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Non ci è un particolare vuoto. Quello spettacolo di morte si ripete quattro volte, e a lunghi intervalli, entro tre giorni, e fu possibile che un padre vedesse questo, e starsi quieto, tener chiuso in sè il martirio, snaturarsi, disumanarsi.

Succede lo scoppio. L'anima lungamente compressa trabocca. E non è già sfogo eloquente di un sentimento umano, conscio e attivo, intelligibile a sè e agli altri. È sfogo di un'anima infranta, più simile a convulsioni, a delirj, che discorsi. Non sono pensieri, e quasi neppure parole: sono grida, sono interiezioni. È l'espressione nella forma bruta. È l'affetto nella forma istintiva e animale. Vivi i figli, non potè chiamarli per nome, non potè esprimere la sua tenerezza, il suo dolore: eccolo li ora, a brancolare sopra ciascuno, e chiamarli, chiamarli per tre giorni:

E tre di li chiamai, poi ch'ei fur morti.

Prima che morisse il corpo, morto era l'uomo; sopravviveva la belva, mezza tra l'amore e il furore, i cui ruggiti spaventevoli non sai se esprimano suono di pietà o di rabbia. Qui non c'è più analisi, qui non c'è più un pensiero, non un sentimento chiaro e distinto. Quel chiamare i figli era dolore, era tenerezza, era furore, era tutto Ugolino divenuto istinto ed espresso in un ruggito. C'è intorno a quest'uomo già ferino un'aureola di oscurità, quali sono gli ultimi silenzj e le ultime agonie nella camera del moribondo. Tal è l'effetto formidabile degli ultimi oscuri momenti:

Poscia più che il dolor potè il digiuno.

Verso letteralmente chiarissimo, e che suona: più che non potè fare il dolore, fece la fame. Il dolore non potè ucciderlo; lo uccise la fame. Ma è verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de' sentimenti e delle immagini che suscita, pe' tanti forse che ne pullulano, e che sono così poetici. Forse invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame; è un sentimento di disperazione, Forse non cessa di chiamare i figli, se non quando la fame più potente del dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista e poi la voce. È un sentimento di tenerezza. Forse, mentre la natura spinge i denti nelle misere carni, in quell'ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e Dante ha realizzato il delirio nell'inferno, perpetuando quell' ultimo atto e quell' ultimo pensiero. E un sentimento di furore canino. Tutto questo è possibile; tutto questo può essere concepito, pensato, immaginato; ciascuna congettura ha la sua occasione in qualche parola, in qualche accessione d'idea. L'immaginazione del lettore è percossa,

spoltrita, costretta a lavorare, e non si fissa in alcuna realtà, e fantastica su quelle ultime ore della umana degradazione. Al di sopra di queste impressioni vaghe e perplesse rimangono quei quattro innocenti stesi per terra, e i loro nomi ripetuti per tre di nella sorda caverna da una voce, che non sai più se sia d'uomo o di belva. Ma l'eco di quei nomi risuona nell'anima del lettore, che sente sè stesso nelle ultime parole di Dante. Perchè mentre la belva torce gli occhi e riafferra il teschio co'denti, innanzi a lui stanno que' cari giovinetti, e li chiama per nome, ad uno ad uno, tutti e quattro, e grida: erano innocenti :

Innocenti facea l'età novella

Uguccione e il Brigata,

E gli altri due che il canto suso appella.

Ma, se il pianto di Ugolino è furore, la pietà di Dante è indegnazione, imprecazione, e in quella collera esce fuori una nuova maniera di distruzione contro la città che aveva dannato a perire quattro innocenti:

Movasi la Capraia e la Gorgona,

E faccian siepe ad Arno in su la foce,
Sì ch'egli anneghi in te ogni persona.

Non so se sia più feroce Ugolino che ha i denti infissi nel cranio del suo traditore, o Dante, che per vendicare quattro innocenti condanna a morte tutti gl'innocenti di una intera città, i padri e i figli e i figli de'figli. Furore biblico. Passioni selvagge in tempi selvaggi, che resero possibile un inferno poetico, sotto al quale vi è tanta storia. (Dai Nuovi saggi critici, pag. 60 e segg.)

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GIACINTO CASELLA.

