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vittoria de' Guelfi, alle spade da taglio sottentrano gli stocchi da ferire di punta, simbolo della nuova politica, più acuta che vasta, più sottile che forte. Con la vittoria dei Guelfi, all'Italia si comunica il lusso, si austeramente condannato da Dante; la contessa Beatrice, più malefica del marito, porta.seco il contagio de' dorati arnesi e delle vesti eleganti e delle amorose donne di Francia. Con la vittoria di Carlo cominciano a farsi consuetudine le adulazioni turpi al vincitore qualunque egli sia, le bugiarde acclamazioni, gli applausi rei, le chiavi offerte in tributo dalle città prima vinte che viste. Con la vittoria di Carlo imparano i vincitori a dividersi l'oro italiano co piedi, a trarre oro dalle lagrime, oro dalle maledizioni de popoli.

Intanto che Carlo nel regno di Napoli trionfava, le condizioni di tutte quasi le italiane città venivano più o meno apertamente cangiando. Reggio, di ghibellina fatta guelfa, riceve i Modenesi co' Guelti toscani; a Filippo Torriano succede Napoleone; la Marca è conquista d'un cardinale; Brescia scuote il giogo di Pelavicino tiranno, si dà a' Torriani, va incontro a Napoleone e a' fratelli con rami d'ulivo: un Torriano è morto da' Ghibellini milanesi in Vercelli, e il sangue suo vendicato con la morte di cinquanta o figli o congiunti de' fuorusciti uccisori; e Napoleone grida: il sangue di questi innocenti cadrà sul mio capo, e sul capo de' figli miei. I Legati del Papa mettono in Lombardia più discordia che pace: i Guelfi cacciano i Ghibellini di Parma; Ghibellini e Guelfi si riconciliano in Firenze, e stringono matrimonii. Pisa umiliata, per trenta mila lire si libera dall' interdetto: i Veneti pigliano tutta la flotta genovese, e Genova un'altra sull'atto ne crea: i Ghibellini di Modena son difesi da Tedeschi, da Toscani, e da Bolognesi; combattuti da Bolognesi, Toscani, Tedeschi. Vittorie insomma alternate a sconfitte, più vergognose talvolta delle sconfitte ; brevi concordie, brevi trionti, lunghi guai, tenaci odii, propositi perseveranti, fortissime volontà; esuberante la vita, in estrinseci atti sfogate e dilatantisi le potenze dell'anima : passioni non fiacche, virtù non bugiarde, misfatti non timidi. Robusti i corpi, ardenti le fantasie, svariate le usanze, giovane e maschio il linguaggio. La donna or conculcata come creatura men che umana, or venerata com' angelo, ora partecipante della virile fierezza, comunicante all' uomo le doti che la fanno divina. Vicenda a vicenda succedere com'onda a onda; la sventura alternata alla gioia, come a brevi di lunghe notti; il governo de' pochi e il governo de' troppi confondersi insieme. Alti fatti di guerra, esempi degni dell'ammirazione de' secoli, chiusi nel cerchio d'anguste città; grande talvolta, nella piccolezza de' mezzi, l'intenzione e lo scopo; parole e opere che pajono formole d'un principio ideale. La religione sovente abusata, ma non sì che i benefizii non ne vincano i danni: ignudi i vizii, ma non senza

pudore; efferate le crudeltà, ma non senza rimorso; memorabili le sventure, ma non senza compenso di rassegnazione o di speranze o di gloria. Le plebi occupate alle nuove arti, al traffico, al conquisto de' civili diritti; i nobili operosi spesso al bene, spessissimo al male, ma pure operosi; e dalle inquietudini dell'animo e dalle fatiche del corpo fugata l'inerzia, peste degli Stati, la noja, inferno degli animi. La religione non divisa dalla morale, nè la scienza dalla vita, nè la parola dall' opera: il sapere composto a forte unità. Le dottrine de secoli passati abbellite di novità o per l'ignoranza delle moltitudini, o pe' nuovi usi in cui si venivano, applicate, innovando. Novità ad ogni tratto nelle costituzioni, ne' costumi, ne' viaggi, nelle arti. Tale era il secolo in cui vide la luce Durante Aldighieri.

