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mi bisbigliò all' orecchio - il popolo grida: Viva San Marco! e non ha poi il coraggio di portare in trionfo, e di crear Doge uno di questi ultimi e degni padroni che gli restano!... servi, servi, eternamente servi! (Dalle Confessioni di un Ottuagenario, ediz. Treves, vol. II, pag. 151 e segg.)

GIAMBATTISTA E GIUSEPPE MACCARI.

Fratelli, nati a Frosinone, il primo ai 19 ottobre 1832, il secondo ai 19 ottobre 1840; premorto questo ai 15 marzo 1867 al maggior fratello, che mancò ai 19 ottobre 1868. Ambedue furono gentili poeti, ambedue morirono precocemente; fiore di quella scuola romana », che mantenne in poesia le tradizioni classiche, le quali però i due fratelli non riprodussero nella forma soltanto, ma cantando, come il Leopardi dal quale ritraggono, affetti realmente sentiti e profondi dolori. La loro poesia è un po' gracile, come la persona loro, rósa dal male, ma è cara per soave mestizia.

Giambattista tradusse Anacreonte ed Esiodo: stampò un volumetto di Poesie (Firenze, Le Monnier, 1868), e gli amici, lui morto, ne raccolsero le Nuove Poesie, premettendovi una affettuosa prefazione biografica P. CODRONCHI (Imola, Galeati, 1869). Alcune Lettere di lui pubblicò A. LEZZANI (Roma, Monaldi, 1858).

Giuseppe stampò un volumetto di Poesie (Firenze, Barbèra, 1865), e, pure alla sua morte, gli amici ne misero insieme Poesie e Lettere, con biografia del fratello Giambattista, e prefazione di P. E. CASTAGNOLA (Firenze, Barbèra, 1867), che di ambedue scrisse anche nella Rassegna nazionale, vol. XII, a. 1890.

La morte del fratello Leopoldo.

AL FRATELLO GIUSEPPE.

I.

Fratello, a poco a poco
Ei, come cera al foco
Si strugge tutto è vano
Brucia nella mia mano
La mano sua; son rosse
Le guance; aspra è la tosse.
Più non gli gonfia il petto
L'alito; cupo, stretto
Vien dal ventre il respiro.
Qual t'aspetta martiro,
Povera madre mia!

Tu divori la via.

Fra poco a queste soglie
Con la misera moglie,
Co' figliuoletti suoi
Tu giungerai: ah noi
Piangerem tutti insieme!
Ma una cara speme
Non gli turbiamo in core.
Egli non vede l'ore
Del viver suo sì corte,
Ei non vede la morte.
Ora, in pace con Dio,
Pensa al colle natio;
Sogna un vicino giorno
Che a lui farà ritorno.
Questo il core ci spezza,
Ei ne prova dolcezza.

II.

Egli vide la morte E con animo forte

I figli benedisse.

Noi strinse al petto, disse
Ai mesti amici addio,
Nel pensiero di Dio

Poi s'immerse; la croce
Strinse, e con poca voce
Pregò poi la parola
Si spense, e l'alma sola
Seguitò la preghiera.
Nella pallida cera
Noi leggemmo la calma,
La fede di quell'alma.
Crebbe l'affanno, piena
Fu quell'ultima pena.
Indi il sonno lo prese,
Ed in quel sonno rese
Lo spirito al Signore.
Oh beato chi muore
Nella sua cara pace!
Al chiaror d'una face
Gli baciammo la bocca.
Di capelli una ciocca
Ci resta del suo frale.
L'alma vive immortale.

III.

Or io mi sento stanco. Sento debile il fianco; Negli orecchi mi suona Un ronzio: la persona

Sorreggimi, o Signore.
Languisco per amore,
Per amor de' miei cari,
A cui scorrono amari
I giorni della vita.
Per uno essa è finita;
Ed infermo è chi resta.
A chi trema la testa,
Chi la febbre ha nell'ossa.
La pallida e la rossa
Faccia, mi fa paura,
E la mente s'oscura.
Signor, così m'invecchio,
E a morir m'apparecchio.

