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Sonno e Morte.

Poichè la fibra omai logora e smunta
Langue, e si fiacca ogni pensier gagliardo,
Al di che cade e m'abbandona io guardo
Stanco, e la notte spio se a me già spunta.

Ben venga il sonno poi che l'ora è giunta
Della sua pace, e il riposar m'è tardo;
Perchè restar, se questa fioca ond'ardo
Ultima fiamma in breve andrà consunta?
Finir, sparir, nell'oblioso immenso
Mar del passato naufragar, di questo
Mio viver cieco smarrir forma e senso,

Non altro resta: oh scenda, io lo saluto,
Questo sonno onde ancor null'uom s'è desto,
Che il tempo ignora e senza fine è muto.

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(Ibidem, pag. 435.)

Proverbj storici. Una raccolta dei proverbj storici italiani sarebbe un curioso commento allo studio della vita nazionale, e un ottimo mezzo a penetrare in certi solenni giudizj del popolo, che suonano come la vendetta del tempo e della verità. Non sempre è giusto quel proverbio che dice voce di popolo voce di Dio: ma le sentenze spremute da una concorde esperienza ed accettate dal consenso unanime delle generazioni, danno un marchio indelebile ai fatti ed agli uomini cui si riferiscono. È la testimonianza dei contemporanei che sorge schietta, viva, palpitante dai detti volgari, e aggiunge peso alla storia o la rettifica coll'autorità di un documento più valido di ogni ricordo o d'ogni pergamena. In un popolo arguto e aperto per tempo alle libertà del vivere ed agli ardimenti del pensiero, i lunghi travagli e l'oppressione, e la stessa varietà della fortuna, non possono non aver destato quel bisogno di protesta che si svampa in motti pungenti o in querule osservazioni. E l'Italia deve abbondare di queste sentenze, specialmente nei secoli del suo decadimento, allorchè le compresse democrazie, perduta la difesa dell'armi, rifugiavansi in quella del sarcasmo o del lamento. E poichè lo smembramento della nazione ha dissociate le cittadinanze e creati tanti centri di vita isolati e spesso discordi, codesti proverbj diventano fra noi un prezioso documento a svelare quel costume e quel carattere civile, che è proprio di ciascun popolo italiano.

Qualche cosa troviamo in questa raccolta (del Giusti), e il compilatore ha spigolato anche fuori di Toscana in cerca di motti che avessero un significato storico o chiudessero una designazione speciale od uno scherno, ricambio antico e non ancora cessato di offese tra le nostre città. Ma l'argomento è appena sfiorato, e sarebbe desiderabile che da ogni parte

d'Italia si venisse disseppellendo tutta questa ricchezza di tradizione popolare, che tanto giova ad illustrare l'intimo senso di certe vicende e di certi rapporti nazionali.

Quando leggiamo, per esempio, un proverbio che dice: la Spagna è una spugna, il pensiero ricorre tosto alle concussioni di quel governo, che dilapidarono la misera Italia, e suggerirono quel tristissimo giuoco di parole, povera vendetta a tanto cumulo di guai. E contro la signoria spagnuola abbondano i detti e le accuse, e vi si scorge il rammarico d'un popolo costretto a patirne la molestia senza speranza di liberazione. Uomo di Spagna, dice uno di questi proverbi, ti fa sempre qualche magagna; e un altro più calzante e più appropriato soggiunge: il ministro di Sicilia rode, quel di Napoli mangia, e quel di Milano dicora, alludendo in pari tempo al diverso grado di ricchezza delle tre provincie, su cui lavorava il dente spagnuolo. Nè miglior concetto ha lasciato la Spagna fra gli stessi popoli fiorentini, trovandosi un proverbio da loro creato per la venuta dell'infante don Carlo, qual successore del cadente Gian Gastone, che dice:

Fiorentin mangia fagiuoli; e' volevan li Spagnuoli;

Li Spagnuoli son venuti, Fiorentin becchi cornuti.

Gli Spagnuoli se n'andarono, e prima ancora che Gian Gastone morisse, l'infante passò al trono di Sicilia: ma i Fiorentini non mostraron lagnarsi meno della reggenza venuta dopo in nome dei principi di Lorena, giacchè un proverbio del tempo dice:

Lotto, lusso, lussuria e Lorenesi,

Quattro L ch'han rovinato i miei paesi.

E più tardi, allorquando la signoria dei nuovi principi si dié a riformare lo Stato, il popolo, malcontento della nuova parsimonia, sembrò rimpiangere lo splendore ed il fasto della casa medicea con quel motto:

Co' Medici un quattrin facea per sedici:

Dacchè abbiam la Lorena, se si desina, non si cena.

