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spetto consueto della città rimaneva ancor sonnolento. Non appena i primi bagliori del giorno rischiaravano alcun poco le tortuose e dissclciate contrade, udivi un mugolio di mandre. che, sottratte la notte alle rapine dei bravacci feudali, ritornavano al pascolo; udivi un tintinnio d'incudini e di martelli nelle officine fabbrili, uno stridio di uccelli, provocato dai falconi addestrati da innumerevole quantità di persone dedicate alla caccia, ma non vedevi quel movimento operoso, quella frequenza di comunicazioni, che accompagnano l'industria ed il commercio. Per le vie silenziose, non fiancheggiate da fondachi o da botteghe, poche volte udivi il grido del mercante. girovago, che il più sovente andava ad offrir le sue merci alla nobiltà castellana. Fra i frustagni delle ancille e i saiotti dei popolani, rari apparivano i velluti dei signori, e i broccati delle matrone; nè altre vesti monastiche si scorgevano allora, che la nera cocolla del Benedettino, o la bianca tunica del Camaldolese. Vedevi dalle civiche torri partir segnale ai castelli vicini, o saluti di balestra alle torri nemiche; vedevi per le vie i servi sottoposti agli officii dei cavalli e dei muli; i cagnotti feudali incedere men petulanti, che in campagna, e gli artigiani guardarli di sbieco; vedevi su la soglia della chiesa genuflesso il penitente, e la puerpera velata, ch' entrava a purificarsi, mentre ne usciva il pellegrino, che col bordone e il sanrocchetto, e col cappello a larghe tese, s'incamminava a Terra Santa.. Altri pellegrini, venendo di Germania e di Francia passavano per andare a Roma; e fra loro talvolta vi erano vedove, vi erano monache, che non avendo colpa da espiare, andavano a cercare l'occasione di commetterne, e il più spesso restavano in Italia ad allietare le orgie dei dissoluti; e fra quelle giovani fisonomie, non ancora procaci, scorgevi quando a quando il ceffo spaventoso d'un pellegrino, che in carta autentica recava scritti i suoi orrendi misfatti, e le inflittegli penitenze, compensate abbastanza dai lauti trattenimenti, che quella nuova specie di passaperto gli dava dritto a ricevere. Ed ecco, a molta distanza da quei ceffi, incedere colla faccia stravolta da allucinazioni e rimorsi un gran pellegrino, che spande oro a piene mani: egli è un mostro ritratto dal gran pennello di

Shakespeare è Macbet, re di Scozia, che va anch' esso a Roma a ricevere il perdono dei suoi grandi peccati. Miserrima sopra tutte era la condizione del colono, che per maggiore utilità del padrone era preso libero a patti o a patti manomesso. Balocco tormentato fin da fanciullo della famiglia del proprietario, egli era tormentato adulto ne'suoi affetti di fidanzato, di marito, di padre; poichè il castellano, od altri della casa, dopo avergli usurpato le agognate primizie del matrimonio, gli rapiva la moglie o la figlia, senza obbligo di sedurre nè l'una nè l'altra. Curvo sulla sua marra, egli sudava sul duro terreno, senza sapere se le angherie feudali gli avrebbero permesso di raccoglierne il frutto; se qualche masnada nemica, o la impunita selvaggina sarebbe venuta a devastarglielo; se avrebbe dovuto sospendere il lavoro per seguire pedestre ed indifeso in qualche zuffa il cavallo del corazzato signore. Ai dolori di quell' anima derelitta si aggiungevano le ubbie di quel tempo, i fattucchieri, i fantasmi, i vampiri, il demonio, l'inferno: nè, render la calma alla turbata coscienza, la sua miseria gli concedeva di venire a venal transazione coi ministri del santuario. Ei non udiva altra voce che quella del comando e dello sprezzo; a lui non si volgeva uno sguardo benigno, se pur non gli veniva da quell'angelica pietà, ch'è il più caro istinto della vergine educata in solitudine. Stimato più come cosa, che come persona, egli guardava con occhio d'invidia allo schiavo che istruito e ben trattato dal padrone a fine di venderlo meglio, e, aiutato dal suo piccolo ma sicuro peculio, poteva farsi ecclesiastico, diventar vescovo o papa, mentr' egli addetto alla dura gleba non riposava che sott esso, lasciando ai figli in retaggio una libertà assai peggiore che la schiavitù ».

