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irregolare nè sgraziato di certo, s'impostava una testa superba; una testa che aveva insieme, secondo l'istante in cui la si osservava e il sentimento che l'animava, del Giove Olimpico, del Cristo e del Leone, e di cui si potrebbe quasi affermare che nessuna madre partori, nessun artista concepi mai l'eguale. E quante cose non diceva quella testa; quanto orizzonte di pensieri in quella fronte elevata e spaziosa, quanti lampi d'amore e di corruccio in quell'occhio piccolo, profondo, scintillante; che marchio insieme di forza e d'eleganza in quel profilo di naso greco, piccolo, muscoloso, diritto, formante colla fronte una sola linea scendente a perpendicolo sulla bocca ; quanta grazia e quanta dolcezza nel sorriso di quella bocca, che era certo, anche più dello sguardo, il lume più radioso, il fascino più insidioso di quel viso, e che nessuno oramai il quale volesse serbare intera la libertà del proprio spirito, poteva impunemente mirar davvicino!

A questa singolar bellezza poi, che era già per sè sola una potenza, la natura, madre parzialissima a questo suo beniamino, aggiunse l'agilità e la forza; non veramente la forza muscolare dell'atleta, ma quella particolare forza nervosa, che si rattempra e ingagliardisce coll' esercizio e che, associata all' agilità, rende capace il corpo delle più ardue prove e delle più arrischiate ginnastiche.

E che ginnasta fosse Garibaldi lo sappiamo da lui stesso. < Credo d'essere nato anfibio,» soleva dire per esprimere la facilità con cui fin dalla prima volta in cui si buttò in acqua, si trovò naturalmente a galla. Abbiamo notato infatti le persone da lui salvate dall'acqua, e sono sedici: il che potrebbe bastare, anche non essendo Garibaldi, alla rinomanza d'un uomo.

E come nuotava, cavalcava, saltava, s'arrampicava, tirava di carabina, di sciabola, occorrendo di pugnale, senza che nessuno gliel' avesse mai insegnato, e avendone trovato soltanto nella struttura delle proprie membra e negli istinti della propria indole, il segreto e la maestria !

Del suo corpo poi, come uomo che sa d'averne bisogno, era curantissimo. Egli non vesti sempre il costume con cui il mondo s'abituò a vederlo fin dal 1860. In America alternò, secondo i casi, il vestire paesano del gaucho, la giacca del capitano di mare, e l'uniforme bianca, rossa e verde della Legione Italiana; venuto in Italia, se non era sotto le armi, nel qual caso tornava alla tunica rossa orlata di verde (non camicia per anco), al cappello piumato a larghe falde, al mantello bianco ed ai calzoni grigi instavalati, indossava un grosso soprabito abbottonato sino al mento, e fu con quello che noi lo vedemmo per la prima volta a Torino nel 1859.

Soltanto la mattina del 5 maggio comparve sullo scoglio di Quarto colla camicia rossa e il poncho sulle spalle; e sia

stato amore di quell' assisa fortunata o certezza che quella foggia si attagliasse meglio d'ogni altra alla sua figura, non l'abbandonò mai più.

Ma anche più che all'eleganza del vestire, tenne alla nettezza della persona. Usava frequente bagni e lavaeri d'ogni sorte; aveva delle sue mani, de' suoi denti, de suoi capelli una cura attentissima; non avreste trovata sulle sue vesti, spesso logore e strappate, una sola macchia. Strano a dirsi come quel mozzo paresse un gentiluomo. Nel primo abbordo aveva quel non so che di semplice e decoroso insieme, che è il primo incantesimo con cui tutti i grandi uomini pigliano di solito i minori. Non dava che del voi; tenne il tu per i figli e per i più vecchi e più intimi amici; e fuori che al Re non l' abbiamo sentito dare del lei a chicchessia. Nel ricevere, porgeva egli per il primo famigliarmente la mano; alle signore, tanto più se onorande per età o per lignaggio, gliela baciava con galanteria di cavaliere.