Pur era quello stesso popolo che sotto il governo di Cosimo soleva dire con raccapriccio: Dio mi guardi dalle prigioni del duca; laonde parrebbe che nei popoli fosse più tenace e più lunga la memoria delle liberalità principesche, che non quella dell'oppressione e della paura. Ma il fiorentino fu popolo paziente, longanime, facilmente rassegnato, e un proverbio che suona Firenze non si muove se tutta non si duole, ci mostra com'egli propendesse ad accettare senza strepito le dure condizioni del vivere, e non protestasse se non giunto all'estremo dei mali. E sebbene fosse solito dire con motto volgare e pittoresco che dal capo vien la tigna, accennando che i guai derivano dall'alto e di là

cadono fra le moltitudini, si contentò per lo più di grattarla dolcemente e mormorando sotto voce. Nè, quando il popolo stesso faceva la legge e gridava in piazza vivano le berretle e muoiano le foggette, fu più corrivo alle mutazioni e alle proteste, o si lagnò meno delle necessità che lo traevano a tumulto.

Lo spirito generale di questi proverbj ci insegna come quella irrequieta democrazia, che in Firenze parve non poter mai posare in uno stabile ordinamento di repubblica, fosse più conservatrice e più fida all'osservanza delle leggi, che non appaia dalle vicende della sua storia. Tant'è vero che i popoli, anche allora che sembrano più indocili ai vincoli dello Stato e più pronti a sottrarsene, interrogati nell'intimo del loro pensiero, palesano instintivamente l'amor della quiete e del vivere ordinato e sicuro, e invocano quella legalità, che è la salvaguardia della pubblica esistenza.

La maggior parte dei proverbj storici, che leggiamo in questa raccolta, sono diretti a biasimare l'instabilità dei decreti e dei provvedimenti civili: qualunque sia, il popolo ha bisogno della legge, nel cui rispetto è tutta la sua forza, e, benchè dura, la sopporta, purchè sia osservata. Legge veneziana, dice un proverbio veneto, dura una settimana, e il popolo fiorentino ripeteva: bando di Ciompi, dura tre di; men fortunato il popolo milanese soleva dire al tempo spagnuolo: grida de Milan la dura de incœu a doman. Ed è lamento che svela senno civile e maturità di pensiero nel popolo, il quale aborre soprattutto dalla turbolenza e dall'anarchia, ed esprime a suo modo e con certa stoica rassegnazione la necessità del governo, dicendo: all'ufficio del comuno, o tristo o buono, ce ne vuol uno.

Chi teme le passioni violente, e si figura nel popolo la licenza e la sfrenatezza pronta a trascorrere in eccessi, non ha che a leggere questi proverbj, in cui la cautela e la moderazione traspirano da ogni parola, e le facili e frequenti commozioni son condannate, come causa più prossima di danno. Chi dice parlamento, dice guastamento, suona un proverbio dei tempi stessi della repubblica; e, quasi scherzando sulla poca durata degli uomini preposti allo Stato, udiamo un altro soggiungere: ne di tempo në di signoria non ti dar malinconia. E traducendo più direttamente il pensiero della quiete, come bisogno di vivere più sicuro, udiamo un proverbio che dice: garbuglio fa pei male stanti; proverbio già vecchio, prima che l'ira dei partiti lo adoperasse a screditare ogni moderno tentativo d'innovazione, e un altro più compiuto avverte che l'ordine è pane, il disordine è fame. E infine i teoristi del giusto mezzo non possono vantarsi d'aver trovato nulla di meglio di quel proverbio, che ne riassume pittorescamente la dottrina dicendo: tra la briglia e lo sprone consiste la ragione. Che s'altri finge ancora spauracchi di dottrine

estreme, e s'impenna alla parola di democrazia, e s'imagina un caos di frenesie e di delitti, il senno del popolo ha pronta la risposta, ed è risposta vecchia di migliaia d'anni.

Altri proverbj sarebbero a vedersi, che svelano costumanze particolari di ciascun paese, e potrebbero giovare all'illustrazione morale o civile del popolo italiano. Certo non vuolsi dar grande importanza a quei motti che son frutto di sdegni e di gelosie municipali, e che si veggono rimbeccati a vicenda tra popolo e popolo, spesso eziandio attirati da un'assonanza di rima, che in bocca al volgo è più forte talora d'ogni senso di giustizia. Ma aiutano a conoscere le cause di certi giudizj, e guidano a ravvisare, anche di mezzo alle esagerazioni ed alle animosità, certe tendenze e certi caratteri particolari d'un popolo. I Francesi, dice un proverbio, non dicono come vogliono fare, non leggono come scrivono, non contano come notano; ed è diflidenza antica verso quella nazione, larga di promesse e di eccitamenti, ma nè sicura nè ferma alleata all'Italia. Laonde un altro proverbio arguto, designando l'indole di quel popolo, soggiunge: il Francese per amico, ma non per vicino, se tu puoi.

