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Arti darà la prima vita, all'arti
Di turpe genitor figlie vezzose.

Dall'antico suo stato a mano a mano
Dunque l'uom tolto, ed innocente in prima
Nelle selve gli augei, nell'onde i pesci
Insidiando: e poi fidando avaro

Il frumento alla terra, al mar la vita;
Reggitor della sua, poscia di molte
Congregate famiglie; indi le mura
E le leggi ponendo in sua difesa;
Indi in sen di natura, in sen di Giove
Spingendo il guardo, e all'un strappando e all'altra
L'oscuro vel che li tenea nascosi;

Alfin dal seggio, in che gli avea locati
Il suo primo timor, cacciando i numi,
E sè stesso mettendo in quella vece
Dalla forza protetto e dal terrore;
L'uom, dico, a tanta di pensieri altezza
E delle cose alla cagion salito,

Sè stesso, ahi folle! estimerà felice:
E misero più fia, quanto più lunge
L'arte vedrassi allontanar natura.

Sorgeran le città, si cangeranno
In superbi palagi le divelte
Rupi, e morbide coltri e aurate travi
Difenderanno de' mortali il sonno.
Più lauto il cibo, più gentil la veste
Troveranno le membra, e su le labbra
Verrà d'amico più frequente il nome,
E più stretti gli amplessi, e più soavi
Faransi i modi, e più cortesi i detti:
Ma più bugiardo batterà nel petto
Il cor pur anco, e latreran più vivi
I suoi rimorsi; più fugaci i sonni,
Più fugace la vita; e con avaro
Confin divisi si vedranno i campi,
E risonar la barbara parola

S'udrà del tuo, del mio. Sovra le mense
Manderan l'erbe i lor veleni, e colme
Delle madrigne ne saran le tazze
E le tazze de' regj. Infame ordigno
Diverranno di morte il bronzo e il ferro;
E, più del ferro e più del bronzo infame,
L'oro esecrato a tutte colpe il varco
Spalancherà, poichè divelto un giorno
Un rio demon l'avrà dal violato
Sen della terra, che il chiudea gelosa,
Del suo parto fatal forse pentita.
Di Temide per lui calcata e franta
Si vedrà la bilancia, ed il delitto

Lieto esultar dell'innocenza oppressa:
Per lui mendica la virtù, per lui
Ricco-vestita l'ignoranza, mute
D'onor le leggi, e con nefandi incensi
Adorata la colpa e il ciel tradito.

(Dal Prometeo, canto I, in Canti e Poemi di V. M., a cura di G. CARDUCCI, Firenze, Barbèra, vol. I, 1891, pag. 400 e segg.)

La Mitologia e la Poesia.

(1825.)

Audace scuola boreal,1 dannando
Tutti a morte gli Dei, che di leggiadre
Fantasie già fiorîr le carte argive
E le latine, di spaventi ha pieno
Delle Muse il bel regno. Arco e faretra
Toglie ad Amore, ad Imeneo la face,
Il cinto a Citerea. Le Grazie anch'esse,
Senza il cui riso nulla cosa è bella,
Anco le Grazie al tribunal citate
De' novelli maestri alto seduti,
Cesser proscritte e fuggitive il campo
Ai lemuri e alle streghe. In tenebrose
Nebbie soffiate dal gelato Arturo

Si cangia (orrendo a dirsi !) il bel zaffiro
Dell' italico cielo; in procellosi
Venti e bufere le sue molli aurette;
I lieti allori dell'aonie rive

In funebri cipressi; in pianto il riso;
E il tetro solo, il solo tetro è bello.

Tempo già fu, che, dilettando, i prischi
Dell'apollineo culto archimandriti
Di quanti la natura in cielo

in terra
E nell'aria e nel mar produce effetti
Tanti numi crearo; onde per tutta
La celeste materia e la terrestre
Uno spirto, una mente, una divina
Fiamma scorrea, che l'alma era del mondo.
Tutto avea vita allor, tutto animava
La bell'arte de' vati. Ora il bel regno
Ideal cadde al fondo. Entro la buccia
Di quella pianta palpitava il petto
D'una saltante Driade; e quel duro
Artico genio destruttor l'uccise.

1 La scuola romantica, fiorita prima in Germania.

Quella limpida fonte uscía dell'urna
D'un'innocente Naiade; ed infranta

L'urna, il crudele a questa ancor diè morte.
Garzon superbo e di sè stesso amante
Era quel fior; quell' altro al sol converso,
Una ninfa a cui nocque esser gelosa.
Il canto che alla queta ombra notturna
Ti vien si dolce da quel bosco al core,
Era il lamento di regal donzella
Da re tiranno indegnamente offesa.
Quel lauro, onor de' forti e de' poeti,
Quella canna che fischia, e quella scorza
Che ne' boschi sabèi lagrime suda,
Nella sacra di Pindo alta favella
Ebbero un giorno e sentimento e vita.
Or d'aspro gelo aquilonar percossa
Dafne mori; ne' calami palustri

Più non geme Siringa; ed in quel tronco
Cessò di Mirra l'odoroso pianto.

Ov'è l'aureo tuo carro, o maestoso
Portator della luce, occhio del mondo?
Ove l'Ore danzanti? ove i destrieri
Fiamme spiranti dalle nari? Ahi misero!
In un immenso, inanimato, immobile
Globo di foco ti cangiâr le nuove
Poetiche dottrine, alto gridando :
Fine ai sogni e alle fole, e regni il vero.
Magnifico parlar! degno del senno
Che della Stoa dettò l'irte dottrine,
Ma non del senno che cantò gli errori
Del figliuol di Laerte e del Pelide
L'ira, e fu prima fantasia del mondo.
Senza portento, senza meraviglia
Nulla è l'arte de' carmi; e mal s'accorda
La meraviglia ed il portento al nudo
Arido vero che de' vati è tomba.

