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Ecco qua un caro libriccino, che abbiamo letto avidamente: Berardi il Re dei Boschi novella calabrese di Nicola Romano. Sono tre canti in ottava rima: sono duecentocinquantadue ottave piene di vita e scritte con forbitezza di lingua. Il Re dei Boschi è Marco Berardi cosentino, il quale tra il terrore dell'Inquisizione e la tirannide spagnuola da una parte, e la vigliaccheria ed immobilità dei soggetti dall'altra, innalza dai monti della Sila il vessillo della riscossa, e chiama a raccolta la gioventù calabrese, che accorre a torme sotto i segni gloriosi delle patrie battaglie. Sfidando i due poteri congiurati insieme contro la rigenerazione dei popoli e la libertà del pensiero, li affronta colle armi sul pugno, sbaraglia e schiaccia gli eserciti viceregnali, e la Calabria lo saluta il Re dei Boschi. Non potuto vincere in campo aperto, si pensa di vincerlo coll'arma temprata alla fucina del Vaticano. Da Roma parte una parola, che cade improvvisa in mezzo alle foreste Silano, e sgomina e scioglie le falangi dei soldati dell'indipendenza. L'anatema avea prodotto il suo effetto; il re dei boschi è abbandonato da tutti, salvo dalla sua Giuditta, la donna del suo cuore, sola a lui fida nell'avversa fortuna. Un giorno sulle vette della Sila, giaceano tenacemente abbracciati due cadaveri; erano quelli di Berardi e di Giuditta, aveano tanto sofferto, aveano tanto amato insieme, che la morte più generosa degli uomini avea sdegnato dividere quei cuori. Ecco la nobile figura attorno a cui raggruppa le fila del suo canto il prof. Romano. Un giudizio giusto e con ragion di causa non potrà darsi se non quando il Romano ci avrà svolto tutta la vasta teta del suo racconto. Il saggio che ha dato però, mostra ch'egli ha potenza di fare opera egregia. La sua vena poetica è limpida e spontanea; il verso è forbito e scorrevolissimo: calabrese, e studioso delle memorie antiohe, egli conosce a meraviglia i costumi di quelle contrade, l'indole del brigantaggio nei suoi diversi periodi, e sa dipingere da maestro persone e

cose. Il 1o canto si apre cou una descrizione della Sila; e ci duole, che per mancanza di spazio, non possiamo riprodurne che due ottave:

Del calabro Appennin, tra le selvose
Velle, un ampia montagna incoronala
Di pini antichi e d'altre piante annose
Dall' Aquilone all' Austro si dilala.
Nell' estivo calor, quivi l'ombrose
Valli, il limpido ciel, l'aura odorala
Al pellegrin sull' erbe molli assiso
Fan dell' ospite Sila un paradiso.

Ma quando a mezzo Ollobre il verno algente
Balle l' ale stridenti in quei pineli,

Agricoli e pastor celeramente

Tornano al natio suol vogliosi e lielı;
Salutano al partir col di nascente

Le pure fonti e i solitarii abeli

Che fur cortesi nell'eslivo ardore

D'ombra, e di fresco e cristallino umore.

La nostra Università con l'Imbriani e col Panceri ha perduto di fresco due valorosissimi professori; di loro parleremo in un prossimo numero; per ora ne diamo il tristo annunzio che certo tornerà dolorosissimo a quanti sanno apprezzare l'ingegno, la dottrina e le virtù civili, che tanto abbondavano in quei due valentuomini.

Il capo della Redazione responsabile

CARLO M. TALLARIGO

Tipografia A. Trani, Strada Medina, 25.

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