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e volle mostrarsi, fra tante belve imperiali, uomo e cristiano. Narrano ch'egli, sentendo minacciata da' suoi saccardi la chiesa di Santa Affra, ove si erano ricoverate molte donne, accorresse a guardia della soglia, che la religion del luogo avrebbe mal difesa, e vi rimanesse lagrimando finchè i suoi non furono passati oltre. Certo è che egli diede buoni conforti e consigli al Municipio, e fece opera che gli venisse conceduta la guardia dei gendarmi; ciò che non fu piccolo beneficio. Così anche alcuni altri ufficiali, che nel verno avevano avuto le stanze in Brescia, accorsero per salvare dal sacco le case degli ospiti. Ma l'Haynau non diè segno alcuno che il valore, e la sventura, e la patente giustizia della causa avessero ammollito la sua ferocia; sicchè parve piuttosto aver l'animo a vendicarsi, che a vincere ed a governare.

Il lunedi adunque egli, quasi per sopraggravare il dolore dei Bresciani, mandò fuori un bando che multava la provincia, la quale veramente aveva la colpa di non essersi mossa. Fu la multa di sei milioni di lire; e la città, due volte ribelle, ebbe per soprassello una tassa di 300,000 lire, destinate a compenso e premio degli ufficiali. Poi il comando della città passò al tenente maresciallo Appel, capo del terzo corpo d'esercito, il quale alle due pomeridiane entrò in Brescia, e subito chiese del Municipio. Il Sangervasio e i suoi due giovani assistenti volentieri v'accorsero, sebbene non fosse senza loro pericolo, e modestamente ricordavano all' Appel, essersi la città data sotto fede che sarebbersi rispettati gl'imbelli, i rassegnati, gl'inermi: e però pregavano che si frenasse la licenza militare, che le porte e le vie della città si liberassero ai commercj, e che anche nel punire non si procedesse più a capriccio, e a furore di soldati. Aspramente rispose il Tenente Maresciallo: Non essere tempo di misurati consigli, ma di rigida giustizia; i municipali non a parlar di patti e a muover querele, ma pensassero invece a dargli in mano i capipopolo, o a denunciarglieli; a far subito sparire ogni traccia delle infami barricate, a riaprir le botteghe, a rassettare il selciato. Conceder loro per questo un termine di 6 ore, e facoltà di usar co' renitenti la forza e le pene; badassero però che anch'essi colla forza e colle pene sarebbero stati astretti a compiere l'ufficio loro. Cosi li accommiatò minacciando. Poco dopo il Sangervasio, avuto per indizj e per avvisi certezza che volevano mettergli le mani addosso, dovette trafugarsi fuor di città. Rimasero i due suoi colleghi; i quali con bandi e con messi sollecitarono i bottegaj a riaprire i loro fondachi, mostrando loro come quella clausura irritasse il nemico e offrisse pretesto d'usar violenza. Ma più di questi conforti valse il pensiero d'assoldare sentinelle e postarle a guardia delle botteghe: frenando così colla religione della disciplina quelle orde ubriache di sangue.

Intanto alla tumultuaria carneficina succedera, nacvo argomento di terrore, la carneficina ordinata. Svanerai e Siccardi, bracchi di polizia, appena liberati dalle carceri, ove il popolo avea loro perdonato la vita, entrarono in caccia; e quanti fossero in voce o di più caldi amatori della patria, o di più intrepidi al fuoco, venivano fiutati, cercati, e, se per loro mala ventura presi, erano nel giro di poche ore tratti in castello o nelle caserme, bastonati, martoriati, e infine fucilati e buttati nelle fosse o sotto i bastioni, ove più giorni se ne videro, quasi per orribile pompa, i cadaveri insepolti. Mal si potrebbe dire quanti a questo modo mancassero: ma la fama li reca presso a un centinaio. Infine, tre giorni dopo, il Tenente Maresciallo promise, e gli parve clemenza, che da quel di in avanti nessuno più sarebbe passato per l'armi senza i soliti processi. Tanto s'erano gli animi imbestiati, e alterate le menti, che il tornare all' enormezza de' giudizj marziali dovesse parere un beneficio..

Sebbene la carneficina e i distillati tormenti avessero per modo inorriditi i cittadini che non pochi si precipitarono alla fuga da incredibile altezza, o cercarono morte più riposata buttandosi sulle armi nemiche, pure, anche in mezzo allo spavento ed al furore, che suole imbestiare gli uomini, si vide sempre segno della forte ed amorevole natura di questo popolo. Alle famiglie cacciate dalle loro case ed errabonde per le vie, ai fuggenti, ai proscritti, non furono mai chiuse le porte dai cittadini, benchè non si potessero aprire senza presente pericolo di veder irrompere dietro gl'inseguiti i persecutori. Anzi in que' dì nefasti pareva che niun'altra gloria conoscessero i Bresciani e niun`altra consolazione volessero se non quella d'ospitare qualche martire della patria: e molte famiglie che prima erano sembrate tiepide alle speranze, si mostrarono ferventi ai pericoli della carità. E se ne videro esempj notabili anche nel saccheggio. Poichè avendo i soldati aperto delle loro ladronaie un mercato fuori di porta Torrelunga d'intorno al Rebuffone, ove vendevano all'impazzata quello che loro aveva dato nelle ugne, fino a spacciare per una lira un sacco di riso, e per cinquanta una coppia di buoi, molti accorsero a comperare, fingendo d'esservi tratti dalla ingordigia del buon mercato, i quali poi andavano cercando i danneggiati e loro restituendo il mal tolto. E fra gli altri, moltissime robe ricomperò e diligentemente restitui un'ostessa, che come bella e giovane era stata trascinata da' soldati fra le prede, e che, senza lasciarsi accasciar dalla vergogna e dal dolore, volse la sventura propria in soccorso de' suoi concittadini.

