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concesse nella seduta parlamentare del 9 dicembre 1861, quando gli furon mosse false accuse, di pronunziare altamente ed impunemente quell' audace parola «Siamo onesti, che significava : Siate onesti; e che tante volte dipoi avrebbe dovuto risuonare nell'aula, se meglio non sarebbe scrivervela a grandi caratteri, sicchè ognuno l'avesse presente, se non alla coscienza, agli occhi. Uscito adunque dal Ministero, ritemprò nell' aere vivo e libero della villa l'animo contristato dalle miserie sempre crescenti della vita pubblica. Aveva, come dicemmo, perduto la moglie, ma al forte dolore allora provato gli era stato di conforto l'attendere alla educazione intellettuale e morale dell' unica figlia, per farne una madre come conviene; » senonchè, nel 1865 perdeva anche la figlia; l'Italia era fatta, se pur anche non quale egli l'aveva ideata e sperata; erano morti anche quanti con lui avevano cooperato al risorgimento italiano: Cavour, Farini, La Marmora, Vittorio Emanuele si sentiva solo superstite di una generazione spenta. Nel Parlamento erano entrati deputati nuovi e sempre meno preclari per servigj resi e per virtù d'ingegno e d'animo. Nella seduta del 17 maggio '73 un deputato, al quale sarebbe render immeritato servigio dicendone il nome, lo interruppe dicendogli: «Avete fatto la reazione in Toscana; » ma alla goffa accusa ei rispose imperterrito: «Io ho la fortuna di non lasciarmi sopraffare da nessun assalto, perchè posso forse sentire gli effetti degli anni nel mio corpo, non nell' anima mia. Io sono sereno e quieto nella mia coscienza. Io non ho mai aspettato giustizia dagli uomini, non ho mai aspirato agli onori nè alla popolarità; ho solamente voluto avere la coscienza tranquilla nella solitudine delle quattro mura della mia camera. Nient' altro rispondo a quel signore, che è pur sempre mio collega e che rispetto, che c'è ancor più sproposito, mi perdoni, nella sua proposizione, che non sarebbe se io dicessi al contrario che ho fatta l'Italia. » E romoreggiando la parte a cui era ascritto il grottesco interruttore, riprese: « Possono dire, tanto non mi disturbano. Le loro parole non mi colpiscono. Se anche mi ingiuriassero, non mi turberebbero ancora: ma salirei più alto per farmi vedere da tutti, come Socrate in teatro, quando si rappresentava una commedia di Aristofane, che lo metteva in ridicolo. Ritorniamo all' argomento. E in queste parole c'è tutto intero l'uomo. Già da qualche tempo infermo del cuore si accorse allora soltanto, come scrisse a un amico, di « avere il corpo, » egli che, duro con sè stesso, parco, schivo d'ogni delicatezza, l'aveva fino allora domato coll'energia del volere: mori a un tratto, scrivendo una lettera, nel castello di Brolio ai 23 ottobre 1880. Ivi fu sepolto, per sua volontà, con modestissima lapide; Firenze inalzò nel 1898 una statua a Bettino Ricasoli in piazza dell'Indipendenza, insieme e di fronte all'altra statua eretta a Ubaldino Peruzzi.

[Vedi Lettere e Documenti del b. B. R., pubblic. per cura di M. TABARRINI e A. GOTTI, X vol., Firenze, Le Monnier, 1887-95,

e su questa pubblicazione, gli artic. di G. FINALI, nella Nuova Antologia dei 1° ott. '86, 1° agosto '87, 1° marzo '89, 1° ott. '90, 1o ott. '91, 15 giugno '92, 15 febbr. '94, 15 nov. '94, raccolti poi in La vita politica di contemporanei illustri, Torino, Roux, 1898, p. 1–247, non che lo scritto di D. ZANICHELLI in Arch. Stor. Ital., serie V, XIX, 205. Per la biografia, più specialmente F. DALL'ONGARO, B. R., Torino, Unione tip., 1860 (su una copia di questa, il Ricasoli stesso fece importanti postille, e la donò all'amico suo Sansone D'Ancona, che poi la depositò nella Nazionale di Firenze: vedi su queste postille, A. GOTTI, nella Rivista Europea, 16 nov. 1880, ed E. DEL CERRO, in Fanfulla della Domenica, 29 aprile 1894); M. TABARRINI, Vite e Ricordi di illustri ital., Firenze, Barbèra, 1884, pag. 360; A. GOTTI, Vita del b. B. R., Firenze, Succ. Le Monnier, 1894.]

Doveri del cittadino verso la patria (Discorso alla Camèra dei Deputati nella seduta del 10 aprile 1861). — Quando si siede in quest'Assemblea, solo l'interesse generale deesi avere in vista; a questo ogni interesse privato dee cedere. Fra gl'interessi privati comprendonsi pure certe pusillanimità, certi timori di affrontare gli argomenti che suscitano passioni ardenti. Non saprei concepire un Governo di liberta, un Governo che ha da operare alla luce del giorno, contornato da misteriosi procedimenti, trattando a mezzo gli argomenti dei più vitali interessi della nazione o schivando quei soggetti che suscitano passioni ardenti; e gli onorevoli miei colleghi conoscono appieno come da più mesi l'argomento dell'esercito dell'Italia meridionale sia dalla stampa periodica trattato con calore e con parole vive, e in modo da toccare molti interessi e accendere molte passioni. Ben si comprende come in mezzo a questi attriti la verità non possa emergere in tutta quella luce che le si conviene. Credo che questa verità stessa non sia pienamente raggiunta; non lo è da me, per esempio, neanche da molti degli onorevoli miei colleghi.

