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stato esempio, coll'aiuto anche di un certo disgusto lasciato nei cittadini dai disinganni del quarantotto, s'era riusciti a mantenere in questa città, per quanto dai tempi era consentito, le opinioni, le abitudini e le usanze antiche, più a lungo, che in qualunque altra d'Italia e d'Europa. Il contatto coi forastieri era innocuo, prima per la lingua, poi perchè, anche potendo farsi intendere, non s'immischiavano, poi perchè, anche volendo immischiarsi facendosi intendere per la lingua, non s'intendevano per tutto il resto, e infine per un'altra ragione. I forastieri e gli artisti propensi alle novità erano pochi. I più erano beati di trovar qui un mondo tutto diverso da quello di casa loro. Questo pezzettino di medio evo ospitale e pacifico, discretamente ben conservato, dava loro un diletto simile a quello che proviamo nel contemplare un castello feudale, che colle sue torri merlate, colle sue scale segrete e co' suoi trabocchetti, ci permette da una parte di pensare con gioia che non c'è più il pericolo di cascarvi dentro, e dall' altra di vivere coll'immaginazione in tempi lontani, pittoreschi e differenti dal nostro. Le stesse cose, ch'essi avrebbero biasimate a casa propria come un disordine intollerabile, qui parevano loro una necessità dell' armonia, un fondo indispensabile al quadro. Le mura delle case sgretolate e annerite dalle pioggie e dal tempo, le invetriate color della carta pesta a forza di polvere e di ragnateli, le vie più frequentate che ad ogni pioggerella correvano acqua come torrenti, le biancherie che penzolavano dalle cordicelle per tutta la città, i mucchi di macerie e d'immondezze, che ingombravano i chiassuoli e le piazze, i nuotatori classicamente nudi lungo le sponde del Tevere, quella specie di cassettoni o armadj barcollanti, che usurpavano il nome e l'ufficio degli omnibus, in cui le persone venivano insaccate senza la pena di numerarle, un passeggere ben vestito che camminandovi a lato tutto in un tratto vi stendeva la mano e si trasformava in un mendicante, quell'apparenza di aspettazione sonnolenta e pacifica e d'incuria paziente, bonaria, gioviale, che si vedeva in ogni cosa, dava un piacere infinito a gente scappata da paesi tormentati dalla febbre del progresso, dove vi tocca correre anche senza averne voglia per timore di farvi pestare sulle calcagna da chi viene dietro; dove tutto si fa presto, tutto è ordinato, tutto preveduto, tutto compassato, tutto ha una legge, un regolamento, e il continuo pensiero vostro dev'esser quello di non inciampare in qualche contravvenzione. Seccati e ristucchi di questa perfezione moderna, che lascia agli uomini la libertà poco gustata di far quello che è comandato, costringendoli a muoversi presso a poco come i soldati in una manovra, i forastieri e gli artisti si sentivano beati di tirare il fiato a modo loro, contemplando tranquillamente un mondo, che a forza di essere vecchio tor

nava nuovo, e, a dirla fra noi, dal loro punto di vista avevano ragione.

Certe istituzioni e certi fatti della vita moderna penetravano veramente anche in Roma, imposti e importati da quella ineluttabile necessità del tempo, a cui sono costretti a piegare la testa perfino i Papi. Così, per esempio, s'erano aperta la strada, i telegrafi e le ferrovie, ma vi parevano a posto come un uccello nell'acqua; tanto queste espressioni dell'impazienza febbrile, che ci tormenta, contrastavano piacevolmente con quella perfetta tranquillità di spirito, che considera come inutili tanta fretta e tante brighe, e attende con fiducia nella Provvidenza il domani. Mi torna in mente una gita a Civitavecchia sul cadere del 1870.

Alla stazione di Roma, tutta ingombra di travi, di macerie, di pietre, di mattoni, di ferri, di pozze d'acqua e di fango, c'erano tre o quattro convogli a distanze infinite, come perduti in un deserto, e nessuno vi diceva dove andassero. Inutile il domandare, perchè nessuno lo sapeva. Chiedevate a qualcuno? Vi rispondeva trasognato : — Ah, dice il treno di Civitavecchia? Sarà quello, sarà quell'`altro.... non so, domandi. - Finalmente, dopo un lungo errare da questo a quello, trovai il mio, entrai in un carrozzone e sedetti. L'ora della partenza era già trascorsa di parecchi minuti, e nessuno se ne dava per inteso. Ne chiesi conto ad un conduttore. E che le fa? mi rispose, non è lo stesso un quarto d'ora prima o dopo? pensi piuttosto quanto tempo ci si impiegava una volta. Întascai la lezione, rimisi il mio cuore in pace, e di lì a un altro bel tratto, quando a Dio piacque, si cominciò a chiudere gli sportelli, poi a gridar partenza, poi un altro riposino, poi s'udi il suono di un campanello, di li a un pezzetto quello di una tromba, quindi a un altro intervallo un fischio, e finalmente.... nessuno si mosse; non so che cosa fosse accaduto, o fosse stato dimenticato; ci volle un altro squillo di campanello, un altro mugolo dalla trombetta, un altro sibilo dalla locomotiva, e questa volta davvero di lì a poco, adagio adagio, si parti. Ma appena fuori le mura, ecco che il convoglio rallenta e torna a fermarsi. Cinquanta teste sporgono dagli sportelli. Che c'è? Eh niente, si mettono a terra due contadini, che avevano creduto di montare sul treno di Velletri. Il convoglio ripiglia il suo cammino e vien dentro il controllore a esaminare i viglietti, un buon vecchietto dal viso allegro e dagli occhi vivaci e benevoli, che crederebbe di mancare a un dovere, se non rivolgesse qualche parola gentile ai suoi passeggeri: Ella fa un viaggio breve. Non s'incomodi; non si dia pena; se non trova il viglietto, ripasserò un'altra volta. Oh sor Domenico, come andiamo colla salute? come stanno i figli? e sua moglie come va? E intanto tutti gli altri sospesi col viglietto in mano a guardare e ad aspettare,

