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di corteggiarvi starei quasi per rispondere: facendo in generale come avete fatto sinqui. Facendo buon uso della libertà, assodate la libertà stessa.

Giova quindi alla causa della libertà tutto ciò che giova al vostro miglioramento materiale, intellettuale e morale. Vi raccomando anzitutto le scuole, le biblioteche, e tutto ciò che serve all'istruzione vostra e dei vostri figli. Non scordate che tanto valete quanto sapete, e che i vostri figli tanto varranno quanto sapranno. Cercate quindi di crescere il vostro lavoro ed i frutti del lavoro, per mezzo della concordia, dell'associazione, del credito. Cercate finalmente di scemare le vostre spese colla parsimonia, per mezzo delle Società cooperative, in guisa che si accrescano i vostri risparij.

E gli scioperi? dirà taluno, sentendomi parlare dell' accrescimento dei frutti del lavoro colle associazioni. Sono pronto a dirvi la mia opinione sugli scioperi, comunque argomento ardente, specialmente per me, che non sono estraneo all'industria. Or bene, io ho così poca paura della libertà, che ammetto le libertà delle coalizioni e quindi anche quella degli scioperi. La fissazione del salario è per me un contratto come un altro. Se il fabbricante e l'operaio s'accordano nel prezzo, bene: se no, si lasciano nè più nè meno come se si trattasse di un acquisto ordinario.

Ed io vorrei che il Governo e gli agenti governativi non s'ingerissero punto negli scioperi, purchè non si eserciti violenza nè contro le cose, nè contro le persone, nè contro i fabbricanti. La violenza diventa delitto comunque la esercitate, sia verso i vostri colleghi, sia verso i capitalisti, e debbe essere punita a rigore di leggi. Nè certo convengono agli operaj, cosi interessati nel mantenere le pubbliche libertà, cosiffatte violenze, imperocchè essi darebbero pretesto di leggi ripressive ai nemici della libertà.

Del resto, le condizioni del salario sono come per ogni altra merce un effetto dello stato del mercato. Chi sognasse di poter regolare il lavoro ed i salarj con norme preventive, oltre a ciò che possa essere richiesto dall'igiene e dalla umanità, ripeterebbe nei tempi odierni l'errore del decreto del 1637, che fissava i prezzi delle merci. Chi volesse impedire ai propri compagni di lavorar di più e di luerar maggiormente, altro non farebbe che confiscare a pro di nessuno ed a svantaggio del suo vicino quella liberta, che è l'anima della civiltà moderna. Nelle quistioni dei salarj abbiate sempre in mente l'osservazione di un celebre economista: Quando due fabbricanti corrono dietro lo stesso operaio, cresce il salario; quando due operaj sollecitano un solo posto disponibile, il salario inevitabilmente diminuisce. Gli ostacoli artificiali alle leggi economiche possono valere per qualche tempo possono cagionare qualche perturbazione di tempo e di luogo: puossi per esempio con troppe

pretese cacciare da un paese una industria, che trovasse in altri luoghi migliori patti, ma alla lunga la legge economica finisce sempre per trionfare, e specialmente laddove avvi intelligenza.

Indi è, che qui, ove non manca perspicacia e negli industriali e negli operaj, io non ebbi mai paura nè degli scioperi nè delle coalizioni. Intendono troppo bene gli operaj quali interessi essi abbiano nello sviluppo ed incremento della nostra industria. Ed intendono pure gli industriali i vantaggi che essi hanno dell'essere gli amici dei loro operaj, senza contare che allora è veramente soddisfacentissima occupazione quella dell' industria, allorquando operaj e fabbricanti costituiscono una sola famiglia.

Ma io intendo porre fine al troppo mio dire, e nel terminare io voglio pregarvi di avere qualche volta in mente non solo il presente, ma anche il passato. Non iscordate i beneficj immensi che la libertà ed ̄unità italiana vi ha arrecati. Dal 1860 in qua, le nostre industrie si sono forse più che raddoppiate. Ogni giorno sorge un nuovo opificio. Ogni giorno vedo andarsi utilizzando una delle forze naturali disponibili nelle nostre vallate. Paragonate i vostri salarj doggi, il vostro modo di vivere attuale, la considerazione e stima in cui ora siete tenuti, con quello che si era prima del 1848 e del 1860. Pensate lo sviluppo che andrà prendendo ancora in avvenire la nostra industria, ed i miglioramenti nelle vostre condizioni, che avrete in futuro.

Quando voi abbiate così avanti alla mente il passato, il presente e l'avvenire, vi rallegrerete innanzi tutto di aver vissuto in un' epoca di cotanta trasformazione di cose, e di avere potuto godere dei suoi benefici effetti. — (Dai Discorsi Parlamentari, vol. I, pag. 773.)

GIOVANNI RAFFAELLI.

