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Danzar ti vidi assai leggiadramente,
E mi piacesti. Il tuo nome?

Egloge.

Egloge.

Mi chiamano

Nerone.

La tua patria?

Egloge.

lo nacqui in Grecia. Nerone (guardandola con entusiasmo). Tu pure Greca! Amabile paese

È il tuo, bionda fanciulla ha il privilegio
Della bellezza. In quella terra tutto
È bello dall'Illiade al Partenone.
Fin Leonida re co' suoi trecento
Quando mori, creava la più bella
Delle battaglie.

Oh benedetto il suolo
Dove natura artistica produce
Statue divine, e più divine donne!
E gli anni tuoi?

Egloge.

Interroga il mio volto, E avrai risposta. Io danzo spensierata, E danzo sempre come vuol mio stato, E non ho mai contato gli anni.

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Casi son brevi.

Egloge.

I miei

- Fanciulletta appena

Con altre mie compagne atenïesi
Fui rivenduta in pubblico mercato
Ad un padrone astuto nel mestiere
Di offrir giochi e spettacoli alla plebe, —
Costui comprava insieme orsi e fanciulle;
Ei mi fece erudir nell'arte lieta

Delle danze, e danzando trasvolai
Per le città dell'Africa e d'Italia.

Ecco i miei casi. Qualche volta ai plausi
Aggiunsero le genti una corona,
Ed hanno detto che son vispa e bella.
Nerone (pigliando un'aria feroce).

Sai chi son io?

Egloge (sorridendo).
Nerone imperatore,
Nerone.

Abbi un'idea di mia potenza.

Avvenne

Che in certa notte io m'annoiassi; in queste
Aule ahi sovente penetra la noia
Tetra visitatrice, e non chiamata!

Egloge,

Io mai non la conobbi.

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Io non t'ho fede;

Anche Giove s'annoia, e in que' momenti
Sovverte le città, sveglia tempeste,
E par che pensi a scardinare il mondo.
È doppia voluttà: chi crea, distrugge,
Ed io Giove terreno, imitai l'altro
Ch'abita nell' Olimpo. Ardea la lampa
Monotona d'innanzi agli occhi miei
Che cercavano il sonno; arda una luce
Più vasta, io dissi, -e sorsi, e bruciai Roma.
Egloge (sorridendo).

Hai terribil potenza.

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Nerone.

Eppur non giunge

A quella de' tuoi sguardi, o allettatrice
Bellissima! Oh mai più questo tuo corpo
Che le mani formaron delle grazie
Tenti il desio ne'torbidi teatri

D'una plebe villana! A te fo tempio
Della mia casa. D'ora innanzi i tuoi
Biondi capelli spargerai d'unguenti
Preziosi, e le morbide carole
Moverai col tuo piè sopra i tappeti
Alessandrini; plaudirò sol io,

Io che m'intendo nell'arte di Fidia
Il tuo compatriota, e questa molle
Voluttà delle giovani tue forme
Eternerò fingendola nel marmo.
Tu mi piaci, o fanciulla.

Egloge (sfuggendo dalle braccia di Nerone),

In Grecia intesi

Narrar che una fanciulla piacque a Giove
Quando Giove venia sopra la terra

In umana sembianza.

· Ahi! l'infelice

Spinta da cieco amor volle abbracciarlo
Nella fulgente maestà del Dio,

E cadde incenerita. Uccide adunque
Un amplesso di Giove.

Nerone (vezzeggiandola nei capelli e nel viso).

Queste sono

Istorie vecchie, e niuno più vi crede

Al nostro tempo.

Egloge.

Un giorno appena i tuoi

Littori apparver nel teatro, il grido
Universale si levò: Salute

A Cesare! Febèa, la mia compagna
Allor mi disse: vedi tu quell'uomo

Che pare un Dio? - Sciagura sulla donna
Ch'egli ama!

Nerone.

Così disse?

Egloge (guardandolo maliziosamente e sorridendo). Io già sapevo

Che avevi ucciso le tue mogli.

Nerone (pieno di meraviglia e scostandosi da lei).

Sai

Questo, mi stai d'innanzi, e mi sorridi?

Egloge.

E a che dovrei tremare? Un sol tuo cenno
Mi può tòrre la vita, e cosa è mai
La vita, o imperatore? Io vo sorridere
Finchè mi brilla in viso giovinezza,
E giovinezza d'una schiava è come
Quella corona che si pone in capo
Il convitato all'ora del banchetto;
Fra l'urto e il fumo delle tazze piene
La povera ghirlanda ecco è caduta
Dalla fronte dell'ebbro, e la raccoglie
Il servo, e via la gitta spensierato
A marcir sulla strada.

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Di tutti, e se n'ho voglia, sopra un dado

Posso giocare tutte le province

D'un tributario Re,

Libera?...

Egloge.

Dunque son io

Nerone.

Più che libera, tu sei

In queste sale imperatrice; io vesto
La tua persona con la luce mia.
E innanzi a te come d'innanzi a Diva
Roma si prostrerà per adorarti;
Schiava per ora, dal tuo ciglio schiavi
Tutti dipenderanno, e sapienza
Fu degli antichi, se inalzaron templi
E votive corone alla bellezza!

