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tro i fenomeni della natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e riputazione delle famiglie in una nazione, che sta sempre in su la guerra e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta necessariamente la nobiltà ereditaria. V'ha inoltre la riputazione di nobiltà di una tribù, o circolo sopra gli altri, poichè tra loro quella che noi diremmo cittadinanza, si confonde con la parentela. La forma di governo della tribù torna all' aristocrazia, ma larga; temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza dell'ordinamento sociale. Perciò, di rado si vede degenerare in oligarchia e quasi mai in principato.

Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali, nate quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a comporre con essi per danaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a chiamare in lor divisioni quegli agguerriti vicini. Le abitazioni fisse dell'Arabia centrale sono stanze di commercio o ville di agricoltori; concorronvi uomini di altre schiatte arabiche, concorron vi stranieri, e il reggimento talvolta si riduce nelle mani di pochi e anco vi prevale un solo: effetto necessario della proprietà più certa, delle plebi vili e mescolate, della fatalità della umana natura, che si stempera quando sta in riposo. Nondimeno, sendo le armi in mano delle tribù libere, la servitù non può allignare troppo tra i cittadini.

Per le medesime cagioni le fattezze e costumi, ancorché diversi, pur in molti punti si rassomigliano. I figli del deserto hanno alta statura, corpi robusti, asciutti, puri lineamenti della schiatta caucasica in volto, barba non troppo folta, bellissimi denti, sguardo sicuro, penetrante; avvilup pati la persona in ampie vestimenta, coperti la testa e il collo con bizzarra foggia di cuifia, che da loro par ne venga tal voce; vanno alteri al portamento, maneggian destri le armi, padroneggiano i cavalli, animale amico loro più che servo; traggono vanto dalla rapina; impetuosi nell'ira, tenaci nell'odio, ospitalissimi, leali alle promesse; ardenti nell'amore che merita il nome; son contenti per lo più d'una sola moglie, la comprano, la ripudiano, ma li ritiene di maltrattarla troppo il rispetto della parentela di lei; nè tengon chiuse le donne, nè appo loro la gelosia vieta le oneste brigate con donzelle, nè i teneri canti e i balli. Tra la libertà della parola, l'uso alla guerra e la compagnia del sesso più delicato, si comprende perchè i Beduini sentano si altamente in poesia. La gente delle città, meno schietta di sangue, anco per cagion dei figliuoli che han da schiave negre, men forte, usa turbanti e fogge di vestire più spedite e di pregio, e con ciò non pare svelta nè elegante al par de' Beduini; unisce le passioni violente con la frode;

le tenere non conosce, ma la libidine; usa poligamia, divorzj, concubine; sprezza e tiranneggia le femine, quando il può senza pericolo; sempre le allontana da ritrovi; cerca in vece gli stravizzi, in ogni cosa mostra il predominio dei piaceri materiali sopra quei dell'animo. Tali i cittadini i cui costumi più discordino dai nomadi. Ma v'ha gradazioni tra gli uni e gli altri. Le popolazioni mercatantesche, stando sempre in cammino, partecipano del valore e sobrietà dei Beduini. Similmente le famiglie nobili delle città amano a imitare i guerrieri della nazione; e alcune usano mandare a balia i figliuoli appo le tribù del deserto, nelle quali sono educati fino all'adolescenza. Son poi virtù comuni à tutta la schiatta arabica la liberalità, l'ospitalità, il coraggio, l'audacia delle intraprese, la perseveranza; vizj comuni la superstizione, la rapacità, la vendetta, la crudeltà; tutti han pronto ingegno, arguto parlare, inclinazione alla eloquenza ed alla versificazione. — (Dalla Storia dei Musulmani di Sicilia, lib. I, cap. 3.)

CARLO BINI.

Nacque in Livorno il 1° decembre 1806, e benchè inclinato agli studj delle lettere, per secondare il volere paterno, si diede al commercio. La naturale disposizione della mente e dell'animo a quella forma, che gli inglesi battezzarono dell'umorismo e nella quale il lepore e la giocondità è veste di intimi sensi malinconici, confortò colla lettura di scrittori stranieri, specialmente dello Sterne e del Byron. Ebbe parte principale col Guerrazzi nella compilazione dell' Indicatore Livornese (1829), che presto dovette cessar le sue pubblicazioni, per incuria dei concittadini e persecuzioni governative. Di animo buono e gentile, intromessosi nel '27 a sedare una rissa fra popolani, ne riportò grave ferita, che mise in forse la sua esistenza, ma della quale parve guarire dopo lunghe cure: se non che essendone rimasta lesa la spina dorsale, non fu mai più bene dopo il triste caso. Nel '33 fu chiuso con altri amatori di libertà nel forte della Stella a Portoferrajo, e vi scrisse il Manoscritto del Prigioniero. Fu liberato dopo breve tempo, e riprese il traffico, alternandolo cogli studj: ma colto da apoplesia a Carrara, ove trovavasi appunto per affari di commercio, cessò di vivere ai 12 novembre 1842. Gli scritti suoi, che fra originali e tradotti formano un breve volume, furono raccolti una prima volta nel 1843 (Livorno, Vannini), ponendovi innanzi un proemio Giuseppe Mazzini: indi da G. Levantini-Pieroni (Firenze, Le Monnier, 1869) e una seconda volta (1900) dal medesimo, con aggiunta di molte lettere, specialmente alla donna amata.