A lui fu grande maestra la pratica appunto de` civili negozii. « Niuna legazione (dice il Boccaccio) si ascoltava, a niuna si rispondeva, niuna legge si riformava, niuna pace si faceva, niuna guerra s'imprendeva.... s'egli in ciò non desse prima la sua sentenza. » E quale dalla vita attiva provenga temperamento equabile alle umane facoltà, sempre intese a soverchiar l'una l'altra: quanta rettitudine di giudizii, agilità di concetti, sicurezza di modi, parsimonia d'artifizii, autorità, compostezza: i letterati moderni sel sanno, che, per volere o per fortuna lontani dalla esperienza delle pubbliche cose, svampano in fiamma fumosa il calor dell'affetto; i fantasmi dell'imaginazione scambiano con la viva realtà, or troppo meno or troppo più bella che ai lor occhi non paja e parlano si che gli uomini involti nella pratica delle faccende, quelle loro artifiziose declamazioni ̄disdegnano, le moltitudini quell' affaticato linguaggio comprendono appena. Molto dunque dove l'Allighieri all'essere vissuto cittadino non inerte di repubblica sua: dove forse la somma delle sue lodi, quella franca e virile severità, che già comincia nel Petrarca ad ammorbidirsi in gentilezze letterarie, e nel Boccaccio è sepolta sotto le molli eleganze.

Ne gli studi dalle civili faccende, nè queste lo stolsero dagli studi rara costanza e concordia di due in apparenza contrarii esercizii. «Per la bramosia degli amati studi non curò (dice il Boccaccio) nè caldo nè freddo, nè vigilie nė digiuni, nè alcun altro corporale disagio: » ed egli medesimo parla de lunghi studi con grande amore consumati, e delle fami, de' freddi, delle vigilie sofferte, che lo dimagrarono per più anni. Queste cose son buone a ridire. Perchè, sebbene ne' giovani italiani sia in modo fausto scemata la cupidigia delle vergognose ricchezze e de' vituperevoli onori, e s'additino con dispetto gli esempi di chi vende a speranze indegne la coscienza e la fama; pur tuttavia manca ai più l'animosa pazienza di battere le lunghissime vie che alla vera lode conducono. Le facilità molte oggidì procurate a molte opere della vita fanno altrui parere mirabil

mente agevole della sapienza l'acquisto; si che il piacere è da costoro creduto premio e corona al piacere. E veramente piene di diletti inenarrabili sono le fatiche dell'uomo che intende a conoscere e a difendere il vero; ma fatiche pur sono, e richieggono tempo e intensione d'animo e di mente, e vita modesta e astinente dalle turpi inerzie del mondo.

<< Se, inimicato (dice il Boccaccio di Dante) da tanti e siffatti avversarii, egli, per forza d'ingegno e di perseveranza, riuscì chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare ch'esso fosse divenuto avendo altrettanti aiutatori? » No. Con meno avversità l'Allighieri sarebbe sorto men grande; perchè gli uomini rari alla natura debbono il germe, alla sventura l'incremento della loro grandezza. Quella vena di pietà malinconica che nel poema pare che scorra soavemente per entro alla tempera ferrea dell'anima sua, quell' evidenza che risulta dalla sincerità del profondo sentire, quella forza di spirito sempre tesa e che par sempre quasi da ignoto movente irritata, e in alto sospinta, sono in gran parte debite alle umiliazioni e ai disagi della sua calunniata, raminga e povera vita. (Dal Commento a Dante, vol. I, ediz. Pagnoni, pag. xvII.)

Di sè stesso quasi cieco e presso a esser vedovo.

Sole di Dio, la vivida

Luce che crea l'aprile e fa l'aurora,
Nella pupilla languida

Versa di sè pur qualche stilla ancora.

Qual chi da buia carcere

Esce all'aperto, e la catena ha seco;

Qual chi, l'opaca tunica

Toltagli, esclama: or non son io più cieco?;
Tal, come di miracolo

Quotidian, ti rende il pensier mio
Grazie, e con gioia trepida

Dice: I ti veggo ancor, sole di Dio.

Dal buio che l'attornia,

Discerne ancor sulla parete il bianco
Raggio posare, e il coglie,

Quasi candido fior, quest' occhio stanco.
Ma non distingue il tremulo

Scintillar delle stelle, e i bei colori

Dell'iride, e il sorridere

De' visi amati, e in mezzo al verde i fiori.
Ah sia continue tenebre

La mia giornata estrema tutta quanta,
Purchè tu sole all anima

Quaggi mi resti, oh mansueta, oh santa.

Nel paziente e vigile

Senno romita, ed umilmente altera,
Tu nel mio verno un florido
Ispirasti alitar di primavera.

La man tua fida il povero

Cieco sorregga, e di tua mente pura
L'occhio la via gl'illumini,

Salvo mi scorga alla mia sepoltura.
Senza di te, cadavere

Pien di vivi dolor', che farei io?
Della sua pace il raggio

Non mi s'asconda. Orate, Angeli, a Dio.

(Dalle Poesie, ediz. Le Monnier, 1872, pag. 261.)

FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI.