Il Parlamento non potrebbe o ignorare affatto o sapere a mezzo quello che riguarda gl'interessi più vitali della nostra Nazione. Quindi, dopo aver lungamente considerato nella coscienza se io doveva muovere questa interpellanza, non ne ho avuto più dubbio dopo la discussione di quest'oggi. Dopo questa discussione fui persuaso che negli stessi intendimenti miei dovesse essere l'intiero Ministero, il quale, mosso da sentimenti, di cui non si può punto dubitare che siano italiani, come quelli che muovono tutti noi, non può non essere convinto della ragionevolezza di questo desiderio e di questi motivi. Io non ho avuto più allora a titubare intorno alla mia decisione, ed ho immediatamente risoluto che dovessi in questa stessa seduta domandare al presidente del Consiglio dei ministri, che voglia scegliere un giorno nel

quale dare piena, ampia spiegazione di quanto è stato fattc a riguardo dell'esercito meridionale e dell'illustre suo capo, non meno che di quello ch'egli intenda di fare nell'avvenire.

Sappiamo bene che se gl'italiani sono orgogliosi delle gesta, del valore, del coraggio, della tattica, della sapienza militare, di cui hanno data prova le milizie regolari e gl'illustri generali che le hanno comandate e guidate alla vittoria, non meno è orgogliosa la Nazione, non meno ogni cuore italiano batte per la gloria che l'esercito de'volontari s'è acquistata, e per la magnanimità di cui ha data prova.

È ben naturale che un argomento cosiffatto debba preoccupare questo Parlamento. Credo pure che questa sia del pari un'occasione felice per il Ministero di dar piena contezza delle sue operazioni, le quali sono state (io non guardo alle intenzioni, anzi le credo tutte buone, tutte benevole) più d'una fiata giudicate in modo pregiudizievole a quell'autorità, ch'è tanto necessario che chi governa, e governa in difficili emergenti, conservi dirimpetto ai governati.

Quando il Parlamento proseguisse ancora a mostrarsi indifferente, o almeno ad aver l'apparenza dell'indifferenza sopra questo argomento, penso che assumerebbe sopra di sè una responsabilità grande, inquantochè ciò che si riferisce all'interesse dell'esercito meridionale è uno di quei fatti, e forse egli è il solo che possa essere cagione di disturbi all'interna concordia, essere cagione di scompagine e d'indebolimento in quelle forze nazionali, che conviene riunire in un fascio, onde poter sostenere le ultime prove, alla vigilia delle quali forse la Nazione si trova; perciò non ho altrimenti esitato a risolvermi ad indirizzare questa domanda all'onorevole presidente del Consiglio dei ministri.

Subordino eziandio la mia domanda a che, quando l'onorevole presidente del Consiglio si disponga a rispondere e trattenere l'Assemblea di questo grave argomento, si fissi una seduta, alla quale sia pure presente l'illustre Generale che fu capo dell'esercito. Intanto avrà bella occasione l'onorevole generale Garibaldi di porgere col fatto un attestato dei suoi sentimenti dirimpetto a questa rappresentanza nazionale, di cui egli è parte.

Ben sappiamo tutti, è inutile dissimularlo, perchè anche questo, dirò, è uno di quei fatti i quali non si devono nascondere o schivare, o trattare a mezzo, e pel quale ne è avvenuta una ferita negli animi e nella coscienza di chi è investito dell'autorità e dell'alta dignità di rappresentante della Nazione; bene sappiamo come i nostri animi furono commossi da parole attribuite sconsigliatamente all'onorevole generale. Quelle parole contengono, non vi è dubbio, un'offesa alla maestà del Parlamento e all'inviolabilità del nostro Re. Queste parole non possono essere state pronunziate dal generale Garibaldi.

Io non ho più visto l'onorevole generale dall'estate del 1859; ma egli ha visto me ed io ho visto lui quando andava chiamato dal Governo della Toscana, a comandare l'esercito toscano; stringeva a me la mano, ed io a lui, promettendoci di fare quanto era in noi per la redenzione della Nazione.

La Nazione allora era un'aspirazione dei cuori italiani, e contro quest'aspirazione stava una minaccia tremenda di un intervento. Vi era però una promessa, che questo intervento non si effettuasse; ma quella promessa non rassicurava bastantemente gli animi.

Era poco tempo dopo la pace di Villafranca; all'annunzio di quel fatto tutti i cuori italiani tremarono, come se un'agitazione profonda li avesse commossi: il generale Garibaldi ed io ci promettemmo di adempiere interamente al nostro dovere. Io so che ho compiuto il mio, il Generale ha fatto il suo.