Se non che, il Bonazzi che ha saputo evitare da bravo lo scoglio di darci una storia a zibaldone, secondo che si usa oggi dai più, ci è parso di non aver saputo con ugual bravura evitare l'altro di darci una storia che non corrisponda gran fatto ai progressi odierni della scienza storica. E pure nel sapersi tener ugualmente lontano da codesti due estremi sta la perfezione in tal genere di scrittura; e il Macaulay nel suo

Saggio su la storia ha chiarito mirabilmente questo punto, e nelle sue storie ha saputo in maniera luminosa confermare col fatto le sue teoriche; tanto che i suoi libri, in quella che sono scritti con tutto il magistero dell' arte antica, agguagliano sempre la profondità e l'ampiezza della critica storica moderna. Il disegno del libro del Bonazzi è tale che travalica a dismisura i confini di una storia municipale: esso abbraccia tutta la storia d'Italia sin dai tempi primissimi, la quale a mano a mano va svolgendosi attorno a Perugia, fatta centro della narrazione, e la lumeggia e ne riceve lume: e di cotesto, non che biasimare, lodiamo il Bonazzi. Ma toccar di tutti i fatti piccoli e grandi, trattar di quistioni gravissime col corredo dottrinale, che possa somministrare il Cantù e il Balbo, è cosa di cui non possiamo lodarlo. Il Balbo era storico profondo e sapiente, per quanto si poteva esser tale trent'anni fa; della profondità e sapienza del Cantù abbiamo dubitato sempre, e quanto più libri va scrivendo, tanto più il nostro dubbio si va confermando. Forse per taluni sarà cotesta una eresia; ma tant'è, noi siamo contenti di passar per eretici, purchè ci si lasci dire quel che pensiamo. Anzi noi aggiun giamo, e pur cotesta è nostra invitta convinzione, che le enormi enciclopedie del Cantù, se hanno prodotto un qualche effetto in Italia, è stato quello di favorire la poltroneria nostra, che in quel magno repertorio credendo di potere acquistare tutta la scienza storica del mondo con nessuna fatica ed a buon mercato, ci siamo messi a scriver storie, senza attingere dai veri fonti storici, dai fonti speciali, che oggi si trovano citati fin a piè di pagina d'ogni mediocre compendio di storia d'Italia. Ciò che diciamo non riguarda il Bonazzi, del quale c'è nota la soda cultura; ma anche a lui non sappiamo perdonare come, trattando, per dirne una, di Perugia etrusca e degli Etruschi, intorno ai quali in Europa si sono scritti non sapremmo dire quanti volumi, ne discorra come se ne sarebbe potuto discorrere ai tempi del buon Giambullari.

Concludiamo. La storia del Bonazzi, dal lato dell'arte, a veder nostro, è stupenda; da quello della dottrina lascia molto a desiderare è una storia bella, ma non dotta. L'autore, però, se vuole, sa e può farla anche dotta; e bello e dotto

insieme ci aspettiamo il secondo Volume, e per codesto, ch'è pubblicato, auguriamo subito una seconda edizione, che ce lo ridia più virile e più robusto. Di qualche piccolo errore, fin di qualche luogo, o qualche nome di città sbagliato, non abbiamo tenuto conto: sono peccati veniali, che sc ne andranno con l'acqua benedetta, e l'acqua benedetta per gli scrittori qualche volta può esser anche un Errata Corrige.

Carlo M. Tallarigo

DI EDMONDO DE AMICIS

Volendo parlare per la prima volta di un'opera del De Amicis, ed essendo breve il tempo e breve lo spazio che a ciò mi si concede, io mi sento come chi avvicini per la prima volta una persona lungamente amata, ma che non abbia facoltà d'intrattenersi con lei che per pochi momenti. Come costui, io debbo ricacciare indietro una folla di pensieri che mi fanno tumulto nel cuore, impazienti di venir fuori. E quello che accade a me accadrebbe certo a molti altri, che si facessero a parlare la prima volta di quello scrittore, perchè egli è uno di quegli esseri privilegiati, che possono far sì che le idee le impressioni proprie diventino reminiscenze e immagini di tanti e tanti altri esseri umani, che ne vivono e se ne pascono come di reminiscenze e d'immagini venute loro dalla propria memoria e dalla propria fantasia. Se certi critici considerassero bene il valore di questo fatto, io credo che sarebbero disposti ad ammirare più che a sentenziare, e vorrebbero comprendere i modi particolari onde uno scrittore abbia potuto compiere un tanto effetto, piuttosto che dire tante altre cose le quali, senza la giusta stima di quel mirabile effetto, non valgono niente. Questa considerazione m' è venuta dettata dai giudizi che intorno al De Amicis ho sentito fare a parecchi letterati nostri, alcuni de' quali anche di molta fama: giudizi, secondo me, assai strani, perchè prescindono da quei fatti che al critico importerebbe sopra tutto di studiare. E mi duole

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