Il mar, che regno in prima era d'un dio
Scotitor della terra e dell' irate

Procelle correttore, il mar, soggiorno
Di tanti divi al navigante amici
E rallegranti al suon di tube e conche
Il gran padre Oceáno ed Amfitrite;
Che divenne per voi? un pauroso
Di sozzi mostri abisso. Orche deformi
Cacciâr di nido di Neréo le figlie,
Ed enormi balene al vostro sguardo
Für più belle che Dori e Galatea.
Quel Nettunno, che rapido da Samo
Move tre passi e al quarto è giunto in Ega;
Quel Giove, che al chinar del sopracciglio

Tremar fa il mondo, e allor ch'alza lo scettro
Mugge il tuono al suo piede, e la trisulca
Folgor s'infiamma di partir bramosa;
Quel Pluto, che al fragor della battaglia
Fra gl'immortali dal suo ferreo trono
Balza atterrito, squarciata temendo
Sul suo capo la terra e fra i sepolti
Intromessa la luce; eran pensieri
Che del sublime un di tenean la cima.
Or che giacquer Nettunno e Giove e Pluto
Dal vostro senno fulminati, ei sono
Nomi e concetti di superbo riso,

Perchè il ver non v'impresse il suo sigillo,
E passò la stagion delle pompose
Menzogne achée. Di fè quindi più degna
Cosa vi torna il comparir d'orrendo
Spettro sul dorso di corsier morello
Venuto a via portar nel pianto eterno
Disperata d'amor cieca donzella,

Che, abbracciar si credendo il suo diletto,
Stringe uno scheltro spaventoso, armato
D'un orïuolo a polve e d'una ronca;
Mentre a raggio di luna oscene larve
Danzano a tondo, e orribilmente urlando
Gridano: pazienza, pazienza.1

Ombra del grande Ettorre, ombra del caro
D'Achille amico, fuggite, fuggite!
E povere d'orror cedete il loco
Ai romantici spettri. Ecco, ecco il vero
Mirabile dell' arte, ecco il sublime.
Di gentil poesia fonte perenne

(A chi saggio v'attigne), veneranda
Mitica dea! Qual nuovo error sospinge
Oggi le menti a impoverir del bello
Dall'idea partorito e in te si vivo
La delfica favella?

Ah, riedi al primo officio, o bella diva!
Riedi, e sicura in tua ragion col dolce
Delle tue vaghe fantasie l'amaro
Tempra dell' aspra verità. No 'l vedi?
Essa medesma, tua nemica in vista
Ma in secreto congiunta, a sè t'invita:
Chè non osando timida ai profani
Tutta nuda mostrarsi, il trasparente
Mistico vel di tue figure implora:
Onde, mezzo nascosa e mezzo aperta,
Come rosa che al raggio mattutino

Accenna alla ballata di Bürger, intitolata l'Eleonora.

Vereconda si schiude, in più desio
Pungere i cuori ed allettar le menti.
Vien, chè tutta per te fatta più viva
Ti chiama la natura. I laghi, i fiumi,
Le foreste, le valli, i prati, i monti,
E le viti e le spiche i fiori e l'erbe
E le rugiade, e tutte alfin le cose,
Da che fur morti i numi onde ciascuna
Avea nel nostro immaginar vaghezza
Ed anima e potenza, a te dolenti
Alzan la voce e chieggono vendetta.
E la chiede dal ciel la luna e il sole
E le stelle, non più rapite in giro
Armonioso e per l'eterea volta
Carolanti, non più mosse da dive
Intelligenze, ma dannate al freno
Della legge che tira al centro i pesi;
Potente legge di Sofia, ma nulla
Ne' liberi d'Apollo immensi regni,
Ove il diletto è prima legge e mille
Mondi il pensiero a suo voler si crea.

(Dal Sermone Sulla Mitologia, ediz. cit. del Bertoldi,
pag. 209 e segg.)

Il « Purismo» del p. Cesari. Le eleganze sono modi pensati e formando un parlare alquanto declinato dalla consuetudine, purchè abbiano in sè alcun poco di probabile naturale, dilettano, e grandemente ricreano l'orazione, allontanando il fastidio del quotidiano uniforme modo di esprimersi, e fanno più nobile la favella separandola da quella del volgo. Che anzi sciogliendola alcune volte dagli stretti vincoli grammaticali, quella irregolarità, quell' apparenza stessa di vizio acquista grazia al parlare, come al cibo le salse.

Ma quest'arte, che parcamente usata, come dà l'occasione, condisce il discorso di molta giocondità, il corrompe e guasta del tutto se trapassa i confini della moderazione. Conciossiachè le eleganze, essendo grazie segrete e riposte fuori dell' uso, siccome colla loro novità svegliano l'attenzione, così l'addormentano, o a meglio dire l'uccidono colla sazietà, se troppo frequenti: e diventano puerili, se, come avviene spessissimo, non portano nel loro seno bella sentenza; e finalmente tolgono la fede agli affetti mostrando che vennero non già spontanee, ma tirate a forza sotto la penna dello scrittore, è studiosamente cercate e rammassate da tutti i nascondigli dell'arte. Ora e chi non sa che dove l'arte si scuopre, la verità si nasconde, e la passione si estingue?

V'ha di più. In ogni parte del parlare è sempre da considerarsi ciò che conviene al vivere delle persone a cui

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