Danza frattanto; Sofocle m'aspetta,
Sofocle ch'ho svegliato dal sepolcro
Perchè con la mia voce un'altra volta
Insegni dalla scena i luttuosi
Fati del figlio di Giocasta.

(Dal Nerone, Atto I, Scena IV)

ARISTIDE GABELLI.

Nacque il 22 marzo 1830 in Belluno: studio giurisprudenza e filosofia a Padova e a Vienna. Esulò dalla patria per non essere obbligato a fare il soldato austriaco, e visse lavorando come copista e poi dirigendo il Monitore dei tribunali. Nel '65 fu fatto direttore del collegio Longone in Milano, e poi provveditore agli studj a Firenze, a Roma, a Milano. L'esperienza acquistata nelle materie scolastiche e pedagogiche, ch'egli aveva studiato con mente di filosofo anzichè con gretta pratica cancelleresca, lo fece chiamare ad importanti ufficj nel ministero dell'istruzione pubblica. Fu pure del Consiglio superiore dell'istruzione, e dal 1886 deputato al Parlamento. La gracile salute gli fu distrutta dal lavoro, e mori in Padova ai 7 ottobre 1891.

Lascia fra le altre cose un volume, L'uomo e le scienze morali (Milano, Brigola, 1869; 2a ediz. Le Monnier, 1873), e due intitolati L'istruzione in Italia, preceduti da prefazione di P. VILLARI (Bologna, Zanichelli, 1891), ove questi dice essere il Gabelli « il primo scrittore di pedagogia che l'Italia abbia mai avuto, e il cui valore deriva da grande esperienza della scuola, dal metodo che segue, da un buon senso ammirabile, da una vasta conoscenza delle istituzioni scolastiche italiane e straniere, da un alto ingegno, da un animo più alto ancora. » Molti articoli suoi di politica, nei quali l'austerità del pensiero è temperata dall'arguzia della forma, sono disseminati nella Nuova Antologia. Notevole, come trattazione popolare di ardui problemi sociali, è la conferenza Il mio e il tuo.

Postuma è, per opera di E. TEZA, una raccolta di Pensieri, con frammento di autobiografia (Padova, Drucker, 1892).

[Vedi un articolo su di lui di E. MASI, nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1891; C. PIGORINI-BERI, A. G., reminiscenze, Perugia, tip. Umbra, 1891; FERD. GNESOTTO, A. G., Commemorazione, Padova, Drucker, 1893, e AM. AMATI, A. G., studio biografico, Padova, Drucker, 1893.]

Roma d'ieri e Roma d'oggi. Bisogna dire intera la verità. Il governo papale, ospite tollerante verso i forastieri, principalissima, se non unica, fonte di guadagno per i cittadini, vegliava con quella sospettosa sollecitudine, che non può mancare in chi ha ufficio di procurare agli altri anche il paradiso, affinchè i suoi sudditi andassero preservati da contatti pericolosi. Non si poteva dire sicuramente che non venissero da fuori e non ci fossero in Roma stessa, talvolta celebri, più spesso ignoti, uomini di gran valore. Bensi c'erano in onta al regime. Il governo pontificio, come tutti i governi che sopra ogni cosa desiderano il quieto vivere, amava le borse piene e i cervelli vuoti. I forastieri avevano capito che potevano godere benissimo di tutte le libertà, tolta quella di mettere bocca in cose di religione e di politica. Quanto ai cittadini, si cercava di provvedervi coi classici somministrati a piccoli pezzetti, colla grammatica, la retorica e la teologia distese cosi comodamente, da lasciare il minor posto possibile ad alcuni studj disturbatori, come la storia, la chimica, la fisiologia; collo stuzzicare e istigare la vanità sotto pretesto di mantenere l'emulazione; con tutti, infine, gli ordinamenti ideati tanto bene dalla celebre Compagnia per deviar la mente dall'osservazione dei fatti e ottenere che a poco a poco le parole sembrassero cose, e possibilmente si battezzassero le cose per parole. Ma queste cure diligenti e pietose non avrebbero gran che servito, se a tutto non si fosse aggiunto una censura sospettosa e occhinta, che, avendo l'incarico di preservar la gente dai cattivi pensieri, vegliava entro lo Stato a che non si stampasse cosa meno che timorata e discreta, e ai confini si sbracciava a mandar indietro libri e giornali. A provvedere il giornale ai suoi sudditi ci pensava il governo, pubblicandone uno egli stesso pieno di notizie sull'India e sulla China, e non c'era bisogno che si dessero la briga di cercarne altri. Se poi, ad onta di tutte queste precauzioni, sbucava fuori di quando in quando una testa calda, la polizia era sempre pronta a mettervi rimedio, mandandola con due righette a sbollire oltre la frontiera.

Di questo andare e con l'aiuto delle leggi e delle tradizioni d'un governo teocratico, che pigliava dal cattolicismo il più tenace spirito di conservazione di cui ci sia

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