E certo a frenare gli animi indomiti più valse la pietà, chè la paura. E pur troppo spesso nelle case del popolo gli uomini, dopo avere per carità delle donne e dei figli

patito alcun tempo l'oltracotanza di nemici, vinti a un tratto da qualche più acerba trafittura, riafferravano le armi, e morivano vendicati. Spesso anche i cittadini, che da più ore s'erano abbarrati nelle loro case, uscirono fuori di nuovo ai pericoli per soccorrere feriti, od accorrere agli incendj. Perchè è da notare che, anche in questo estremo, i Bresciani sdegnosamente rifiutarono che gli stranieri mettesser mano a soccorrere la città dopo averla rovinata, ed una volta che i soldati fecero vista di mescolarsi co' cittadini per combattere le fiamme che minacciavano d'incenerire tutto un quartiere, furono accolti con imprecazioni e con atti di orrore, sicchè dovettero restarsene.

E certo nè allora nè poi risero di Brescia gli stranieri, o il riso non passò loro la strozza; come avvenne di quei Croati che messe le mani addosso ad un povero operaio, deliberarono d'arderlo a diletto, parendo loro che, per essere di poco corpo e sciancato, dovesse egli opporre minor contrasto, e forse morire con più risibili contorcimenti. Carlo Zima è il nome non perituro di quel forte popolano, il quale, come fu impeciato ed infiammato, s'avvento ad uno di quei manigoldi e l'avvinghiò per modo, che arsero e morirono assieme.

Così cadeva Brescia gloriosa e vendicata. Dieci giorni durò in sull'armi; spesso vincente, e non vinta affatto se non colle insidie. Caso unico forse negli annali guerreschi, se si pensa che la città, non popolosa di più di trentacinque mila persone d'ogni sesso e d'ogni età, aveva come un brulotto confitto ne' fianchi il castello incendiario, e di più in sulle porte e padrona della campagna l'oste nemica, che crescendo man mano, in sull'ultimo toccava le venti migliaia di soldati stanziali. A questi appena è che si potessero opporre due in tre migliaia di fucili in mano di cittadini e di valligiani, nuovi tutti alla guerra, se ne togliamo le bande dei disertori: il resto sassi, tegole e coltelli. Lontani i patriotti più autorevoli, lontana tutta la gioventù più animosa e più esperta dell'armi, scarso l'erario, le mura indifese, non un cannone, nè un nodo di milizie regolari, nè un ufficiale d'esperienza, col quale consigliarsi. E nondimeno o sul campo, o di ferite negli ospitali, mori un migliaio e mezzo di nemici; e fra questi un tal numero di ufficiali (che a nostra notizia furono 36), da provarci qual fosse l'accanimento del combattere e il terror del soldato, a muovere il quale, dopo ch'ebbe assaggiato di che sapessero i Bresciani, bisognarono stimoli di fieri castighi, d'insolita emulazione e d'infami promesse. Fra i morti tre capitani, un tenente colonnello, due colonnelli e il general Nugent, che prima di rendere l'anima a Dio chiamò nel suo testamento legataria la città di Brescia: non sappiamo se per jattanza soldatesca, o per rimorso.

Più volte il castello saettò l'incendio e la morte sulle case cittadine: delle quali trecento furono consunte dal

fuoco, o guaste; e il danno passò i dodici milioni di lire. Piovvero mille seicento bombe e palle; alcune di pietra, le quali furono cagione a sperare, che il Leschke avesse dato fondo alle munizioni; ma poi si vide che fu per pitoccheria. I vincitori, non contenti alle multe, ai saccheggi, ai danni dell'incendio ed alle tasse di guerra di sei milioni e mezzo, mandarono al Municipio la polizza dei proiettili e della polvere, chiedendo che la città ne pagasse le spese. Oltrediché gli intimarono di razzolare altri danari per piantare in sulla piazza maggiore un monumento trionfale ai soldati caduti sotto Brescia. E sta bene. I circa seicento Bresciani che ci morirono (e più di metà furono donne, fanciulli o inermi presi e martoriati a furore, ovvero assassinati dai giudizj militari a dispetto delle condizioni della resa) vennero spazzati via alla rinfusa: e di molti non si trovò il nome o il cadavere. Ma è da sperare che Dio li avrà in misericordia, e i posteri in onore e che verrà giorno in cui l'Italia potrà farne degnamente i funerali. (Da I dieci giorni dell'insurrezione di Brescia nel 1849, negli Scritti scelti, II, pag. 157 e segg.)

