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dirai, che l'anima mia sarà sempre con voi tutti e tre, che io vi vodo, che io vi sento, che io seguito ad amarvi, come vi amava e come vi amo in questa ora terribile. — lo lascio ai miei figliuoli l'esempio della mia vita ed un nome che ho cercato sempre di serbare immacolato ed onorato. Dirai ad essi che ricordino quelle parole che io dissi dallo sgabello nel giorno della mia difesa. Dirai ad essi che io benedicendoli e baciandoli mille volte, lascio ad essi tre precetti; riconoscere ed adorare Iddio; amare il lavoro; amare sopra ogni cosa la patria. Mia Gigia adorata, eran queste le gioie che io ti prometteva nei primi giorni del nostro amore, quando ambedue giovanetti, tu a quindici anni con invidiata bellezza e con rara innocenza, ed io a vent'anni pieno il cuore di affetti e di speranze, e con la mente avida di bellezza, di cui vedeva in te un esempio celeste, quando ambedue ci promettevamo una vita di amore, quando il mondo ci pareva così bello e sorridente, quando disprezzavamo il bisogno, quando la vita nostra era il nostro amore? E che abbiamo fatto noi per meritare tanti dolori, e tanto presto? Ma ogni lamento sarebbe ora una bestemmia contro Dio, perchè ci condurrebbe a negare la virtù, per la quale io muoio. Ah Gigia, la scienza non è che dolore, la virtù vera non produce che amarezze. Ma pur son belli questi dolori e queste amarezze. I miei nemici non sentono la bellezza e la dignità di questi dolori. Essi nello stato mio tremerebbero: io sono tranquillo perchè credo in Dio e nella virtù. Io non tremo: deve tremare chi mi condanna, perchè offende Dio.

» Ma sarò io dannato a morte? Io mi aspetto sempre il peggio dagli uomini. So che il Governo vuole un esempio, che il mio nome è il mio delitto, che chi ora sta decidendo della mia sorte ondeggia tra mille pensieri e tra mille paure: so che io sono disposto a tutto. Sarò sepolto in una galera, con un supplizio peggiore e più crudele della morte? Mia Gigia, io sarò sempre io. Iddio mi vede nell'anima, e sa che io non per forza mia, ma per forza che mi viene da lui, sono tranquillo. Vedi, io ti scrivo senza lagrime, con la mano ferma e corrente, con la mente serena; il cuore non mi batte. Mio Dio, ti ringrazio di quello che operi in me: anche in questi momenti io ti sento, ti riconosco, ti adoro, e ti ringrazio. Mio Dio, consola la sconsolatissima moglie mia, e dalle forza a sopportar questo dolore: mio Dio, proteggi i miei figliuoli, sospingili tu verso il bene, tirali a te, essi non hanno padre, son figli tuoi: preservali dai vizj essi non hanno alcun soccorso dagli uomini: io li raccomando a te, io prego per loro. Io ti raccomando, o mio Dio, questa patria; da senno a quelli che la reggono, fa' che il mio sangue plachi tutte le ire e gli odj di parte, che sia l'ultimo sangue che sia sparso su questa terra desolata.

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» Mia Gigia, io non posso più proseguire, perchè temo che il cuore non mi vinca: io non so se potrò più rivederti.

» Addio, o cara, o diletta, o adorata compagna delle mie sventure e della mia vita. Io non trovo più parole per consolarti, la mano comincia a tremare. Abbiti un bacio, simile al primo bacio che ti diedi. Danne uno per me al mio Raffaello, uno alla mia Giulia, benedicili per me: ogni giorno, ogni sera che li benedirai, dirai loro che li benedico anche io. Addio. - Tuo marito Luigi Settembrini. » . . . .

Dopo una lunga ora di strazj, ci fecero entrare nella stanza di udienza, e ci chiusero fra i due cancelli di ferro che ivi sono; fatti venire per udire la decisione ancora Giuseppe Caprio ed Emilio Mazza, che stavano nella carcere comune del popolo. Dopo alquanti minuti entra un vecchio usciere seguito da varj ispettori, da custodi, da sbirri, e con le lagrime agli occhi e con voce tremante legge: La G. Corte condanna alla pena di morte S. Faucitano, L. Settembrini, e Filippo Agresti..