Il 12 settembre 1817 nacque in Filéttole, presso Pisa, di famiglia villereccia: studiò, vestitosi chierico, nel seminario pisano, e poi vi fu maestro. Deposto l'abito, fu maestro nelle scuole del Comune e presso famiglie private. L'Accademia della Crusca, cui era giunta notizia, nonostante la molta modestia della sua vita, di quanto egli valesse, lo ascrisse fra i suoi nel 1852, e lo fece dei compilatori del nuovo Vocabolario. Vi lavorò fino al '74, cioè finchè una crudel malattia nervosa e la cecità non lo obbligarono a chiedere il riposo: mori ai 18 gennaio 1880. A molta conoscenza di lingue e lettere classiche e di filologia italiana accoppiò quella delle letterature moderne straniere il suo valore nella critica e nella storia letteraria è dimostrato da ciò ch'ei scrisse su Dante, del quale illustrò la principale allegoria, sull'Ariosto, sul Guarini, sul Goethe: fu anche culto poeța, e oltrechè in poesie originali,

lo dimostrò in una classica traduzione di Properzio, e nel voltare in italiano, serbando l'indole dell'originale, l’Aroldo, la Parisina, la Sposa d'Abido, il Beppo del Byron. Più avrebbe potuto fare se la salute glie l'avesse consentito: ma ad attestar della sua mente, restano i due volumi delle Opere edite e postume (Firenze, tip. Barbèra, 1884), raccolte dalla moglie E. GHEZZI, che vi prepose una notizia biografica, più una prefazione di A. D'ANCONA e un giudizio sulla traduzione di Properzio del prof. G. RIGUTINI.

[Per maggiori notizie, vedi oltre gli scritti cit., C. GUASTI, Commemorazione negli Atti della Crusca del nov. 1880, Firenze, Cellini, 1881, e l'Elogio fattone da G. RIGUTINI, nei medesimi Atti del nov. '93.]

Lodovico Ariosto. Pregio distintivo dell'Ariosto è l'arte degli sviluppi e della composizione, ma non bisogna lasciarne indietro un altro non meno cospicuo e più comunemente riconosciuto, la bellezza della sua forma poetica. Egli ha in sommo grado quella che i Greci dissero enargia (da non confondersi con l'energia o forza), cioè l'evidenza della rappresentazione, per cui le cose che narra o descrive le hai vive e scolpite sotto gli occhi. Questa il Galileo la chiama enfaticamente la divinità di esso, e un bizzarro ma ingegnoso scrittore del Cinquecento, Antonfrancesco Grazzini, la significò assai bene in questi versi:

Ei ti pinge una cosa così bene

Che ti pare d'averla avanti agli occhi.

Con gli occhi vedi, con le man tu tocchi
Ciò ch'egli scrive.

Il suo stile ha una mirabile varietà e pieghevolezza, con cui esprime tutto appropriatamente: l'umile, il mediocre e il sublime, e scorre senz'ombra di stento per tutti i tuoni della scala poetica. La lingua è ricca, elegante e schietta toscana; e con la stima ch'egli mostrò di fare del dialetto toscano, contribui forse a renderlo universale in Italia più che non facesse qualunque altro scrittore; più assai per esempio dei suoi contemporanei Bembo, Sanazzaro, Castiglione. Anche quelli che gli sono più severi e quasi ingiusti, come l'illustre Cesare Cantù, confessano volentieri questo suo merito: « Egli ha una lingua e uno stile quale nessun altro dei nostri raggiunse. » (Letteratura Italiana.)

Quella qualità che Emerson crede essenziale al poeta, la giocondità, egli la possiede assai più del Tragico inglese, e vi accoppia spesso una grazia che lo mostra nato in quella stessa contrada emiliana, che dette alla pittura il Correggio e il Parmigianino. E quello che più fa maraviglia è, come esso, che ordinariamente è così morbido, delicato é

grazioso, sappia prendere quando bisogna una concitazione di ritmo e un impeto di stile, che investe e trascina con sè; tanto che uno scrittore paragonava il genio impetuoso di lui a quel suo cavallo Baiardo, del quale nè macchie, nè sassi, nè fossati valgono ad arrestare la foga. E meglio forse si potrebbe agguagliare al volo di quel suo Ippogrifo, che vince con la prestezza dell'ale l'aquila e la saetta. Diresti che come

Ogni vate e pittor pinge sè stesso,

egli abbia in cotesto maraviglioso animale trovato il simbolo più espressivo della sua fantasia. Sopra il mondo ariostesco, come sopra all'omerico, par di vedere un cielo sereno e limpido e irradiato da un sole di primavera, per cui tutte le cose appariscono distinte, rilevate e come circonfuse d'una luce soave.