(Dalle Nuove poesie di Giov. Batt. M., pag. 102.)

Il Giardino.

O dipintor delle gentili cose,
Pingimi, o Amore, tacito giardino.
Largo viale pampinoso, e in forma
Di pergolato, il bel loco circondi.
Crescano a'lati giovinette piante
Ove a' tronchi s'intreccino le rose
D'ellera a guisa, e d'ogni parte l'erbe
La solitaria mammoletta infiori.
Tremoli in mezzo un piccioletto lago:
Vi sien sedili e salici dappresso;
Qualche fanciulla segga lavorando
Vaga ghirlanda, e spicciolate foglie
Coprano il lago. Altra stia lunge all'ombra
Stesa, e farfalle ronzinle d'intorno.
Altra ancor vada fior cogliendo. Maggio
Sia la stagione, quasi a mezzo il cielo
Trascorso il sole, e tutto intorno posi.

L'Estate.

Venne luglio e più l'aëre s`infoca.
Dal campo all'ombra del vicino faggio
Con la famiglia il buon villan s'accoglie,
Ed apparecchian la silvestre mensa.
Mormora presso la purgata fonte,

Ove ad attinger vien l'acqua con l'urna
La maggior figlia, e i piccioletti lunge
Tentan co' sassi l'odorate poma

Negli alti rami, e or l'uno or l'altro cade.
Nel paesetto la solinga strada

Solo trapassa il vagabondo cane;

E tutto è chiuso. La donzella scopre
Del sen le rose, e languidetta giace
Piena d'amor nella dipinta stanza,
Ov'entra lene il venticello, e spira
Il delicato odor del gelsomino;
E poi trascorso e temperato il giorno,
Torna romore per i luoghi, e nunzio
Della festa che vien, batte il tamburo.
A poco a poco s'ombrano le vie,

S'apron logge e finestre, e il sol che cade,
Gli ultimi raggi nelle stanze manda.

Poi l'aere imbruna, e a'bei diporti amica
Reca nuovo chiaror la fresca sera.

(Dalle Poesie e Lett. di Giuseppe M., pag. 44.)

ADOLFO BARTOLI.

Di agiata famiglia, nacque il 19 novembre del 1833 in Fivizzano nella Lunigiana. Come egli raccontò nel Primo passo (Roma, Domenica letteraria, 1882), dovè alla madre e l'inclinazione agli studj letterarj e l'educazione a sentimenti di patriottismo. A 11 anni, dimorando presso uno zio in Firenze, frequentò per qualche tempo le Scuole Pie; ma, tornato a Fivizzano, seguitò, più che altro da sè, a leggere e studiare, con grande predilezione per le opere del Gioberti. Passato a studiar legge all' università di Siena (1852), attendeva, più volentieri che al diritto, a trascrivere le lettere del Beato Colombini e la Tavola Rotonda di su i manoscritti della Biblioteca comunale, nutrendosi di cultura storica e filologica, e facendo larghi spogli di lingua da buoni testi: era allora e, rimase anche di poi, amantissimo dell' arte del Giordani. Pur contraggenio, diventò dottore in legge nel 1856.