Così in ogni luogo, agli alberghi, ai caffè, dal tabaccaio, alla posta, al telegrafo. Vengo subito voleva dire: Attenda mezz'ora. Entravate in una bottega qualunque, e il padrone continuava a leggere il suo giornale, come se voi non ci foste stato. A comperare un sigaro, erano tante le distrazioni, le interruzioni, gl'impedimenti, che ci impiegavate dieci minuti. Tolti gli alberghi principali e una o due trattorie, impossibile pranzare meno che in due ore. Vi sedevate a un tavolo e dopo aver chiamato, gridato, picchiato, vi alzavate per andar a fare le vostre lagnanze al banco, e dietro un pilastro a due passi da voi trovavate il cameriere, che rimaneva seduto guardandovi con due grandi occhi meravigliati della vostra impazienza. Alla posta, al telegrafo, ai viglietti delle ferrovie, una folla fuori che aspettava e fremeva, e dentro discorsi e 'dispute sul più o sul meno, o quando eravate più fortunati, un impiegato che ora si lasciava cascare la penna, ora si soffiava il naso, ora aveva sbagliato quello che doveva scrivere e rifaceva da capo, ora sbadigliava fissandovi in viso, come per chiedervi se non avreste fatto meglio a dormire. Da per tutto gente bella, buona e simpatica, ma che sembrava ripetervi: Non mi seccate, con una cert'aria di guardare al di là delle cose presenti considerandole come perditempi inutili, un'apparenza che nulla di tutto quello che ci occupa valga la pena di esser fatto con cura e con amore, come se tutti avessero portata stampata nel fondo dell'anima la malinconica terzina del Petrarca:

O ciechi, i tanto affaticar che giova?
Tutti torniamo alla gran madre antica,
E il nome nostro appena si ritrova.

La divisione del lavoro, il principio fondamentale del far bene quel che si fa, non era più osservata dell' age quod agis. Non era raro di trovare un impiegato, che la sera andasse a tenere i registri del pizzicagnolo, o un avvocato, che, chiuso il foro, capitasse in orchestra a suonare il violino. Se si levano in ogni professione alcuni valenti, e a volte anche celebri, si può dire che nessuna avesse ufficj e limiti determinati. Peggio poi nei mestieri, nell' industria, in commercio. Mentre lo sminuzzamento nelle grandi città straniere è arrivato al punto, che in un negozio non si vendono, per esempio, che soli specchi, in un altro sole cornici, in un terzo soltanto corda, in un quarto soltanto candele, a Roma non era difficile di trovare in una bottega carta, stoviglie, ventagli, mutande a maglia, quadri, lucerne alla pompeiana e pastiglie per la tosse. Ora le cose vanno cangiando a vista d'occhio; non tanto però, nè tanto rapidamente, che fuori dalle vie principali non si vedano ancora le traccie di quello che c'era prima.