Dopo la lettura io dissi: Ringraziate la Corte in nome di L. Settembrini. Ringraziatela anche a nome di Agresti, rispose Filippo: e cosi dissero ancora il Faucitano, il Pironti, e gli altri. L'usciere andò via. Allora Filippo si tolse l'orologio e i denari che aveva in tasca, un anello che aveva al dito, diedelo a Michele e disse: Darai questo alla mia povera Alina. Io gli diedi anche il mio orologio ed alcune monete, e lo pregai di darlo a mia moglie. O che momento fu quello! Pironti piangendo a singhiozzi ci abbracciava, ci stringeva, diceva: Luigi mio, Filippo mio, mio Salvatore, io voglio venire con voi, voglio morire con voi! perchè mi hanno separato da voi? Ah, io non potrò rimanere senza di voi! E quando lasciava uno per abbracciar l'altro, ci sentivamo stretti ed inondati di lagrime or da V. Esposito, or da G. Caprio, or da E. Mazza, che dicevano: Perchè soli tre a morte, e non tutti? - Io non so se i custodi o altra gente ci guardavano, e che sentivano: nessuno ci diceva alcuna cosa. Filippo disse a Michele: Ricordati di te stesso, questo pianto sconviene. Io confortava il povero amico, Confortava gli altri; ma poichè vidi che il dolore e le lacrime crescevano e che qualcuno avrebbe potuto goderne, dissi al custode: Apri. Addio Michele, addio tutti. E seguito dagli altri due entrai nell'estra-cappella. Erano due ore e mezzo dopo il mezzodi. — (Dalle Ricordanze, vol. II, pag. 5 e segg.)

CESARE CORRENTI.

Ne' tempi in che l'Austria tornava a dominare sulla Lombardia, ai 3 gennaio 1815, nasceva in Milano il Correnti, e fin da giovane si educò con altri coetanei, sui quali emergeva per altezza d'in

gegno e assiduità di studj, al culto della patria. Presa in Pavia la laurea in giurisprudenza, ebbe un ufficio alla direzione del Debito pubblico, dando tutto il tempo che gli restava libero a lezioni private e a scrivere, nelle strenne e nei giornali, specie nella Rivista europea e negli Annali di statistica, articoli letterarj ed economici. Si acquistò stima ed affetto fra la gioventù, e fu uno dei capi più autorevoli della parte liberale. Nel '45 stampò anonimo, colla data d'Italia, il libro L'Austria e la Lombardia, in che coll'eloquenza delle cifre e col calor della parola mostrò quali fossero le condizioni della patria, oppressa dallo straniero. Prese parte alla lotta delle cinque giornate, e fu segretario del governo provvisorio; e sebbene di principj repubblicani, ne fece sagrificio alla concordia degli animi e alla buona riuscita dell'ardua impresa, sostenendo tuttavia i partiti più larghi ed audaci. Fu a Ferrara a confortare il general Pepe al passaggio del Po: andò a Venezia a stringere accordi; ritornati gli Austriaci a Milano fu sempre in moto, raccogliendo danari per Venezia assediata, mantenendo vivi gli spiriti alla riscossa. Dopo la catastrofe di Novara, si ridusse a Torino, dove visse in onorata povertà, campando del suo lavoro; suoi sono nella Enciclopedia del Pomba gli articoli Dante ed Europa. Eletto deputato di Stradella, che gli ripetè il mandato fino al 1859, sedè a sinistra, e cooperò al Progresso e al Diritto, che di cotesta parte politica sostenevano le dottrine: e intanto, a tener saldi gli animi oltre il Ticino, compilava l'almanacco intitolato Il nipote del Vesta-Verde (Milano, Vallardi, 1848-59), pieno di nobili sensi e di utili notizie, e soprattutto di allusioni, colte a volo nell'intimo significato dai suoi concittadini: scritto, ei dice, in italiano, ma che doveva esser capito in milanese e indovinato in tedesco. Dai suoi colleghi nella Camera si distaccò nel '55 per avvicinarsi al Cavour, sostenendo con eloquente discorso la spedizione di Crimea, come poi il trasporto della marina militare alla Spezia (1857), e le leggi contro l'apologia dell'assassinio politico (1858). Liberata la Lombardia, ebbe molteplici ufficj, finchè rientrò alla Camera, ove rappresentò dalla terza alla nona legislatura, il terzo collegio di Milano. Nel Parlamento fu relatore di leggi importantissime: sul reclutamento dell'esercito (1864), sul riordinamento delle reti ferroviarie (1865), sui provvedimenti straordinarj pel tesoro (1866), sul traforo del Gottardo (1869), ec., in ogni questione portando ricco tesoro di idee e di fatti, e altezza di concetti politici ed economici. Nel '67 (17 febbr.-10 aprile) fu per pochi mesi ministro dell'Istruzione pubblica col Ricasoli; più a lungo (14 die. 1869-maggio '72) nel ministero Lanza, e ne uscì nobilmente. Nel marzo 1876 ebbe gran parte alla rivoluzione parlamentare, che portò la sinistra al potere, e compilò pel Depretis, del quale divenne la fedele Egeria, il famoso discorso di Stradella. Negoziò anche a Basilea le modificazioni alla convenzione pel riscatto delle ferrovie. Nelle elezioni generali di cotest'anno, combat

