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Se con tal donna al fianco era paziente,
Gosto poteva andar di volo al cielo;
Ma sulle spalle a lei fece sovente
Scender legnate da levare il pelo;
Uso, che bene spesso e volentieri,
Passò poi dai villani ai cavalieri.

E questo fra parentesi sia detto.
Or bisogna saper che Gosto avea
Già preso il lume per andare a letto
Dopo cena una sera, allorchè Mea
Sbatter sentì con urto violento
L'uscio di casa allo spirar del vento.
E siccome le donne non di rado
Sono più del dover maliziose
(Parlo qui delle donne del contado),
Mille castelli in aria a far si pose,
Onde veder d'indovinar, se il può,
Perchè Gosto al tornar non lo serrò.

Che quando io dormo, ella dicea fra sè, Mi pianti, e scappi via! Che si ch'egli ha Qualche altra donna, e l'antepone a me! Ma giuro al ciel non gli rïuscirà; La Mea lasciarsi sopraffar? cucù! Al fin del salmo te n'avvedrai tu.

Senza giudizio! Ma guardate voi Se si deve lasciar l'uscio di strada Spalancato a quest'ora!... eppoi.... eppo.... Fosse stato per caso, che la vada; Ma a bella posta? per tradirmi! Ah certo È un miracol di Dio se l'ho scoperto!

-

Chi? disse Gosto, che alla moglie intese Quest'ultime parole uscir di bocca. Anche chi? mi domandi, eila riprese: E tacer sempre, e tollerar mi tocca? Hai ragion che son donna; se cosi Non fosse, oh ti farei veder ben chi!

Ma prega il ciel che te la mandi buona, Che un giorno, Gosto mio, non mi ci metta.... Insomma? la finisei, chiacchierona!

O spedisco la solita ricetta....

Soggiunse Gosto allora, eppur sai che....
lo chiacchierona? chiacchierona a me?
Sentite? or che sul vivo lo toccai,
Lo sentite il briccon come mi tratta!
Io chiacchierona, che non parlo mai?
Ma da qui avanti non sarò più matta
Di tacer, come ho fatto pel passato;
Sì, vo' parlar finchè avrò lingua e fiato.

Tornare a casa.... non serrar la porta.... Ma che creli che siamo tanto sciocchi

Da non capirla?... Ma l'hai fatta morta:
Non mi si dà la polvere sugli occhi,
No, no, non mi si dà. Gosto allor fisse
Tenne al ciel le pupille, e così disse:
Quasi ogni anno, Signor, privo restai
Or di vacche, or di pecore, or di buoi:
Solo la moglie mia non muore mai!
Tu che provvedi sempre al ben di noi,
E che l'uso trovasti delle mogli,
Tu me la desti, e tu me la ritogli.

Fa' che teco sen venga, e che s'estingua
La smania in lei di stare a tu per tu:
Ma se le lasci un briciolin di lingua,
E d'averla s'accorge costassù,

Sien falsi i miei presagi, io ben m'avviso
Che cangerà in Inferno il Paradiso.

Indi voltosi a lei che infurïava,
E piangeva, e mordevasi per rabbia
Le mani, ed i capelli si stracciava:
Ti par, dice, ti par ch'io lasciat' abbia
A posta l'uscio aperto? se rimaso
È stasera in quel modo, è stato un caso.
Vanne a letto: ed aspettami colà,
Chè la porta a serrare intanto io vo;
Si serrerà, sì, sì, si serrerà ;

Ma che dico serrar? Signora no:

Vo' che prima tra noi facciamo un patto:
E l'espon quel che vuol che venga fatto.
Il patto consistea, per farla corta,
Nel convenir che chi parlato avesse
Primo di loro due, la nota porta,
In pena, anche serrar primo dovesse ;
Gosto in tal guisa stravagante e nuova,
Della lingua di lei volle far prova.

I primieri calmati impeti ardenti,
Si serenò la femmina proterva;
Nè luogo ebbero i finti svenimenti,
Le convulsioni, e i colpi di riserva
Che in oggi molte donne adoprar sogliono,
E ottengon dai mariti quel che vogliono.
Sul primo fece un poco la smorfiosa;
Ma veduto che Gosto colle buone
La prendeva, e che ciò ben altra cosa
Era, che il suon di ruvido bastone,
E ben, ci sto: ella disse: quindi presero
Il lume, e quieti in letto si distesero.

Dal mulin ritornava un certo Maso, Grand'amico d'entrambi, e al raggio incerto Della luna, di li passando a caso,

Vide ch' era di Gosto l'uscio aperto

(Cosa insolita), ond'egli dubitò
Di ladri, ed a chiamare incominciò:

o Gosto!

O Gosto! o Mea! - che sete sordi? ·
O Mea! l'uscio di casa è aperto eh!
Ma udito che non gli venía risposto,
Voll'entrar per vedere che diavol è;
E invece di trovarli addormentati,
Vede che han tanto d'occhi spalancati.
Gua'! figliaccio di ella! o un'enno a'lletto!
Iama, iama, mi sono spormonato!
Nun senti, neh? sordaccio maledetto!
Nun senti, neh, quando tu se'iamato?
O Gosto dio, o Mea! nun rispondete?
O ch' aete pe' orni, neh ch' aete?

Ma quando vide il pover' uom che Mea
E il compar Gosto non dicevan niente,
Cominciò a spaventarsi nell'idea
Che gli fosse venuto un accidente;
Sicchè, via a gambe: ed affannato arriva
Dal parroco, ma il parroco dormiva.

