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La conchiglia fossile.1

Sul chiuso quaderno
Di vati famosi
Dal musco materno
Lontana riposi,
Riposi marmorea,
Dell'onde già figlia,
Ritorta conchiglia.

Occulta nel fondo
D'un antro marino
Del giovane mondo
Vedesti il mattino;
Vagavi co'nautili,
Co'murici a schiera:
E l'uomo non era.
Per quanta vicenda
Di lente stagioni,
Arcana leggenda
D'immani tenzoni
Impresse volubile
Sul niveo tuo dorso
De' secoli il corso!

Noi siamo di ieri;
Dell'Indo pur ora
Sui taciti imperi
Splendeva l'aurora;
Pur ora del Tevere
A'lidi tendea

La vela di Enea.

È fresca la polve
Che il fasto caduto
De' Cesari involve.
Si crede canuto
Appena all'Artefice
Uscito di mano
Il genere umano!

Tu, prima che desta
All'aure feconde

Italia la testa
Levasse dall' onde,
Tu suora de' polipi
De' rosei coralli
Pascevi le valli.

Riflesso nel seno

De' ceruli piani

1 Vedi su questa poesia, F. LAMPERTICO, in Rass. Nazion. del 16 giu

gno 1893.

Ardeva il baleno

Di cento vulcani:
Le dighe squarciavano
Di pelaghi ignoti
Rubesti tremoti.

Nell'imo de' laghi
Le palme sepolte:
Nel sasso de draghi
Le spire rinvolte,
E l'orme ne parlano
De' profughi cigni
Sugli ardui macigni.
Pur baldo di speme
L'uom, ultimo giunto,
Le ceneri preme
D'un mondo defunto;
Incalza di secoli
Non anco maturi
I fulgidi auguri.

Sui tumoli il piede,
Ne' cieli lo sguardo,
All'ombra procede
Di santo stendardo:
Per golfi reconditi,
Per vergini lande
Ardente si spande.

T'avanza, t'avanza,

Divino straniero ;
Conosci la stanza
Che i fati ti dièro:
Se schiavi, se lagrime
Ancora rinserra,
È giovin la terra.

Eccelsa, segreta

Nel buio degli anni
Dio pose la mèta

De' nobili affanni.

Con brando e con fiaccola

Sull' erta fatale

Ascendi, mortale!

Poi quando disceso

Sui mari redenti

Lo Spirito atteso
Ripurghi le genti,
E splenda de liberi
Un solo vessillo
Sul mondo tranquillo;
Compiute le sorti,
Allora de' cieli

Ne' lucidi porti

La terra si celi:
Attenda sull' áncora
Il cenno divino

Per novo cammino.

(Dalle Poesie, ediz. Le Monnier, 1894, vol. I, pag. 40.)

LUIGI MERCANTINI.

Nacque a Ripatransone nelle Marche ai 20 settembre 1821: si diè giovane ancora all'insegnamento; partecipò vivamente ai casi politici del 1848, e restaurato il governo de' chierici, esulò, prima nell'isole Jonie, poi in Piemonte. A Genova professò lettere italiane nel collegio femminile delle Peschiere; nel '60 fu segretario del Valerio, Commissario straordinario nelle Marche; indi fu professore di storia a Bologna, prima nell'Accademia di Belle Arti, poi nell'Università; nel '65 ebbe la cattedra di letteratura italiana nell'Università di Palermo, e in questa città morì prematuramente ai 17 novembre 1872.

Cantò in forma facile e popolare la rivoluzione italiana celebrandone i fatti e gli uomini più cospicui, e diè forma ai sensi d'amor patrio de' combattenti per l'Italia, cominciando nel '48 coll'Inno di guerra: Patriotti, all'Alpi andiamo, che suonò allora sulle bocche dei volontarj, come nel '59 il canto dei Cacciatori delle Alpi: Volontario ho abbandonato, e poi il popolarissimo Inno di Garibaldi: Si scopron le tombe, si levano i morti, che, messo in musica dal maestro Olivieri, accompagnò colla foga del ritmo e delle note le vittorie dell'eroe e de' suoi seguaci. Raccolta compiuta dei suoi versi è quella che, col nome di Canti pubblicò G. MESTICA premettendovi un Discorso sulla vita e le poesie dell'A. (Milano, Ferrario, 1885).

La spigolatrice di Sapri.

Eran trecento, eran giovani e forti,
E sono morti!

Me ne andava al mattino a spigolare

Quando ho visto una barca in mezzo al mare:
Era una barca che andava a vapore,

E alzava una bandiera tricolore.

All'isola di Ponza si è fermata,

È stata un poco e poi si è ritornata;

S'è ritornata ed è venuta a terra:

Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.

Eran trecento, ec.

Sceser con l'armi e a noi non fecer guerra, Ma s'inchinaron per baciar la terra.

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Ad uno ad uno li guardai nel viso:
Tutti aveano una lagrima e un sorriso.
Li disser ladri usciti dalle tane,

Ma non portaron via nemmeno un pane;
E li sentii mandare un solo grido:

Siam venuti a morir nel nostro lido.
Eran trecento, ec.