Nei colloquj preferiva l'ascoltare al parlare, segno questo pure di cortesia aristocratica. Nelle cose minime, nelle questioni secondarie d'etichetta o di forma, quando si trattasse di rendere un servizio, di liberarsi da un fastidio o di concedere un favore, fosse colui che gli parlava ricco o povero, umile o potente, era d'un'amabilità e d'un'arrendevolezza affascinanti. E da ciò la sua troppa facilità nel concedere commendatizie ed attestati d'onestà e di patriottismo anche ai meno meritevoli, e l'abuso che tanti indegni poterono fare della sua parola e del suo nome. Ma in tutti gli argomenti a'suoi occhi importanti, quando fosse in giuoco alcuna delle sue opinioni predilette o degli affetti dominanti del suo cuore, allora il discorso cominciava a diventar difficile, e se l'interlocutore s'infervorava nelle obbiezioni, con una sentenza, un motto, talvolta una scrollata di spalle, troncava la disputa. Nel 1864 quando visitò Lord Palmerston in casa sua, avendo questi condotta la discussione sulla Venezia e tentato di fargli capire che la questione veneta era da rimettersi al tempo, alla Diplomazia, ai Trattati: «Ma che cosa mi dite, interruppe di scatto, chè non è mai troppo presto per gli schiavi rompere le loro catene, » e con una mossa subitanea piantò stupito e quasi a bocca aperta il suo eloquente contradittore.

E ciò sganni una buona volta coloro che, non sappiamo con quali fini, si son sempre finti un Garibaldi automa senza idee e senza volontà, e di cui i pochi furbi che l'accostavano potevano a lor grado guidare i movimenti e far scattare le molle. Delle idee ne aveva poche, ma tanto più tenaci, quanto più avevano trovato libero il campo dello spirito in cui abbarbicarsi. Discutere con lui era anche per quelli che più stimava ed ascoltava, la più ardua e più erculea delle imprese. Era una sfera d'acciaio brunito, che non la

sciava presa d'alcuna parte. Francescc Crispi, nel di lui elogio funebre alla Camera dei Deputati, disse: « Non ci fu uomo che sia stato come lui forte nelle sue volontà; egli fece sempre soltanto quello che volle, ma non volle che il bene d'Italia: » e questa affermazione d'un testimonio, che gli fu al fianco nei più gravi momenti della patria, ci dispensa dal dirne di più.

Le maniere gentili traevano risalto dai costumi semplici. Pochi uomini più di lui furono nel bere più sobrj, nel cibo più parchi. Fino agli ultimi anni, in cui il vino gli fu ordinato quasi per medicina, bevette sempre acqua, e dell'acqua migliore si pretendeva buon gustaio finissimo, e l'assaporava, e la decantava talvolta ai commensali, che non erano sempre del suo gusto, come il più prelibato de'nettari. Quanto alle vivande, mangiava poca carne, anche per un residuo di scrupoli pitagorici che non aveva mai saputo vincere; prediligeva il pesce, i frutti e i legumi. Un piatto di fichi e di baccelli lo metteva d'appetito meglio d'un fagiano tartufato! Il pesce godeva, quand'era sano, pescarselo da sè; e allora due o tre volte la settimana, al pallido lume di Venere-Diana, presi seco or l'uno or l'altro de' suoi figli e per turno questo o quello de' suoi compagni di Caprera (quasi sempre, nel 1854, anche lo scrittore di questo libro), scendeva in canotto, ed ora al largo, ora nei seni più pescosi di quella pescosissima marina, passava tal volta coll' amo, tal' altra coi filaccioni, quasi mai colle reti, l'intera mattinata, tornandone, rare volte, a mani vuote, quasi sempre con tanto di preda da fornire il desinare a lui e a tutta la colonia.