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GIOVANNI PRATI.

Gli fu patria Dasindo nel Trentino, ove nacque ai 27 gennaio 1815: nell'anno in che Luigi Portò dentro Parigi La Carta

lano, dove conobbe il Manzoni, il

e lo stranier. » Studio legge a Padova, coltivando però sempre la poesia, a cui era nato; si sposò giovanissimo, ed ebbe dopo cinque anni il dolore, ch' ei senti ed altri non rispettò, di perdere la sua Elisa. Primo componimento poetico che levasse alta la sua fama

fu l'Edmenegarda (1841), dove narrò, in cinque canti in sciolti, una tragedia di amore colpevole, avvenuta in Venezia, e della quale era protagonista una sorella di Daniele Manin; il nuovo poeta fu salutato con entusiasmo, dai giovani e dalle donne in specie.' Si recò a MiTorti, il Grossi, ed ivi stampo

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i Canti lirici, i Canti pel popolo e le Ballate, che accrebbero la

1 Sui primi anni e i primi scritti del Prati, vedi V. MALAMANI, in Frammenti di vita veneziana, Roma, Bontempelli, 1893.

sua rinomanza: i primi, per certa altezza un po'nebulosa di concetti sull' Uomo, la Donna, l'Arte cristiana, la Carità fraterna, il Poeta e la Società - tali ne erano i principali argomenti; - i secondi, per l'intento di educare e moralizzar le plebi, e dalle fresche onde del sentimento popolare trarre nuovi rivi poetici; le ultime, per i riflessi del romanticismo tedesco in esse contenuti; tutti, per facilità di metri e copia di vena. Nel '43 passò a Torino, ove ebbe festose accoglienze, e il Re gli commise un inno guerriero, dove profetò Carlo Alberto e il suo destino », ed accennò a battaglie per la redenzione d'Italia: scrisse anche, in prosa, le Lettere a Maria, ad illustrare una esposizione di belle arti. Nel '44 mise a luce altri volumi di poesie: Memorie e lacrime e i Nuovi Canti, e tornato nel Veneto, nel '46 a Padova, le Passeggiate solitarie. Quest' abbondanza di versi, di nota generalmente elegiaca, spiacque ai critici più severi, e il Tenca, fra gli altri, prendendo occasione da quest'ultimo volume, fattane una spietata notomia, gli rimproverò nella Rivista Europea del febbr. '47, di addormentare gli spiriti nella fiacchezza dei melodiosi sospiri e nelle allucinazioni di una vita tutta fantastica ».1 Ma più alto segno che i dolori individuali offrivano ormai al Prati i dolori e le speranze della patria in quei primi albóri del risorgimento, ed ei cantò Pio IX e Carlo Alberto, augurando Italia « una Di sensi e di fortuna. Il governo austriaco lo incarcerò e bandì, come poco dopo lo incarcerarono e bandirono i reggitori della risorta repubblica di Venezia, accusandolo di albertismo. Riparò in Toscana, e anche di qui, dopo esser stato aggredito e malmenato in pubblico ritrovo, e per avere nel Circolo politico fatto aperta professione di opinioni avverse all'incalzante democrazia, venne, quantunque malato, espulso dal Guerrazzi, che ne informò il Principe, raccattando ignobili calunnie, e dipingendolo avvelenatore della moglie e agente straniero ». Dell'oltraggio si vendicò col carme Dolori e giustizie, ove sclamò: « dissero .... Che il fulgid'or d'Alberto I canti miei comprò.... Vili! le meste pagine Rigo de' miei sudori, Ma non ha gemme ed ori Per comperarle un re » ; e con una Lettera ai giornali che si dicono democratici. Rifugiatosi in Piemonte, cantò i morti di Novara, il ritorno delle ceneri di Carlo Alberto e lo Statuto, imprecò al fedifrago Borbone, e porse saggi ammonimenti a Luigi Napoleone dopo il colpo di Stato. Contro i demagoghi aveva scritto un vivace dia

L'art. è riprodotto in Prose e poesie scelte, Milano, Hoepli, 1888, I, 151. 2 Vedi A. NERI, La carceraz. di G. P. nel '48 a Padova, in De minimis, Genova, tip. Sordo-muti, 1890, pag. 306.

3 Vedi Seduta del Circolo politico di Firenze del 13 novembre 1848, Firenze, tip. Galileiana.

⚫ Lettere, ediz. Martini, I, 282. — Vedi G. SFORZA, G. P. in Toscana nel 1848, in Riv. stor. del Risorg. ital., III, pag. 841.

Vedi V. BERSEZIO, Il regno di Vittorio Emanuele, Torino, Roux, 1892, VI, 131.

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