Fu a Lucca praticante d' avvocatura nello studio Carrara nel 1857: invitato allora a commemorare pubblicamente in una chiesa l'artista lucchese Pietro Casali, ottenne grande successo, e la nomina di socio ordinario dell'Accademia lucchese; e anche questo contribuì a sviarlo dagli studj legali e dalle cure forensi. Un suo articolo comparso nella Rivista di Firenze, intitolato Degli studi storici in Italia, fu notato da Eugenio Albèri che ne parlò a G. P. Vieusseux, il quale chiamò il Bartoli segretario e compilatore dell'Archivio stor. ital., nel luogo di Filippo Luigi Polidori. Ebbe a collega Carlo Milanesi, e godè, con la consuetudine quasi quotidiana, la stima del Capponi, del Lambruschini, del Capei, del Ridolfi. A Firenze ebbe, così, agio di riformare e allargare la sua cultura. In questi anni, tra il '56 e il '59, fu ricercato per una cattedra di letteratura italiana a Vienna; ma egli la rifiutò per natural ripuguanza a servire l'Austria. Nel 1859,

su proposta di Pietro Thouar, fu preside del Liceo di Alessandria; l'anno dopo, professore di storia nel Liceo di Livorno, dove ebbe poi anche la direzione della Scuola di Marina, e rimase fino al 1867. Passò quindi al Liceo di Piacenza (1868), e di lì alla Scuola superiore di commercio a Venezia fino al 1874, quando Pasquale Villari lo chiamò provvidamente alla cattedra di Storia della letteratura italiana nel R. Istituto fiorentino di studj superiori: nel qual ufficio durò sino agli ultimi giorni della sua vita. Morì in Genova il 16 maggio 1894.

Come molti della generazione sua, che pur furono e sono eccellenti negli studj delle lettere, il Bartoli il più e meglio apprese da sè. Esordi giobertiano, purista, registratore di bei modi di lingua, e finì critico scientificamente severo, e non troppo curante della forma. Di testi antichi, pubblicò le Lettere del Colombini (Lucca, Balatresi, 1856); Un capitolo della illustre et famosa historia di Lancillotto del Lago (nell' Appendice alle Letture di famiglia, febbraio 1859); le Vite di Vespasiano da Bisticci (Firenze, Barbèra, 1859); i Discorsi dell'arte storica di Agostino Mascardi (Firenze, Le Monnier, 1859); il Libro di Sidrach (Bologna, Romagnoli, 1860); i Viaggi di Marco Polo (Firenze, F. Le Monnier, 1863); gli Scritti inediti di G. B. e Marcello Adriani (Bologna, Romagnoli, 1871), e una Crestomazia della poesia italiana delle origini (Torino, Loescher, 1881).

A Venezia lavorò utilmente nella biblioteca Marciana e nell'Archivio dei Frari: ne fu bel frutto la pubblicazione che fece dei Codici francesi della Biblioteca Marciana illustrati (nell'Archiv. veneto del 1871–72), tra' quali il Roman d'Hector, da lui scoperto e primamente messo a luce. A Venezia fu nel 1871 de' fondatori dell'Archivio veneto e promotore della stampa integra dei Diarj di Marin Sanudo.

Studj originali, e per una ragione o per un' altra pregevoli sempre, sono: Pietro Giordani (Piacenza, 1868); Degli studi e delle scuole in Italia (Piacenza, 1868); I precursori del Boccaccio (Firenze, Sansoni, 1876); I precursori del Rinascimento (Firenze, Sansoni, 1877) che è il rifacimento dello scritto L'Evoluzione del Rinascimento (nel vol. I delle pubblicazioni dell'Istituto superiore di Firenze, 1875); Scenari inediti della Commedia dell' arte (Firenze, Sansoni, 1880) preceduti da una notevolissima prefazione. Articoli varj scrisse per l'Archivio veneto, per la Rassegna settimanale, per la Rivista europea e per qualche altro periodico. Più vasti e insigni lavori, I due primi secoli della Letteratura italiana (Milano, Vallardi: a dispense, dal 1870 all' 81), e la Storia della letteratura italiana (Firenze, Sansoni, 1878-1889), in 7 volumi, che comprendono: I. Caratteri generali della Letteratura medievale; II. La poesia nel periodo delle origini; III. La prosa nel periodo delle origini; IV. La nuova lirica toscana; V. Della Vita di Dante; VI. La Divina Commedia; VII. Francesco Petrarca.

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