Il Bini ebbe molte felici doti da natura; e ove i casi della vita e la brevità di questa non gli avessero dato impedimento, molto

più avrebbe scritto, correggendo certi suoi difetti, e fra gli altri quello che il Giusti ebbe a rimproverargli di « girare e rigirare in mille modi un pensiero, un'immagine, che andava toccata con pochi tratti o corsa di volo.» Indole ottima, cuore pieno di ottimi sensi, intelletto aperto ad investigare ogni forma di bello e compiacersene ritraendola, non ebbe a sè favorevoli i tempi toccatigli in sorte e il luogo ove ebbe la nascita e trasse la vita.

[Vedi su di lui le due Prefazioni di G. LEVANTINI-PIERONI ai vol. cit.; G. LACECILIA, Pantheon dei martiri della libertà italiana, Torino, Fontana, 1852, I, 281; F. PERA, Ricordi e biografie livornesi, Livorno, Vigo, 1867, pag. 425; G. MAZZINI, Scritti editi ed inediti, Roma, 1881, IV, 65; R. BARBIERA, C. B. ne' suoi scritti e nei processi inediti della Giovine Italia, in Illustrazione italiana dell' 11 marzo 1901.]

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Dalla Stella, 17 settembre 1833.

Carissimo Padre, La nostra partenza di Livorno fu piuttosto un ratto, che una partenza.... Sul principio del viaggio fu calma profonda; il legno andava piuttosto coi remi, che con la vela. Poi, due ore dopo incirca, si levò un vento fresco, forse troppo fresco; allora piuttosto che andare volavamo. In mezzo a questa furia di vento un uomo ebbe a perire: faceva sue manovre in cima a un albero da poppa, quando l'albero per vecchiaia si troncò nel fondo; e se non era la sua destrezza, l'uomo periva di certo. Nessuna industria umana avrebbe potuto ritirarlo a bordo, tanto quel diavolo di vento ci rapiva via. Ma, come Dio volle, tornò sano e salvo in coverta; avea lo stesso viso di prima, e col solito suono di voce disse rimettendosi a nuove faccende: un altro po' ci perdevo la vita. Queste parole sono semplici e poche, ma rivelano un cuore sicuro. Io ammirai tacitamente la gagliardia di quell'anima popolana. Dimandai a un tale, che mi stava a lato, come si chiamasse costui. Mi rispose, che si chiamava la Scimmia; e questo nome in merito della sua singolare sveltezza. Seguitammo a correre col vento fresco, nè ci abbattemmo in altri casi ; poi quando fummo in vicinanza dell' Isola, il vento rallentò, e rivenne la calma. Allora nuovamente mano ai remi, e così entrammo nel porto, ove un Ministro di Sanità ci riceve colle solite forme. In somma il viaggio fu compito in poco più di 7 ore. Io non potei goderne, perchè durante il tragitto il mal di mare mi travagliò fieramente. Ponemmo il piede a terra nell'Ufficio di Sanità, dove ci trattenemmo sopra due ore; e in quel frattempo, non sapendo che altro fare, ordinammo un lieve ristoro di cibi, e questo poi, più o meno, era un bisogno comune. Quando fu venuta la notte, movemmo colla

nostra scorta per entrare in città. Entrammo, e traversando una piazza, e parecchie strade fatte a scala, giungemmo al Forte della Stella.

E qui finisce la cronaca del mio viaggio. Ora la vita attiva si è mutata in vita contemplativa; nè io saprei cos'altro raccontarvi, se pur non fosse la storia dei mille grilli, che da mattina a sera mi svolazzano nel cervello. Ma questo nol comporteremmo nè voi, nè io, nè quei signori deputati a leggere tutto ciò che scriviamo. Ora io sono, e non so per quanto, domiciliato alla Stella, sano di corpo, di mente sanissimo. Ho una casetta bastantemente capace per una persona. E composta di due stanze nè troppo grandi, nè troppo piccole. Un letto, una panca, una tavola, sono gli arredi. L'uscio si chiude per di fuori, e le finestre sono come le vostre, se non che hanno di più l'inferriata. La casa è situata a mezzogiorno, e da una parte confina in un angolo angusto che i Francesi chiamerebbero cul de sac. Dall' altra parte la casa è contigua a una caserma, e a prima giunta la vista s'incontra in una pila, in una cisterna, e in una campana, che non suona mai. Ma sospingendo l'occhio un poco avanti la scena si tramuta maravigliosamente, e dalla umiltà prosaica salisce alla sfera poetica. Un clima dolce, armonioso, un cielo purissimo, una parte pittoresca di golfo, una catena di monti bruni bruni, contrastanti vivacemente coll'azzurro del cielo, e col verde limpido del mare; tutta una Natura magnifica, una creazione bella di bellezza veramente italiana. Ma per chi guarda dalle sbarre d'una prigione, il cielo è mesto e la Natura è malinconica.