Batti, dagli, e ridàgli, e picchia e mena,
Non c'era modo che verun sentisse.
Dopo un pezzo, alla fin s'affacciò Nena
(La serva del Curato) e così disse:

Chi è? Son io! Chi io?- Presto; son Maso.— Guarda chi è, possa cascarti il naso!

Che vuoi? Presto a svegliar corri er curato, E digli che si spicci in carità,

Che Mea.... che Gosto.... oimmei! mi manca er fiato.....
L'uscio ene aperto.... so'nentrato là....

E gli ho trovi.... ma presto vienga giù....
E gli ho trovi che nimo parla più.

Don Gabbrielle che dal letto sente
La serva bisbigliar: Cos'è successo?
Grida; ed ella risponde: Un accidente.
Eh? un accidente per l'appunto adesso
Che dormivo si ben! poffareddina
Non poteva aspettare a domattina!

Il prete è un buon affar, non ho che dire,
Chè con poca fatica il corpo è pieno;
Ma quella poi di non poter dormire
Quanto si vuole.... e a chi è venuto, almeno?·
Poverini! a Mea e a Gosto. - Eh? non canzoni?
Qua, qua, Nena, le calze, qua i calzoni;

Presto: vammi a pigliare il Rituale....
Quel libro che ho lasciato giù in cantina:
La stola sarà sopra al canterale;
La cotta è sulla panca di cucina;
L'aspersorio è attaccato coi treppiè;
Il resto poi lo prenderò da me.

Come persona che per forza è desta,
Sbavigliava frattanto, e si stirava;
Ma indossatasi poi la bruna vesta,
Le scale non scendea, precipitava,
Per dare all'uno e all'altro moribondo
Il passaporto per quell' altro mondo.
Lettor, sai che ne' secoli passati,
Essendo ognun più corto di cervello,
Avean qualche difetto anche i curati;
Ed è però che il mio don Gabbriello
Un poco tondo ed egoista fu;
Cose che in oggi non accadon più.

Pax huic domus, colà giunto, disse:
Et omnes habitantibus in ea;
Quindi con l'aspersorio benedisse
La muta coppia che colà giacea;
Aggiungendovi quel che si suol dire,
Allor che andiamo a farci benedire.

Poi cominciò pieno di fè e di zelo:
Gosto! figliuolo mio, fratello amato,
Vedi? il ciel ti vuol ben, per questo il cielo
T'ha con un accidente visitato;

Trar dunque da tal visita profitto
Convien, caro figliuolo e Gosto, zitto.

Ma le scale del ciel sono di vetro,
Ed al volo convien esser leggeri,
Nè la roba si può trascinar dietro;
Vedi? e principi e duchi e cavalieri,
Al par di chi sta in umile abituro,
Devon morire ignudi e Gosto, duro.
Infelice per altro è, o figliuol caro,
Chi pone amore alle cose terrene!
Se tu dunque mi lasci del denaro,
Penserò a farti dir poi tanto bene,
E allor potrai d'un avvenir più lieto
Godere eternamente e Gosto, cheto.

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Quindi il buon prete a Mea si volse, a cui Disse chi fa del ben, se lo ritrova: Anche a voi dico quel che ho detto a lui; Se i lenzuol, dunque e la coperta nuova, E le panche, e il saccon mi lascerete, Meglio per voi; se no, non canta il prete. Io non so come Mea la lingua tenne A quel parlar, nè come si frenasse; Ma quando il caro prete a dir poi venne Che avrebbe prese ancor le materasse, No: gridò Mea, che ci ho rifatto il guscio.... E Gosto allor proruppe: O serra l'uscio! O contadini bestie.... e mancò un ette Che di peggio non disse il buon curato.

I suoi passi peraltro non perdette,
E non del tutto si trovò burlato,
Chè Gosto volle ogni anno celebrare
Quel fatto, dando al prete un desinare.
Ove sappiam ch' ei grand' onor si fe':
E se dobbiamo credere alla storia,
Dicesi che mangiasse almen per tre,
E che alzasse un pochetto anche la gloria:
Questo si sa, ma non possiam sapere,
Se poi Mea lasciò a Gosto ben avere.

Per me, credo di no: perchè con gli anni
Perdon le donne il fior di giovinezza,
La beltà, i denti, i femminili inganni,
La salute, i capelli, la freschezza,

Le grazie, il buon umor, gli scherzi gai....
Ma in quanto a lingua, e' non la perdon mai!

TERENZIO MAMIANI DELLA ROVERE.

Nacque a Pesaro il 19 settembre 1799 d' antica famiglia, oriunda di Parma, che dai duchi d' Urbino ebbe il titolo di Conti di Sant'Angelo, e il diritto di aggiungere al proprio cognome quello di

Della Rovere. Studiò da prima

in patria. ove non gli mancarono aiuti e consigli dal Perticari. Il padre che lo vedeva volgere al liberalismo, lo inviò nel 1816 a Roma perchè s'indirizzasse alla prelatura; ma poichè ei persisteva nelle sue idee, lo richiamò in patria (1819), ove attese indefesso agli studj. Morta una donna da lui amata, andò a Firenze (1825-27), ove diede lezioni, tra gli altri al primogenito di Luigi Bonaparte; fu accolto nel circolo del Vieusseux, e collaborò nell'Antologia. Poi fu professore di belle lettere per due anni nell'Accademia militare di Torino, e mortogli il padre tornò ancora in patria (1829), coltivando le lettere e più specialmente

1 Vedi D. SILVAGNI, Una visita al castello dei conti M. d. R., in Nuova Antolog. del 1o agosto 1885.

2 Vedi T. CASINI, La giovinezza di T. M., nella Nuova Antolog., 1° marzo 1893.

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