tuto dai moderati, che gli rimproveravano il ritorno ai vecchi amori, riuscì eletto a stento; in quelle del 1886, avversato anche dai più avanzati, ai quali pareva troppo moderato, non riuscì affatto, e fu nominato senatore. Ebbe ufficj e incarichi molti e varj: fu consigliere di Stato, e rappresentante ufficiale dell'Italia ad esposizioni e congressi internazionali; presidente dell'Istituto storico italiano, e della Commissione per gli archivj; pel voto di colleghi, presidente della Società geografica italiana. Ai 19 aprile 1877 fu assunto primo segretario di S. M. pel Gran Magistero mauriziano. Morì ai 4 ottobre 1888, e la salma ne fu trasportata solennemente a Milano. È da dolere che non lasciasse un'opera alla quale sia durevolmente affidato il suo nome: a ciò nocque la condizione de' tempi in che visse, e la viva partecipazione ai fatti politici, tutto avendo egli subordinato al risorgimento della patria. « Così come siamo,» scrisse egli dirigendosi alla nuova generazione, « cuore o cervello, merito o fortuna, noi si è riuscito a farvi liberi; a farvi grandi pensateci voi. » Gli nocque anche l'avidità di sapere molte e disparate cose, e tutte a fondo, e l'incontentabilità di scrittore. Lo stile suo è pieno di nerbo e denso di pensiero: fu detto che lo tornisse, come il Cellini i suoi lavori d'orafo; ma qualche volta la troppa finitezza e la soverchia fioritura sentono l'artifizio. Gli Scritti suoi, scelti e in parte inediti o rari, raccolse amorosamento in quattro volumi T. MASSARANI (Roma, Forzani, 1891-94); e il primo di essi contiene prose e poesie giovanili e studj sociali e politici; il secondo, scritti politici e storici (fra i quali la narrazione dei Dieci giorni di Brescia) e gli articoli del Vesta-Verde; il terzo, i lavori e dibattiti parlamentari; il quarto, studj filosofici e letterarj, e scritti di storia, di geografia e di statistica (notevoli un discorso su C. Colombo, e il primo libro della Storia della Polonia, rimasta interrotta).