Cotesta giocondità tanto stimabile in arte fece che alcuno accusasse l'Ariosto quasi di cattivo Italiano, perchè tutto assorto nel suo mondo fantastico, non sentisse o non curasse le sciagure che allora si aggravavano sulla patria. Ed invero quando egli preparò, compose, accrebbe e corresse il Furioso, si svolgevano quegli avvenimenti, che il Guicciardini descrive nella sua storia, e che potrebbero dirsi il dramma tragico, il quale si chiude con la morte della indipendenza italiana. Quasi prologo di cotesto dramma funesto è la calata di Carlo VIII, che rivelò ai popoli oltramontani il segreto dell'Italia, cioè com'essa, copiosa di ricchezze, splendida d'arti e di lettere, non aveva concordia nè buone armi, da saperle e poterle difendere. Segue bentosto il primo atto con la discesa di Luigi XII, la conquista di Milano e del regno di Napoli, che spartito fra due re perfidissimi, resta definitivamente agli Spagnuoli. Dopo l'intermezzo di pochi anni, durante il quale si ha il solito spettacolo di guerre intestine, siamo al secondo atto, la Lega di Cambray, nella quale tutti i potentati d'Europa si collegano vilmente contro la sola Venezia, e per cui si aggravano oltremisura i mali d'Italia. Scene di cotesto atto, sono la rotta di Ghiaradadda, l'eroica difesa di Padova, il sacco di Brescia, la battaglia di Ravenna, e l'altra di Marignano, che il Trivulzio chiamava la battaglia dei giganti. Danno materia al terzo ed ultimo atto, il più funesto di tutti, le guerre tra Francesco I e Carlo V con la disfatta di quello a Pavia, l'orribile sacco di Roma, l'assedio e la resa di Firenze.

Non bene si comprende veramente a primo aspetto come un poema così generalmente gaio qual è il Furioso, possa esser nato mentre si consumava a danno d'Italia una così fiera tragedia. Lo stesso epicureo Lucrezio, mentre si accingeva a comporre il suo gran poema, con felice inconse

guenza, fa a Venere quella sublime invocazione, perchè ottenga dal suo Marte pace ai Romani:

Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo

Possumus æquo animo,

conclude egli alla fine del suo splendido inno. Ma è poi vero che l'eco dei grandi eventi contemporanei non si senta nel poema dell'Ariosto, e che egli mirasse impassibile le sventure della patria, sedendo tranquillamente sulle serene cime dell' arte? A me par di vedere tutto il contrario. Dopo i primi canti, composti in quel periodo di tregua che precede alla Lega di Cambray, dal proemio del quattordicesimo canto, senti subito che il poeta è scosso fortissimamente dallo spettacolo di battaglie, di rapine, d'eccidj, che ha sotto gli occhi:

Bisogna che proveggia il re Luigi
Di nuovi capitani alle sue squadre,
Che per onor de l'aurea Fiordaligi
Castíghino le man rapaci e ladre,
Che suore, e frati e bianchi e neri e bigi
Violato hanno, e sposa e figlia e madre;
Gittato in terra Cristo in sacramento
Per torgli un tabernacolo d'argento.
Oh misera Ravenna, t'era meglio
Che al vincitor non fessi resistenza,
Far ch'a te fosse inanzi Brescia speglio
Che tu lo fossi a Arimino e a Faenza.
Manda, Luigi, il buon Traulcio veglio
Ch'insegni a questi tuoi più continenza,
E conti lor quanti per simil torti
Stati ne sian per tutta Italia morti.

Anzi nell'edizione del 1516 aveva più apertameute osato ricordare ai Francesi, benchè alleati del duca di Ferrara, l'esempio del Vespro Siciliano:

E conti lor del sangue che fu spanto
Al vespro che intonò l'orribil canto.

Non va innanzi tre canti, che il suo dolore patriottico nuovamente prorompe, e stimmatizza così il malgoverno e la follia dei principi italiani, che aprivano l'Alpi ai forestieri:

Il giusto Dio, quando i peccati nostri
Hanno di remission passato il segno,
Acciò che la giustizia sua dimostri
Uguale alla pietà, spesso dà regno
A tiranni atrocissimi et a mostri,
E dà lor forza, e di mal fare ingegno.

Di questo abbiàn non pure al tempo antiquo
Ma ancora al nostro, chiaro esperimento,
Quando a noi, greggi inutili e mal nati,
Ha dato per guardian lupi arrabbiati;

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