Del resto, come vi ho già detto, la vita, che io meno, non ha bisogno di troppi colori a dipingersi. La notte dormo quando posso; e quando no, veglio fantasticando. Il giorno mi levo; passeggio un poco sopra uno spazio di 12 passi; poi leggo; poi di nuovo passeggio; alle 2 un trattore ci manda il desinare a modo suo; il dopo pranzo la medesima canzone, finchè non torni l'ora di rimettersi a letto. Come vedete, è una nota unica sopra una corda unica. Per un'ora del giorno uno dopo l' altro siamo condotti a respirare all'aperto; l'aria in questi luoghi è balsamica, e fa buono al sangue. Di quando in quando viene a visitarci il Comandante della Piazza, una gentil persona, di cui non conosco per anche il nome, e ci tratta paternamente. Talvolta mi affaccio ad osservare i soldati occupati nell'opere loro: in due o tre giorni ho compreso tutti i misteri della vita militare; è una vita, che non eccita tentazioni. In somma, a dirvela schietta, io mi annoio piuttosto che no, e l'ozio, che una volta io vagheggiava come cosa morbida e cara, oggi è mio nemico giurato, e mi sta indosso come un cilizio, ed io concorro coi padri della Chiesa a dichiararlo peccato mortale. In somma questa monotonia è tale, che a lungo andare può convertire l'anima umana in un orologio a polvere.

E se voi, e altri, voleste sapere la ragione intima del bizzarro avvenimento che mi ha percosso, io vi so dire, che è tal problema da sgomentare tutte le geometrie di questo mondo. Voi conoscete meglio di me i miei umori, e la mia condotta, perchè vi sono vissuto accanto finora. Commerciante di professione; chiuso di pensieri per indole, e per sistema, e però taciturno quasi sempre; senza nome, senza influenza, senza ambizione; partigiano della quiete, anzi dell'inerzia, non avrei fatto un passo più lungo del solito per iscansare una fossa; di spirito scettico, — talchè spesso io mi trovavo a contrasto colla corrente, e non me ne importava; la storia della mia vita era la storia della pianta, che vegeta, e nulla più. Avvertito che i tempi correvano difficili, rinnegai per tempo l'esercizio di quelle poche facoltà d'ingegno, che la Natura, non so se madre o madrigna, volle assegnarmi in dote. Così fatto com'era, avrei giurato, che la mia esistenza quasi sotterranea sarebbe trascorsa nel silenzio senza dar ombra a nessuno, senza destare nè odio, nè amore; avrei giurato, che il dì dei miei funerali, pochi, ma pochi, avrebbero detto: è morto un morto. Ma che per questo? I concetti del mortale son tele di ragno, un nulla le rompe. La prudenza può talvolta menare dove mena l'imprudenza; il non far nulla talvolta equivale al far qualche cosa; questo è un conto, che in aritmetica non torna, ma che pure entra nella serie degli umani accidenti. L'uomo spesso non dipende da sè stesso la Fortuna agita i dadi della sua vita, e la Fortuna è femmina, e di più non ha occhi.

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Non ostante da tutto questo non dovete indurne argomento di disperare. Io credo fermamente che, l'Innocenza non sia un giuoco di parole; io credo, che la Giustizia non siasi rimasta fra le divinità della Favola. Il tempo schiarirà tutto; almeno così diceva a Livorno il medico N., disputando sulla malattia di un tale già sepolto da una settimana. Datevi coraggio proporzionato agli eventi; coraggio per resistere a queste prove troppo dure per le viscere di un padre. Consolate mia madre. Povere madri! pur troppo negli annali del tempo la Fatalità produce epoche in cui le madri hanno a tremare di essere state feconde! Io però son tranquillo. Il caso mi ha temperato un'anima vigorosa a sopportare pacatamente il bene ed il male. Se io fossi solo nel mondo, credete pure che sorriderei dall'alto in giù a questo piccole traversie; ma chi nasce di donna non è mai solo nel mondo; e gli affetti di sangue, d'amicizia, d'interesse, sono tanti, e così complicati, e così inerenti al cuore dell'uomo, che il cuore è costretto a gemere profondamente, quando la forza delle cose lo recide da vincoli tanto vitali. Pure, ve lo ripeto, fate animo; e confido che non avrete mai a piangere per cagion mia; ma se ancora un giorno doveste piangere, le vostro non saranno lacrime di vergo

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