Nacque ai 9 gennaio 1828 in Castelnuovo di Garfagnana: si addottorò in giurisprudenza, ma si compiaque più degli studj letterarj e della poesia. Nel '59 ebbe ufficj politici, e fu fatto segretario della R. Deputazione di storia patria delle provincie modenesi: ebbe in Modena la direzione delle scuole primarie e poi anche delle secondarie; nel '67 fu Provveditore agli studj delle provincie di Pisa e di Livorno. Di gracil salute, presago del suo destino, e sentendo, com' ei disse ne' suoi versi, che al nappo della vita Non liberò che una memoria mesta Come di cara illusion fuggita, Finchè coi fior di giovinezza in testa La mia giornata non avrò compita», si estinse immaturamente ai 17 gennaio 1869. L'anno innanzi aveva raccolto in un volumetto presso i Successori

Le Monnier i suoi Versi, non molti, ma tersi, ricchi di nobili sensi e governati per lo più da sensi di dolce malinconia.

[Vedi per la biografia, G. SFORZA, Della vita e delle poesie di G. R., Modena, Vincenzi, 1869; OR. RAGGI, Della vita e delle opere di G. R., Modena, Vincenzi, 1870.]

Gli Ospizj marini.

Dal sordido giaciglio
Che al dolor ti matura
Sorgi, povero figlio
Di matrigna natura;
Sorgi. L'aperto sole
E l'ampio mar t'invita,
Onde all' umana prole
Feconda esce la vita.
Uno spirto d'amore
Alberga in seno all'onde,
Che molcendo il dolore
Virtù nei corpi infonde.
O greche fole, eterno
Del giovine pensiero
Sorriso, io vi discerno,
O sacre ombre del vero!
Liete di novo lume
La riva amatuntea
Sorger vedea le spume,
E Venere nascea.
Plause la terra, quando
Uscir le forme ascose,
Alla beltà che amando
Rinnovella le cose.

Ah! da quel dì che l'acque
Alla beltà fur care,
Propizio arrise e piacque
All' uom l'immenso mare.
Ove d'un nume ignoto
Temea l'empia virtute,
Senti di vita un moto,
Un'aura di salute.

Ed or la salma frale
D'inopia e di fatica
Perchè, scarno mortale,
Non credi all'onda amica ?
S'addensa ai lidi, e tutto
Oblía la turba pazza,
E nel complice flutto
La voluttà gavazza.

E a te, misero, vieta
Fortuna invida il fonte,
Che all'animata creta
Toglie del duol le impronte?
Dunque dell' acque il regno
Di vita ospite sede

All' uom si niega? Oh degno
Dell' universo erede!

Colà dove le sponde
Remote al guardo umano
Col cielo il mar confonde
In un amplesso arcano,
Questa plebe, a cui langue
L'alma nel corpo attrito

Le membra innovi e il sangue,
E senta l'infinito.

Elegre carni e i macri
Volti e le fibre tarde
Dai felici lavacri
Risorgeran gagliarde.
Risorgeran redenti
I figli, a cui le colpe
De' crudeli parenti
Frollar l'ossa e le polpe.
Bello all' inerte argilla
Render le umane forme,
E destar la scintilla
Che nelle membra dorme.
Mortale, il cor solleva
Che l'alta opra compio:
Ritorna ai figli d'Eva
L'immagine d'Iddio.

Ecco ne lieti campi
Sudan robuste braccia;
Splende fra tuoni e lampi
D'aspri guerrier la faccia;
Rivive e vita imparte
La mano ed il pensiero;
Nuove ghirlande ha l'arte,
E nuove palme il vero.

Già fummo: il duol misura
Gli anni, e il vigor ne manca:
Ai fonti di natura
Torniam, progenie stanca.
Torniam dove un fecondo
Spiro le vite informa,
Dove del giovin mondo
Dura immutata un'orma.

Di là gli augurj certi Tragga la terra. Öh scenda

Nei cor dell'odio esperti
Pietade, e amore accenda!
Cessaro i mesti esigli,
Tacque il fragor dell' arme:
Vati d'Ausonia, ai figli
Cantiam l'umano carme.
Come in fedele immago
Un disïato volto,
Nell'animo presago
Tutto il futuro è accolto,
Quando altere le madri
Saran di forte prole,
E fatti alti e leggiadri
Vedrà perenne il sole.

Amor, che alle immortali
Speranze i cor disserra,
Tergerà le fatali
Lagrime della terra.

E tien schermo alla fame
Le ben partite glebe,
E tolta all'empie brame
Dei drudi suoi la plebe.

La culla, il focolare,
La mensa, il casto letto,
Il tumulo e l'altare.
Benedirà l'affetto.
Oh sorga il di promesso,
E gli espiati sdegni
Volga in fraterno amplesso
Il gener nostro, e regni!

Noi no l vedrem. Consunti
Dall' inegual fatica,
Noi sarem ricongiunti
Alla gran madre antica:
E la pietà, che santo
Ci fe'l umano affanno,
Darà memore pianto,
E l'ossa esulteranno.

PIETRO COSSA.

(Ediz. cit., pag. 131.)

Nacque a Roma il 24 gennaio del 1830, di famiglia arpinate; uno de' suoi antenati era stato Papa Giovanni XXIII, come egli stesso narra in una breve lettera autobiografica.1 Studiò da prima

1 In data del 19 novembre 1880, diretta a un redattore della National Zeitung: il testo italiano ne fu poi pubblicato nel Fanfulla della Domenica dell' 11 settembre 1880.

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