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quindi i sacerdoti, gli avvocati, i medici, i letterati; improduttivo l'esercito. Qui è chiaro dunque, che ciò che non importa immediatamente all'individuo, può importare alla totalità de'cittadini; ciò che non sarà merce vendibile potrà avere un valore ideale, a cui lo Stato non può rimanere estraneo ed indifferente. Adamo Smith medesimo non ebbe la pretensione di regolare col suo famoso principio tutta l'attività umana, e perciò neppure tutta la competenza dello Stato, ma si bene quella parte sola che si risolve nel semplice interesse. Tanto è vero, ch'egli oltre alla Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni scrisse la Teoria de'sentimenti morali, e i due trattati si completano a vicenda. Nel primo, presuppone come motivo delle azioni umane l'interesse, e ne ricava alcune leggi che ne regolano il conflitto; nel secondo, presuppone il principio opposto, la simpatia, e con essa si studia di spiegare il mondo etico. Perchè mutilare il concetto dello Smith? Perchè restringerne la dottrina tuttaquanta in una formola, la quale non doveva esprimerne, se non la metà? Chi vi dà il dritto di risecar netto il lato morale, e di chiudervi nella concorrenza degl'interessi ?

Lo Stato, direte, non consiste, se non in questa sfera soltanto; ma cotesto concetto dello Stato di mero dritto è un concetto oltrepassato dalla storia; lo Stato, in cui viviamo significa qualche cosa dippiù, e qualche cosa di meglio; esso non può fare come quel mercante, che udendo a celebrare la scoperta di Newton su l'attrazione universale, subito domandò: quanto lucra per cento?

Nel tempo in cui il grande economista di Kirkaldy bandì la massima salutare della libertà del lavoro, bisogna ricordare che lo Stato era tutt'altra cosa, e che la moltiplicità de' privilegi rendeva impossibile ogni concorrenza. Richiedere la rimozione di quell'ostacolo era una giustizia, era una necessità. E poichè i privilegi erano altrettante concessioni dello Stato, la massima smithiana richiedendo da esso l'astensione da ogni ingerenza, non significava altro, se non che mantenere per tutti quella bilancia di eguaglianza, che troppo spesso traboccava da una parte, danneggiando l'altra. Quando si pensa che il solo Federico il grande, che pur se ne diceva alieno, aveva, durante il suo regno, stabilito quattrocentododici

monopoli, è facile immaginare qual enorme ostacolo intralciasse il movimento commerciale.

Nè l'ostacolo fu così presto rimosso, ed il 1838, sette uomini radunati a Manchester, sotto la guida di Cobden, furono obbligati per combatterlo ad inaugurare quella lega che finì per determinare la riforma di Roberto Peel.

Or dove sono la legge sui cereali ed il sistema coloniale, che resero necessarie e feconde le agitazioni suscitate da Cobden, da Bright, da Wilson e da Fox? Dio buono! Che cosa ha di comune la teoria di Smith, e la lega di Manchester con l'esercizio governativo delle ferrovie?

Anzitutto le ferrovie a'tempi di Smith non c'erano, ed è contraria al metodo smithiano l'applicazione di principii astratti a fatti non osservati. Chi sa che lo Smith non ragiona, se non di ciò che ha veduto; chi sa che s'ei deve parlare di una città universitaria, ti cita Oxford; di una città col Parlamento, ti cita Tolosa; di una città con la chiesa di rito calvinista, ti cita Ginevra; chi sa questa scrupolosa cautela di lui si troverà non poco maravigliato a vedere in una delle più ingegnose nostre città combattuto l'esercizio governativo in nome di Adamo Smith. E non basta. Da quando in qua un servizio pubblico è da confondere con un monopolio? Come c'entra il monopolio, se manca la classe privilegiata, se l'esercizio è fatto dallo Stato, e se lo Stato siamo tutti noi, smithiani ed autoritari in un fascio?

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Ma, esercitando lo Stato, c'è complicazione burocratica; come se maggiore non fosse nelle Società industriali. Ma c'è pericolo di una strabocchevole influenza nelle elezioni politiche. Ci sia: e non nuocerebbe più se questa influenza fosse in mano di privati che possono essere anche stranieri, e nemici ? Ma si risparmierà più nella spesa.-Come! se le Società debbono, oltre al rifarsi del capitale impiegato, ricavare altri lucri da ripartire agli azionisti? Ma gl'impiegati saranno più zelanti.-Davvero? E non sono gli stessi? Mutano forse d'indole e d'idoneità? Ovvero potrà ottenere il solo guadagno ciò che non ottiene il guadagno stesso, accoppiato con la coscienza di adempiere un pubblico ufficio?

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Volta e rivolta la questione, non una difficoltà mi è parsa seria di quante ne sono state accampate, non una che non si

possa vittoriosamente ritorcere contro i sostenitori dell' esercizio privato. Sono stato a sentirle tutte, ci ho ripensato sopra e son rimasto sempre lì, fermo nella mia persuasione.

Ma reggessero a tutta prova le obbiezioni mosse, il punto per me è un altro. Ci ha o no interesse lo Stato in cotesto esercizio? Se ce l'ha, forza è che tutte le altre esigenze si pieghino a questa, ch'è la massima. Anche le poste, anche i telegrafi potrebbero lasciarsi alla libera concorrenza de' privati, ma lo Stato ci vide uno strumento indispensabile della sua attività, e ne tolse sopra di sè l'esercizio. Già fin da Luigi XI, da quattro secoli, le poste cominciarono ad essere un servizio pubblico, e niuno ci pensa più.