[Per la biografia, vedi A. ALLIEVI, C. C., Commemorazione alla Società geogr. ital., Roma, tip. dell'Opinione, 1889; E. GUASTALLA, C. C., conferenza al Circolo filolog. milan., Milano, Hoepli, 1889; G. CANTONI, C. C., nel Rendic. dell'Istit. lombardo, seduta del 10 aprile 1890; L. CARPI, nel Risorgimento italiano, Milano, Vallardi, 1888, IV, 529; e sopra tutti, T. MASSARANI, C. C. nella vita e nelle opere, Roma, Forzani, 1890.]

.. Oramai

Fine della rivoluzione di Brescia nel 1849. non ci rimane a narrare che il martirio di Brescia; e saremo brevi come ce lo comanda il dolore ed il pudore delle ingiurie invendicate. Il mattino del lunedi 2 aprile, illuminando le opere della notte e destando alle usate cupidigie la soldataglia, crebbe orrore allo spettacolo della violata città, e terrore negii abitanti. Quei pochi che s'attentarono ad uscir dal chiuso, benchè inermi e in atto di suppliche

voli, venivano minacciati, percossi, rubati; alcuni che recando il fucile disarmato ed arrovesciato verso terra s'avviavano al Municipio per liberarsene (poichè i saccomanni mettevano al fuoco e al filo della spada quelle case ove trovassero armi), vennero in sull'atto fucilati dagli Imperiali; nè loro valse pregare e chiamare in testimonio Dio e i patti della resa. Onde tutti, aspettando il saccheggio e la morte, stavano, come la notte innanzi, rintanati ed agonizzanti. Non porta, non bottega, non finestra aperta, se non dove divampavano gl'incendj, o dove le avevano fracassate i rapinatori. Quasi in niun luogo delle dolorose muraglie potevansi riposare gli occhi, che non vedessero solco di palla o di scure, traccia di fuoco o macchia di sangue. Per le vie, smosso e spezzato il lastrico di granito, sconvolto l'acciottolato, mura squarciate dalle bombe, tetti crollanti, avanzi di barricate, che, alle materie ricche talora e gentili di cui erano composte, e alla fretta con cui poi erano state atterrate e disperse, ancora serbavano indizio del primo entusiasmo e dell'ultimo spavento; scarchi di stoviglie e d'arredi rotti e sperperati come dalla pazza furia d'un turbine; e qua e là cadaveri di Bresciani e di soldati già da molte ore insepolti; e talora gruppi di donne e di fanciulli accovacciati in qualche angolo remoto, fissi, muti, istupiditi, i quali, dando immagine della morte dell'anima, erano più strazianti a vedere che i cadaveri.

Gl'incendj duravano tuttavia, e minacciavano di stendersi a tutta la città; nè le violenze dei soldati cessavano. Il Municipio chiese in carità che gli venissero restituite le macchine idrauliche, e l'ottenne. Chiese una guardia pel palazzo di città e pe' suoi impiegati, che più volte erano stati manomessi dai soldati e perfino dagli ufficiali; e anche questo gli fu consentito. Allora si cominciò a rifiatare e a dare qualche provvedimento. Ma troppo più facile era frenare gl'incendj, che ammansare gli animi inferociti dei vincitori; massime con animi si repugnanti alla viltà delle supplicazioni come sono i Bresciani; e con quel soprarrivare ad ogni ora di nuove soldatesche, le quali spargevansi per città a spigolare il saccheggio e la carneficina, e spiando i lamenti delle donne, i gemiti dei feriti, e le voci sommesse, che uscivano di sotterra ove si erano rifugiati i più timidi, e sognando in ogni suono l'ingiuria o la minaccia, da tutto cavavano pretesto di forzar le porte e d'insanguinar le mani. E cosi alcuni che da più giorni si erano rimbucati per le cantine, furono allora malconci o morti. Nè i generali e gli ufficiali superiori si mostravano solleciti dell'onore o dell'umanità se appena se ne eccettuano alcuni pochi. E tra questi, se le nostre lodi non gli nuociano, vogliamo menzionare il colonnello Jellachich, fratello che è del troppo celebre bano, il quale parve vergognarsi e dolersi dell'abbominio in che gli Italiani hanno il nome della sua gente,

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