Ma i contrasti si spiegano; per non dire che certi contrasti nelle cose piccole non sono che la conseguenza naturale di quelli delle grandi. Ad ogni passo tre civiltà si scontrano, s'accavallano, s'intrecciano formando le combinazioni più strane e più inaspettate. Ora è l'età antica che oppone le sue rovine colossali all'ascetismo del medio evo; ora la vita moderna, che s'apre a forza un varco fra gli avanzi delle terme, dei sepolcri, dei teatri e i conventi. Il terribile Sant'Uffizio a lato di una stamperia a vapore, che lavora dì e notte contro di lui; la stazione della ferrovia e le locomotive, che vanno e vengono sibilando tra i resti giganteschi della Roma imperiale; le colonne trionfali con sopra un santo; gli obelischi sormontati dalla croce con l'iscrizione rassicurante ai piedi, che furono prima purgati da ogni empietà e convertiti al cristianesimo; il palazzo feudale attorniato dalle casupole e dai tugurj dei clienti e dei servi; l'abitazione di una delle più antiche e più nobili famiglie di Roma in un teatro antico; un teatro moderno dentro il sepolcro di Augusto; un'arca istoriata, già forse ricetto alle ceneri di un eroe o d'un martire, che serve da vasca ad una fontana o da abbeveratoio ai cavalli; venti deità pagane, che popolano il cortile, le scale, gli anditi di un palazzo cardinalizio; una fresca e ridente popolana, che vende pomi cotti seduta sopra un capitello corintio; una famiglia di pezzenti aggomitolati come un nido di serpi nei crepacci di un monumento, che non ha più forma, nè nome, ma appunta tuttavia fieramente al suolo i suoi robusti piedi e alza al cielo minacciando le nude braccia; il lusso più sfarzosamente elegante, che tocca passando al volo di quattro superbi cavalli la più squallida miseria; un silenzio di tomba per un viottolo, che si crederebbe fra i campi a due passi dal frastuono della città più rumorosa e più allegra; interminabili file di frati, che salmeggiano a capo chino per mezzo al va e vieni degli omnibus e dei tramways; una mistura continua, un impasto, una confusione originalissima di tempi sovrapposti, che lasciarono ciascuno la sua eredità e la sua impronta, nelle architetture, nei selciati delle strade, nelle opinioni, nei costumi, nella lingua, la più prossima al latino di quante se ne parlino in Italia; tutto il vecchio, che s'impunta e resiste, tutto il nuovo, che sembra penetrare a stento, quasi a modo di cuneo, a traverso i crepacci le fenditure del vecchio, formando opposizioni e ripugnanze materiali, che fanno indovinare le morali; senza parlare dell'ultima, della più colossale, di quella che presso a poco le comprende e le spiega tutte, preparata da una lunga catena di casi passati, ma ch'è l'enigma dell'avvenire: quella della monarchia e del papato, due giganti, che si guardano con sospetto, misurando ciascuno le forze dell'altro, come preparandosi a una lotta suprema; quella, portata su dalla rivoluzione e però di

natura sua innovatrice, progressiva, auspice di tutto ciò ch'è moderno; l'altro, figlio delle tradizioni, tenace nel conservare, fautore di tutto il vecchio, come rappresentante di una fede immutabile dove ogni cosa cangia intorno a lei. Due civiltà ancora vive, due mondi, che si scontrano e s'azzuffano entro le mura di Roma, dopo di essersi combattuti per secoli da lontano.

E con tutto questo un'armonia infinita, un accordo misterioso degli elementi più disparati, un'unità di fusione, che ha del prodigio, in cui si assimilano e vanno a perdersi tutte le varietà. Entro le mura di Roma si direbbe che le incompatibilità cessano, le ripugnanze spariscono, i contrasti si dileguano, e ogni cosa trova il suo posto così comodamente in mezzo alle altre, da formare tutte insieme un complesso organico. Ciò non riguarda solo quel prodigioso innesto dei secoli, che paiono succedersi per aiutarsi: riguarda anche e più ancora la concordia degli animi. Egli è come se qualche cosa di superiore spirasse un alito di pace sopra tutte le brighe umane. Questa eterna Roma ci fa un effetto simile a quello dello spettacolo del mare, davanti al quale ci sembrano diventare meschinità spregevoli le nostre ire, le nostre vanità, le nostre invidie, e ci si allarga involontariamente il cuore a sentimenti di benignità e di indulgenza. Roma è per il tempo ciò che l'oceano è per lo spazio; la maestà de' suoi ventisei secoli c'impone la calma, facendoci parere la nostra vita troppo fuggevole, per meritare le continue sollecitudini e gli affanni, che ce la rendono ansia e dolorosa. Quell'interminabile onda degli anni, che ci si riaffaccia ad ogni passo infilando un vicolo, svoltando una cantonata, e sembra sovrastarci minacciosa incalzandoci verso il sepolcro, ci distrae da tante minuzie, che altrove, ingrossate dal nostro orgoglio, irritano i nostri nervi, e a nostra insaputa ci fa più umani, più dolci e più miti. Tutta la grandezza che ci attornia ingrandisce anche la nostra anima, costringendoci a rientrare in noi stessi e a misurarei, attuta il nostro amor proprio mostrandoci quanto siam piccoli, e fa zampillare da una sana modestia la fonte della bontà. (Dalla Prefazione alla Monografia della città di Roma e della Campagna Romana, pubblicazione del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. Roma, tip. Elzeviriana, 1881, vol. I, pag. v e segg.)

IPPOLITO NIEVO.

Nacque in Padova nel novembre 1831: studiò a Pisa, e nel '49 dicono si battesse già a Livorno contro gli Austriaci. Certo è che prese parte alle congiure mantovane, e scampo dai processi avendolo la famiglia nascosto in una campagna del Friuli, ove studio

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