Ma la sua passione predominante fu l'agricoltura. « Di professione Agricoltore,» scriveva egli stesso sulla scheda del Censimento del 1871, e non aveva mentito. Un terzo della Caprera fu ridotto fruttifero per molta parte del lavoro sudato dalla sua fronte, o colla scorta de' suoi precetti e per impulso della sua volontà.

La prima sua opera era stato un vigneto sopra un piccolo altipiano, a metà via tra la sua casa e Punta Rossa, ma quantunque l'uva, tutta bianca, ne fosse squisita, la vendemmia non compensò mai la fatica e la spesa. Più tardi, già preoccupato del problema del pane quotidiano, volle tentare la coltura dei cereali, e ridusse a frumento un quadrato di forse quattro ettari; ma qui pure, per colpa non del cultore ma del terreno, il frutto non corrispose al dispendio.

Ma il suo vero amore, era il podere modello di Caprera, era il Fontanaccio. Esso pure, fino dal 1850, non era che dura roccia, e d'anno in anno ci fece la vite, il fico, il pesco, il mandorlo, il fico d' India, e, sebben più sensibili alle sferzate di grecaio, gli agrumi.

E colà ogni mattina, per lunghi anni, coperto il capo da un cappellone a larghe falde, in camicia rossa sempre, ar

mato di coltelli e di forbici agricole, di cui gran parte portava appesi ad una cintura, passava le lunghe ore a potare, sfrondare, innestare; lieto fin che lo lasciavano solo, rannuvolato tostamente se un visitatore importuno, se un telegramma malarrivato, venivano ad interrompergli il piacere di quelle gradite occupazioni.

Nè agiva empiricamente. Nella sua biblioteca i Trattati d'Agronomia abbondavano, e parte col sussidio dei libri, parte col consiglio di questo o quell'agronomo, che metteva subito nel novero de' suoi amici, parte coll'aiuto del suo ingegno, naturalmente incline a tutti gli studj fisici, s'era formato un corredo di idee scientifiche e razionali, che certo molti de'più grossi agricoltori d'Italia non hanno mai posseduto.

Epperò fece venire d'Inghilterra macchine agricole, apri fesse di scolo per dar esito alle acque piovane, sanò dalle sotterranee i terreni più plastici, sostituì alla rotazione dodicennale la coltura più intensiva delle alberate e degl'ingrassi, e agl'ingrassi provvide coll'allevamento del bestiame (ebbe persino centocinquanta capi di armento bovino e quattrocento d'ovino); a poco a poco forni quel suo podere, strappato zolla per zolla alla breccia ed al granito, di tutto quanto la scienza ha indicato di più acconcio alla sua coltura; e stalle e concimaie e capanni per marcimi e lettími, e colombaie e alveari e via dicendo; e si rovinò del tutto. Garibaldi non fu mai ricco; ma i suoi pochi risparmj fatti in America, le eredità fatte dai fratelli, i denari ricavati dai ricchi regali mandatigli, i denari stessi donatigli o prestatigli dagli amici di tutto il mondo; tutto andò a finire nel pozzo senza fondo di Caprera, che non restituì mai al suo innamorato cultore nemmeno il salario quotidiano delle fatiche, che per circa venti anni le aveva spese d'attorno.

Ma il gusto della vita solitaria stringe l'uomo a tutto ciò che lo attornia, e l'amore della natura lo inclina ad amare tutto ciò che essa produce. Da ciò quella gentilezza d'affetto, che il nostro Eroe ebbe sempre per le piante, gli animali, per tutti gli esseri, coi quali, per una ragione o per l'altra, si trovò a contatto o convisse. E l'estremo episodio delle due capinere è troppo recente e vivo nella memoria, perchè sia mestieri addurlo per una prova di più. Soltanto egli si rendeva conto di questo suo sentimento: nell'arcano fascino che esercitava su di lui la natura, cercava una dottrina, anzi una fede; nell'amorosa corrispondenza, che sentiva correre tra lui e le cose, scopriva una prova che le cose stesse fossero dotate d'un'anima pari alla sua, raggio a sua volta dell' anima dell'universo, e nella quale, traendo facilmente le ultime illazioni da questa specie di panteismo sentimentale, sentiva e adorava Dio. (Dal Garibaldi, II, pag. 638 e segg.)