Ma più abbondano le parole di diffidenza, e pur troppo quelle di scherno e d'ingiuria, fra' popoli italiani. Chi ha a far con Tosco, non vuol esser losco, dice il più umano e gentile di questi proverbj, che quasi può sembrare ancora un'adulazione: ma tosto vi troviam detto dei Maremmani, Dio ne scampi i cani, e dei Monferrini, che dove son due Monfrin, due ladri e un assassin; e dei Pugliesi, cento per forca e un per paese; e vediamo i Fiorentini tacciar di traditori i Pisani, e deridere i Senesi, e sberteggiare quei di Prato e di San Gemignano, e soprattutto dir male di Roma e dei Romagnuoli, che sono i popoli peggio trattati e quelli che suggerirono maggior numero di proverbj. Romaneschi, dice l'un d'essi, non son buoni në caldi, né freschi; e un altro più pungente: i Romagnuoli portano la fede in grembo. E sono avanzo di epoche tristi e forse di tristi contatti: ma la corruzione prelatizia è ben dipinta nei proverbj che riguardano Roma. E fatalmente non son proverbj perduti ně fuori d'uso, nè spento affatto è lo spirito che li ha dettati ai varj popoli italiani; e il Giusti si duole, registrandoli, di non poterli riporre interamente fra il ciarpame archeologico, come tant'altri che riguardano costumanze antiche e dimenticate.

Anche tra questi ne troviamo parecchi nella raccolta, e più vorremmo trovarne, giacchè il proverbio sopravive spesso alla memoria del fatto cui si riferisce, e soccorre a perpetuare quelle tradizioni che altrimenti andrebbero cancellate. È facile rammentare sotto il proverbio chi fugge maggio non fugge calende quell'usanza fiorentina di pagare

lo scotto per le allegrezze di maggio, o di dovere in altro modo soddisfar la brigata innanzi che finisse il mese. Ma v'hanno altri detti che risalgono ad usanze più antiche e più difficili a rintracciare, e che è bene venir illustrando. Quando, per esempio, leggiamo tra i proverbj fiorentini quel pane e noci, pasto da sposi, che è il pretto milanese, pan e nós, mangià de spôs, sarebbe utile notare questo scontro d'un'idea che non può essere fortuita nei due popoli, e che rammenta probabilmente in entrambi il vecchio costume romano di gettar noci ai fanciulli negli sponsali, quasi a simboleggiare il rigetto d'ogni giovanile frivolezza. É siffatti adagi, che si collegano a perdute tradizioni o a riti e cerimonie di tempi antichissimi, domanderebbero una ricerca ed un'illustrazione, che il Giusti non ebbe nè tempo nè disegno di compire. — (Dalle Prose e Poesie scelte, vol. ÎI, pag. 135.)

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GIOVANNI DUPRÈ

Di famiglia venuta in Toscana coi Lorenesi, figliuolo ad un intagliatore in legno, nacque in Siena il 1° marzo 1817.1 Studio l'arte paterna in Firenze e in Siena; ma il suo genio lo portava alla scultura, e vi si diede con passione, nel tempo stesso che impalmava una giovane da lui amata, la quale gli fu ispiratrice all'arte e conforto nelle prove difficili della vita. Vinto un concorso di bassorilievo, immaginò e modellò nel 1842 un Abele, che gli suscitò contro le invidie degli emuli, i dispregj degli accademici, e la calunnia di averlo modellato sul vero: ma che ebbe l'approvazione del gran Bartolini e fe' nascere di lui le migliori speranze. Vi accompagnò l'anno appresso il Caino, e così la sua fama fu assicurata. Ebbe la protezione di Leopoldo II, che gli ordinò fra le altre cose il piedistallo, non mai condotto in marmo, ad una gran tazza egiziana, nel quale ei mostrò non solo la valentia della mano, ma anche l'altezza della mente. Fece di poi il Giotto, il Pio II, il Sant'Antonino, il vaghissimo Bacco della Crittogama, il monumento Ferrari nella chiesa di San Lorenzo, la Saffo e la Baccante stanca, ambedue fra le sue cose più belle, la mirabile Pietà pel camposanto di Siena, il Monumento a Cavour in Torino, troppo complicato e farraginoso, il Trionfo della Croce per la facciata della chiesa di Santa Croce a Firenze, che segna il suo più alto fastigio nell'arte, la statua di San Francesco in Assisi, e molti altri lavori, pei quali si meritò il primato fra gli scultori del suo

1 I cognome della famiglia, come risulta da atti legali, era Douplais: Giovanni usò egli medesimo la forma Duplè che è costantemente usata, per esempio, nella Raccolta delle prose e poesie edite ed inedite che compar rero nell'occasione in cui Siena celebrava il breve soggiorno in patria di Giovanni Duplè nell' agosto del 1848 (Siena, tip. dell' Ancora).

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