Di antica gente» com'ei più volte afferma ed ostenta, ma ridotta a condizion popolare, nacque in Livorno ai 12 agosto 1804. Fin da fanciullo mostrò vivo ingegno, forte volere, animo risoluto,

e tenace per modo, che, venuto a contrasto col padre, abbandonò giovinetto la casa paterna, campando del correggere stampe. Dalla madre non ebbe che rimbrotti e percosse, e di queste e di uno stile che gli avventò contro, portò le cicatrici sulla persona tutta la vita, nè, dirigendosi all'amico suo Carlo Bini, che di si tenero amore circondò la propria madre, gli tremò la mano e il cuore si ricusò a rivangare si tristi ricordi, e a chiamar la pietà su di sè e sopra quella il disprezzo e l'onta. Cosi, privo di conforti domestici,« sulle jattanze della plebe Itvornese, come dice il Capponi, foggiò a sè medesimo l'idea della forza », e, chiuso in sè medesimo, ma presago del suo valore, divenne smisurato nei disegni, intemperante nelle ambizioni: » Andato quindicenne a Pisa a studiarvi legge, fn fatto segno ai sospetti della polizia, e bandito per un anuo: la somma degli studj fu, secondo egli scrive, istruzione nulla, persecu

1 Vedi Lettere, I, 160 e Note autobiografiche per cura di R. GUASTALLA, Firenze, Succ. Le Monnier, 1899, passim.

2 Scritti editi ed ined., Firenze, Barbèra, 1877, II, 128.

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zione molta, fastidio degli uomini e della vita, tristezza crescente. » Com' egli, adolescente leggesse d'ogni sorta libri e come si innamorasse dello stile byroniano, si vede dal brano delle sue Memorie che riferiamo a pag. 542. Attendendo insieme alle cose forensi, che gli dovevan procacciar guadagui, e alle letterarie, onde cercava gloria, dopo aver fatto per editori compilazioni e traduzioni, tentò il dramma con un Priamo, non recitato ma stampato (Livorno, Vignozzi, 1826), e coi Bianchi e Neri, che non ebbero lieta accoglienza, sicchè si svogliò del teatro e della poesia, e fu poeta in prosa, come portavano il genio de' tempi e gli esempj, massime stranieri, del romanticismo in voga. Primo suo lavoro di mole fu La battaglia di Benevento, uno dei più cospicui saggi di quella letteratura, che fu detta satanica. Ne giudicò con benevolenza non disgiunta da severità il Tommaseo nell'Antologia, rimproverandogli più ch'altro una affettazione di forza, che tien del convulso », e che rimase difetto costante dello stile guerrazziano. Ne parlò il Mazzini nell'Indicator Genovese, ravvisando in lui « possanza d'immaginazione, di cuore e di mente », ma biasimandolo dell'offuscar le sue doti colla nube della disperazione, che fa del creato un deserto », e affermando inutile ogni opera d'arte « se dal fondo non penetri il raggio della speranza ». Licenziando nel 1852 la quindicesima edizione di questo romanzo, ritoccata nello stile (Firenze, Le Monnier), l'autore stesso lo giudicava « libro ardentissimo, e non di bella fiamma », nel quale « traspira certo sgomento per nulla naturale all' età in che esso venne scritto, che fu il ventunesimo anno; e di ciò incolpa i molti guai che fin dalla gioventù lo inasprirono, la condizione de' tempi, che pareva irrimediabile, e il culto del Byron. Ma, con tutti i difetti, la Battaglia di Benevento, specialmente dopo le nuove cure dell'autore, resta, per vivezza di forme e gagliardia di composizione, uno de' migliori suoi scritti narrativi. Soppresso l'Indicator Genovese (10 maggio20 nov. 1828), il Guerrazzi fondò il 2 marzo 1829, insieme col Mazzini e col Bini l'Indicator Livornese, giornale settimanale, che venne soppresso anch'esso dopo pubblicati 48 numeri. Invitato a scrivere l'Elogio di Cosimo del Fante livornese, valoroso milite delle guerre napoleoniche, per punizione dei liberi sensi in esso manifestati venne per sei mesi dal luglio 1830 mandato a confine in Montepulciano, ove ebbe la visita dei due ricordati amici, che intendevano aggregarlo a una vendita di Carbonari, da essi fondata in Livorno. « Vidi il Guerrazzi (dice il Mazzini), ei scriveva l'Assedio di Firenze, e ci lesse il capitolo d'introduzione. Il sangue gli saliva alla testa, mentr' ei leggeva, ed ei bagnava la fronte per ridursi in calma.... Sentiva altamente di sè, e quella persecuzioncella, che avrebbe dovuto farlo sorridere, gli rigonfiava l'anima d'ira.... Non aveva fede.... Stimava poco, amava poco.... Sorrideva fra il mesto e l'epigrammatico, e quel sorriso m'impauriva.... m'impauriva di tanto, ch'io partii senza parlargli a viso aperto del

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