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-

Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro
Un giovin camminava in mezzo a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
Gli chiesi : - Dove vai, bel capitano? 1
Guardommi e mi rispose: - O mia sorella,
Vado a morir per la mia patria bella.
Io mi sentii tremare tutto il core,
Nè potei dirgli - V'aiuti 'l Signore !
Eran trecento, ec.

Quel giorno mi scordai di spigolare,
E dietro a loro mi misi ad andare:
Due volte si scontrâr con li gendarmi,
E l'una e l'altra li spogliâr dell'armi.
Ma quando fûr della Certosa ai muri,
S'udirono a suonar trombe e tamburi;
E tral fumo e gli spari e le scintille
Piombaron loro addosso più di mille.
Eran trecento, ec.

-

Eran trecento e non voller fuggire,
Parean tre mila e vollero morire;
Ma vollero morir col ferro in mano,
E avanti a loro correa sangue il piano:
Fin che pugnar vid'io, per lor pregai,
Ma un tratto venni men, nè più guardai:
Io non vedeva più fra mezzo a loro
Quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.
Eran trecento, eran giovani e forti,
E sono morti!

PAOLO FERRARI.

Lasciò un frammento autobiografico, e da esso e da proprie memorie ricavò amorosamente il figlio, professor Vittorio, un bel volume sulla vita e sull'opera paterna. Nacque a Modena il 5 aprile 1822; trasmutandosi altrove la famiglia, passò i primi anni e compì i primi studj a Paullo, a Pieve Pelago, a Massa Carrara. Nel 1838

1 Era questi, com'è noto, Carlo Pisacane, duce dell' infelice impresa contro il Borbone.

2 V. FERRARI, Paolo Ferrari, Milano, Baldini, Castaldi e C., 1899 (cfr. Rass. bibl. della letter. ital., 1899, pag. 130-131).

si inscrisse al Collegio legale dell' Università modenese, la quale da Francesco IV era stata allora divisa e suddivisa in collegi-convitti per le tre facoltà (matematica, medica, legale). Il Ferrari, tra' più briosi e ribelli di que' giovani, e reo di aver satireggiato alcuno de' professori, fu escluso nel 1843 dai dodici ammittendi alla laurea, che ottenne poi quel medesimo anno, intercedendo il nonno, dalla grazia sovrana del Duca. Tornato a Massa, prese moglie e attese anche alla pratica civile e criminale, ma, principalmente, a far versi, a coltivare la sua inclinazione al genere drammatico; conobbe in questo tempo quel bizzarro Chelussi che fu il modello, con l'innesto di alcuni tratti d'un prof. Marchi dell' Univ. modenese, del Marchese Colombi. Di questi anni (1847), è la commedia in dialetto massese Baltroméo calzolaro, che fu poi ridotta in italiano (1865) col titolo Il Codicillo dello zio Venanzio, il qual rifacimento ebbe una versione veneziana con El libreto de la Cassa de Risparmio. Tornò con la sua nuova famiglia a Modena, e di lì, ai primi sentori della restaurazione ducale (1848), si allontanò, come altri che esularono, prendendo dimora nella montagna sopra Vignola. Vi attese a scrivere altre commedie; e di nuovo in Modena sullo scorcio dell'anno, abitando col padre in parte di quel fabbricato che divenne poi proprietà del Municipio e sede dell'Estense e del Museo Civico: quivi, la stanza che fu già lo studio di Paolo Ferrari fu denominata Sala Ferrari e il 3 giugno 1895 vi fu apposta una lapide, che porta i titoli delle commedie che egli vi scrisse. Tralasciando di ricordare altri lavori, de' quali lo Scetticismo (1850), diventò poi (1864) La donna e lo scettico in martelliani, facciamo menzione del primo e lieto successo che ebbe nel 1852 al Ginnasio drammatico fiorentino, la commedia, scritta l'anno innanzi, Il Goldoni e le sue sedici commedie nuove, dalla quale comincia la sua riputazione. In questo periodo quasi ogni anno produsse nuove commedie: Dante a Verona (1853), Una poltrona storica (1853); durante una malattia d'occhi, la Scuola degli innamorati (1854). Dal noto libro del Cantù sul Parini gli venne l'idea d'altra commedia, storica e satirica insieme, La Satira e Parini (1854-56), che ebbe, a cominciar da Torino, accoglienze festosissime. Nel 1859 ebbe nobilissima e precipua parte ne' moti rivoluzionarj modenesi: fu direttore, come già prima, della Gazzetta Ufficiale di Modena e di quella dell'Emilia. Commedie notevoli di questi anni sono: Prosa (1858); La medseina d'onna ragaza amalèda, scene popolari in un atto in dialetto modenese (1859), ridotte in italiano l'anno appresso; i due ricordati rifacimenti La donna e lo scettico e il Codicillo. Chiuso il periodo rivoluzionario

1 Baltroméo calzolaro, commedia in dialetto, massese, edita e illustrata da GIOVANNI SFORZA, Firenze, tip. Landi, 1899. È notevole lo scritto prepostovi dallo Sforza Massa cinquant'anni fa, anche a lumeggiare i casi della vita del Ferrari fra il 1843 e il '48.

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