Quindi non è possibile che chi ha lavorato a fare la Nazione, ora che la Nazione siede in quest'Assemblea, ora che tutte le nostre aspirazioni tendono, ed a buon diritto, a fare tutti gli Italiani liberi cittadini, possa dire parole meno riverenti verso il Parlamento e verso il Re che sta nel cuore di tutti gli italiani; quel Re mandato dalla Provvidenza appunto perchè gli Italiani potessero scuotersi dal giogo straniero, senza del quale la loro virtù non avrebbe servito a nulla. E qui concedetemi che, dipartendomi per un momento dal rigore del linguaggio costituzionale, imperocchè nel regime costituzionale il Re non ha mai errato, e i ministri soli sono responsabili, permettetemi che io vi parli del Re. Si, di quel Re, di Vittorio Emanuele, che è il solo liberatore della Nazione; di quel Re che ha tenuta la sua parola, che ha posto a rischio la sua corona e la sua vita; di quel Re che compirà l'ultimo atto che ancor rimane, onde questa Nazione tutta intera possa veramente chiamarsi libera; e or l'offesa si vorrebbe perfino estendere a scemare il pregio delle gesta che sarà per compiere, quasi che non`abbiano ad essere, come le altre, il frutto del suo animo generoso, del suo cuore italiano, ma l'effetto di una coazione!

Quel Re non può essere stato offeso dal generale Garibaldi, poichè il cuor suo e il mio concordano pienamente, e quello che non potrei far io non può far egli. Quando il liberatore dell'Italia è il Re, e gl' Italiani tutti hanno lavorato sotto questo duce magnanimo a questa liberazione, non c'è nè primo nè ultimo cittadino. Quegli il quale ha avuto la sorte di poter adempiere più generosamente il suo dovere, compire il suo dovere in una più larga sfera di azione, d'onde una maggiore utilità alla patria ne venisse, e l'abbia veramente compito, ha un dovere più grande ancora, quello, cioè, di ringraziare Iddio che gli abbia concesso questo privilegio prezioso, chè a pochi cittadini è dato di poter

dire: Servii bene la patria, ho interamente compiuto il debito mio! Quindi, se nella scala di tutte le opere magnanime che gl'Italiani hanno saputo compiere in questi due anni, vi è un numero di due, sei, dieci cittadini, cui sia stato dato di poter adempire a doveri più grandi, più solenni, che abbiano più efficacemente contribuito al risultato finale della Nazione, ben lungi dal potere questi levare altiera la voce e chiamarsi superiori alla legge, ben lungi dal dovere mettere a calcolo le loro imprese, al contrario eglino hanno, come dissi, il dovere di rivolgersi al cielo e ringraziare Iddio di aver potuto compiere dei nobili fatti, delle opere generose, e dire quindi: Se la patria mi chiama, mi avrà sempre suo figlio obbediente; a me l'esempio dell'abnegazione, della modestia; a me l'esempio agli altri del come si dee obbedire alla legge. Ecco quello che compete ad ogni cittadino, il quale abbia avuto nel breve corso della sua vita il privilegio prezioso di poter compiere opere magnanime.

Il generale Garibaldi so che pensa così; dunque io non temo che egli possa smentirmi; egli non può tenere un linguaggio diverso da quello che potrei tener io. Quindi quelle parole egli non le ha pronunziate. Il generale Garibaldi verrà in quest'aula, sarà glorioso di sedere al nostro fianco, e noi saremo lieti di vederlo assidersi in questa famiglia, potendo tutti dire: contribuimmo alla felicità, al bene della patria. — (Dalle Lettere e Documenti cit., vol. V, pag. 439.)

GIUSEPPE GIUSTI.

Ragiona a lungo di sè e de' suoi tempi nell'Epistolario e nelle Memorie inedite (1845-49) pubb. con proemio e note da F. MARTINI (Milano, Treves, 1890),1 sì da essersene potuta formare una specie di autobiografia.2 Nacque il 13 maggio 1809, a Monsummano in Val di Nievole, presso Pescia, ove poi si stabilì la famiglia. Dai sette ai dodici anni fu a dozzina da un prete, dalla disciplina del quale riporto parecchie nerbate e una perfetta conoscenza dell'ortografia, nessuna ombra di latino.... pochi barlumi di storia.... svogliatezza, stizza, noia, e persuasione interna di non essere buono a nulla. Poi fu a Firenze nell'istituto di Attilio Zuccagni: vi stette dieci mesi ed ebbe a maestro Andrea Francioni, che gli inculcò vivo amore agli studj e fu il suo vero maestro, come scrisse egli stesso nella nota lettera autobiografica al Vannucci. Chiuso questo istituto, vagò in altri, finchè ritornò presso la famiglia, e poi passò all' Università di Pisa (novembre 1826) consumandovi

1 Vedi su queste E. NENCIONI, in Saggi critici di lett. ital., Firenze, Succ. Le Monnier, 1898, pag. 269.

2 Vita di G. G. scritta da lui medesimo, raccolta e pubbl. da G. BIAGI, Firenze, Le Monnier, 1893.

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