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PIETRO FERRIGNI.

Pietro Coccoluto Ferrigni, più conosciuto collo pseudonimo di Yorick figlio di Yorick, nacque da famiglia di origine napoletana in Livorno, ai 15 novembre 1836. Studiò a Pisa e a Siena, e si laureò in legge nel 1857. Recatosi a Firenze collaborò ai giornali letterarj del tempo, e i suoi articoli ben presto gli procurarono rinomanza. Nel '59, dopo aver preso parte al rivolgimento politico, vesti col grado di sottotenente la divisa militare nel corpo toscano, comandato dal gen. Ulloa, del quale fu segretario, come poi del gen. Garibaldi che surrogò l' Ulloa. Andò quindi in Sicilia colla spedizione Malenchini, si battè a Milazzo, fu ferito ed ebbe il grado di capitano e la medaglia al valor militare. Costituita l'Italia, si diede tutto al giornalismo, scrivendo di teatro nella Nazione, di varietà nella Domenica Fiorentina e nella Vedetta, di politica nel Fanfulla, con bontà di forma paesana e brio di buona lega. Molti articoli suoi sui casi occorrenti ebbero gran successo, e sono tuttora rammentati, perchè colpivano col ridicolo uomini e cose. Una scelta di essi, come fu fatta per quelli di critica e storia teatrale e per altri contenenti descrizioni di città e di costumi, sarebbe utile a gustosa a rileggersi qual documento non trascurabile di storia contemporanea. Scrittore facile ma corretto, umorista un po' eguale, ma senza piagnucolamenti, vivace, spontaneo, fu molto più che un giornalista, nè da altri è stato sostituito finora: scegliamo dunque da un suo volume alcune pagine, ad esempio di stile moderno, garbatamente faceto.

Mori in Firenze ai 13 decembre 1895.

Le sue pubblicazioni in volumi sono le seguenti: Viaggio attra verso l'Esposizione italiana del 1861, Firenze, tip. Bettini, 1861: La pesca e la lavorazione del corallo in Italia, Livorno, tip. Sardi, 1864; La piccola pesca e le paranzelle, Livorno, tip. Sardi, 1866; Cronache dei bagni di mare, Pisa, Nistri, 1868; Fra quadri e statue, ricordo della 2a Esposizione di Belle Arti, Milano, Treves, 1873; La festa dei Fiori, ricordo dell'Esposizione internazionale di orticoltura di Firenze, Firenze, Succ. Le Monnier, 1874; Vedi Napoli e poi ..., ricordo della Esposizione nazionale di Belle Arti, Napoli, Marghieri, 1877; Su e giù per Firenze, Firenze, Barbèra, 1877 ; Il Re è morto, Firenze, tip. dell'Arte della Stampa, 1878; Parere per la verità intorno al progetto di legge per la tassa sui teatri, Firenze, tip. del Vocabolario, 1879; Passeggiate, Firenze, Menozzi, 1880; Il pubblico, conferenza, Livorno, Meucci, 1882; I bottoni, conferenza, Firenze, tip. dell'Arte della Stampa, 1882; Lungo l'Arno, seconda serie dei Su e giù per Firenze, Milano, Brigola, 1882; Giostre e tornei, Roma, tip. del Fanfulla, 1883; La Lepanto, ricordi, notizie, ghiribizzi, Firenze, tip. del Fieramosca, 1883; Teatro e Governo, Firenze, tip. Ricci, 1883; Teatro spicciolo tradotto, Firenze,

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