Ora che le ferrovie siano presentemente non solo un veicolo di commercio interno ed internazionale, ma, quel che è più, un potente strumento di sicurezza e di difesa, è posto fuor di dubbio; dunque lo Stato, tosto o tardi, deve prenderne la direzione, e 'l cielo voglia che sia presto, e che non abbia a scontar cari gli anni del ritardo.

Ma i principii, ed Adamo Smith? Lasciamoli lì i principii, che si riprincipiano sempre da capo, e Smith, che, pover'uomo, in questo negozio è proprio fuori di causa; se no succederà a noi quel che successe al governatore del Bengala; col quale aneddoto conchiuderò questa lunga filastrocca.

Il 1865, nelle Indie inglesi, e proprio nella provincia di Orissa, mancò il ricolto del riso, e ci fu quindi una spaventevole carestia. Il governatore, da onesto smithiano, non se ne diè per inteso, stette saldo sui principii, lasciò fare e lasciò. passare; ed il quarto di quella infelice popolazione passò davvero, ma da questo mondo all'altro. Sopra tre milioni di abitanti ne morirono settecentocinquantamila ! Io ancora non ho potuto appurare, se è stato creato membro onorario della Società di Adamo Smith; ma faccio voti sinceri di non capitare mai in una provincia governata con tanta purezza di principî.

Addio, mio carissimo amico, voglimi bene, e credimi sempre

Di Pisa, il 26 agosto 1876.

Tutto tuo

F. FIORENTINO

Del personaggio al quale è diretta la Canzone del Spirto Gentil, Stefanuccio Colonna

Petrarca:

o Cola di Rienzi?

Al chiariss. avv. Giuseppe Fracassetti

a Fermo.

Colla graditissima sua del 7 corrente Ella m'invita allo studio di un punto controverso, sul quale molto si è già discusso, e che io m'era messo in animo di esaminare più attentamente, sin da quando venne testè a luce il lodato Saggio di un Commento nuovo al Petrarca, del prof. Carducci (Livorno, Vigo 1876), ma onde mi ero in tutto allontanato, assorto in altre faccende. Colgo perciò volentieri l'occasione ch' Ella mi porge colla sua lettera, di mettere insieme alcune osservazioni, che allora mi vennero fatte, e alle quali sarei ben lieto se Ella, così dotto in tutto ciò che riguarda il primo lirico italiano, facesse buon viso, stimandole degne di qualche considerazione; e più sarei lieto se ciò la movesse a respingere in pubblico il gagliardo attacco del Carducci. Del quale, anche in questa occasione, pur stimando ch'egli fosse nel torto, ho ammirato l'ingegno sottile e la molta facondia nel sostenere la causa del suo Stefanuccio Colonna: tale invero, che la maggior parte de'lettori avrà certamente concluso, dopo sì eloquente difesa, che non ad altri è diretta la canzone Petrarchesca. Se non che a Lei, a me,e a qualche altro forse, pei quali non è dubbioso che nello Spirto gentile abbia a ravvisarsi il Tribuno romano, cotesti ragionamenti inge

gnosi non hanno scossa una fede, raccomandata a troppi e troppo validi argomenti. Di ciò trovo esplicito cenno nella sua lettera; ed io con questa mia voglio dirle come e perchè io non sia punto cangiato dell'antica opinione; e perciò, alle già note e troppo pure dibattuté prove verrò adesso aggiungendone talune non abbastanza finora considerate.

Lascio dunque da banda gli argomenti generali, e quelli che direi di sentimento: come, ad esempio, che se l'eroe del Petrarca, anzichè il Tribuno fosse il patrizio, e a quel magnifico Inno alla Speranza desse motivo una bolla papale, anzichè il moto popolare del 1347, sarebbe falso ed artificioso tutto l'entusiasmo che regua nella Canzone, e il Petrarca, più che vero poeta apparirebbe un retore. Troppo piccolo sarebbe il personaggio, troppo meschina l'occasione per una siffatta poesia, se non fosse ispirata da Rienzi e dal rinnovamento della romana repubblica. Ma di ciò non più, perchè la controversia non farebbe un passo, se durassimo a combattere in questo campo delle personali convinzioni e degli apprezzamenti particolari.

Fortunatamente quando io leggevo il Commentario del Carducci ero ancor fresco della lettura di quel volume della Storia di Roma del Gregorovius, dove con l'appoggio di irrefragabili documenti è rinarrata l'impresa di Cola; e poichè quei documenti erano tratti dalla grand'opera del P. Theiner sul dominio temporale dei Pontefici (Codex diplomaticus dominii temporalis S. Sedis, Roma, 1861-62) ebbi ricorso a cotesta fonte copiosa, confrontando col linguaggio autorevole dei documenti stessi, le deduzioni dell' insigne storico, le quali, è superfluo il dirlo, ci corrispondono a capello. Perciò le repliche che fa

al Carducci sono tutte di natura storica, riguardano date repugnabili, si appoggiano all'autorità di scritture alle quali è pienamente da credere. Rileverò inoltre alcuni errori che si 50110 commessi per non esser risaliti alle prime fonti, nè aver tutto verificato coi proprj occhi e col proprio giudicio.

La Canzone, dice il Carducci (pag. 58), fu scritta nel 1335: lo dice chiaramente il verso del maggior padre che ad altra opera intende, spiegato per primo da Salvator Betti, strenuo difen. Sore del Colonna. In esso, non ci è già, come alcuni credet

GIORNALE NAPOLETANO, VOL. III.

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