee di forza, di causa, di materia, le pareva di non poter progredire se non vi fosse accordo completo su questo. E più la filosofia vi si ostinava, più l'accordo era lontano e quelle idee son restate e restano ancora altrettante incognite per noi. Le scienze hanno ora abbandonato il vecchio metodo della ricerca delle cause prime nella loro essenza per studiarle nei loro effetti: la matematica prima, poi la fisica, la chimica, la biologia, la psicologia, e studiano il valore dei numeri e delle figure, le proprietà dei corpi, le affinità della materia, le leggi della vita, le relazioni dello spirito e del corpo senza menomamente preoccuparsi della dimostrazione degli assiomi o dell' essenza dell' anima, della definizione dell'elettricità o del magnetismo, della luce o della forza. Trovate alcune verità fondamentali, esse con l'osservazione si avvalgono di ogni nuova ricerca come riprova di quei principii.

Un rinnovamento scientifico non si produce senza scosse: alcune scienze, che stimavansi fondate su basi solidissime, vanno in frantumi; altre, un tempo senza centro e limiti determinati, si presentano complete di tutto punto. Alcuni fatti staccati, appena definiti, ai quali mancavano tutti gli elementi perchè potessero formare una speciale disciplina, son divenuti non solo i fondamenti di una scienza, ma anche i prodromi di altre che si vanno già delineando. Ed alle nuove scoperte va congiunto il rinnovamento delle antiche; la geologia, studiando gli strati di cui è composta la terra, crea tre o quattro scienze diverse e contribuisce alla

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