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per questo, nè che la virtù voglia da me un sacrifizio tanto spaventoso. In secondo luogo, ma che crede ella mai? Che la Marca e il Mezzogiorno dello Stato romano sia come la Romagna e il Settentrione d'Italia? Costì il nome di letteratura si sente spessissimo, costi giornali, accademie, conversazioni, librai in grandissimo numero. I signori leggono un poco. L'ignoranza è nel volgo, il quale se no, non sarebbe più volgo: ma moltissimi s'ingegnano di studiare, moltissimi si credono poeti, filosofi, che so io. Sono tutt'altro; ma pure vorrebbero esserlo. Quasi tutti si tengono buoni a dar giudizio sopra le cose di letteratura. Le matte sentenze che proferiscono svegliano l'emulazione, fanno disputare, parlare, ridere sopra gli studi. Un grand'ingegno si fa largo. V'è chi l'ammira e lo stima, v'è chi l'invidia e vorrebbe deprimerlo, v'è una turba che dà loco e conosce di darlo. Costi il promuovere la letteratura è opera utile, il regnare coll'ingegno è scopo di bella ambizione. Qui, amabilissimo signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini, dell' Alfieri, del Monti e del Tasso e dell'Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c'è uno che si curi d'essere qualche cosa; non c'è uno a cui il nome d'ignorante paia strano. Se lo danno da loro sinceramente, e sanno di dire il vero. Crede ella che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato? come la gemma nel letamaio. Ella ha detto benissimo (e saprà ben dove) che gli studi come più sono rari meno si stimano, perchè meno se ne conosce il valore. Così appuntino accade in Recanati, e in queste provincie, dove l'ingegno non si conta fra i doni della natura. Io non sono certo una gran cosa: ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa: tutto questo non ha fatto mai altro Recanatese a recincto condito. Parerebbe che molti dovessero essermi intorno, domandarmi i giornali, voler leggere le mie coserelle, chiedermi notizie dei letterati dell'età nostra. Per appunto: i giornali, come sono stati letti nella mia famiglia, vanno a dormire nelle scansie. Delle mie cose nessuno si cura, e questo va bene; degli altri libri molto meno: anzi le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch'ella è fatta anche per li cittadini, e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa ella che la frequentino? nessuno mai. Oh veda ella se questo è terreno da seminarci! Ma e gli studi le pare che qui si possano far bene? Non dirò che con tutta la libreria io manco spessissimo di libri, non pure che mi piacerebbe di leggere, ma che mi sarebbero necessari; e però ella non si meravigli se talvolta si accorgerà che io sia senza qualche Classico. Se si vuol leggere un libro che non si ha, se si

vuol vederlo anche per un solo momento, bisogna procaeciarselo col suo danaro, farlo venire di lontano, senza potere scegliere nè conoscere prima di comperare, con mille difficoltà per via. Qui niun altro fa venir libri, non si può torre in prestito, non si può andare da un libraio, pigliare un libro, vedere quello che fa al caso e posarlo; si che la spesa non è divisa, ma è tutta sopra noi soli. Si spende continuamente in libri, ma la spesa è infinita, l'impresa di procacciarsi tutto è disperata. Ma quel non avere un letterato con cui trattenersi, quel serbarsi tutti i pensieri per sè, quel non potere sventolare e dibattere le proprie opinioni, far pompa innocente de' proprj studi, chiedere aiuto e consiglio, pigliar coraggio in tante ore e giorni di sfinimento e svogliatezza, le par che sia un bel solazzo? Io da principio aveva pieno il capo delle massime moderne, disprezzava, anzi calpestava, lo studio della lingua nostra ; tutti i miei scrittacci originali erano traduzioni dal francese; disprezzava Omero, Dante, tutti i Classici; non volea leggerli, mi diguazzava nella lettura che ora detesto: chi mi ha fatto mutar tuono? la grazia di Dio; ma niun uomo certamente. Chi m'ha fatto strada a imparare le lingue che m'erano necessarie? la grazia di Dio. Chi m'assicura ch'io non ci pigli un granchio a ogni tratto? nessuno. Ma pognamo che tutto questo sia nulla. Che cosa è in Recanati di bello? che l'uomo si curi di vedere o d'imparare? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere; la terra è piena di meraviglie; ed io di dieciott'anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato? Le pare che questi desiderii si possano frenare? che siano ingiusti, soverchi, sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L'aria di questa città l'è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi, e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l'ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce. So ben io qual è, e l'ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria; la quale, se m'è permesso di dir cosi, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, com'ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare, e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? E come fare che cessi l'effetto se dura la causa? Che parla ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio noia,

ma questa mi cresce, com'è naturale, la malinconia: e quand' io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia. Non m'è possibile rimediare a questo, nè fare che la mia salute debolissima non si rovini senza uscire di un luogo che ha dato origine al male, e lo fomenta e l'accresce ogni di più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto, e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane: ma per far questo io voglio un mondo che m'alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa), ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore; non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m'attristi e mi forzi di ricorrere, per consolarmi, a quello da cui volea fuggire. Ma già ella sa benissimo ch'io ho ragione, e me lo mostra la sua seconda lettera, nella quale di proprio moto mi esortava a fare un giro per l'Italia, benchè poi (e so ben io perchè) con lodevolissima intenzione, della quale le sono sinceramente grato, abbia voluto parlarmi in altra guisa. Laonde ho cianciato tanto per mostrarle che io ho per certissimo quello che ella ha per certissimo.... (Dall' Epistolario, Firenze, Succ. Le Monnier, 1892, vol. I, n. 23.)

Visita al sepolcro del Tasso; da una lettera a Carlo, 20 febbraio 1823. · ..... Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbe anche venire dall'America per gustare il piacere delle lacrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per procurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all'aria, perchè in luogo del piacere non s'ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d'indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d'una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l'umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d'un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all'infinita magnificenza e vastità de' monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare

e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppure il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquatis cineres, come dice l'iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso. Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. E tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de' telai, e d'altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l'immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisonomie e le maniere della gente, che s'incontra per quella via, hanno un non so che di più semplice e di più umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d'intrigo, d'impostura e d'inganno, come la massima parte di questa popolazione.....(Dall' Epistolario, vol. I, n. 234.)

Agli amici suoi di Toscana, lettera dedicatoria, 15 dicembre 1830. Amici miei cari, Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto: e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e d'ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto

mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il vostro Leopardi. - (Dall' Epistolario, vol. II, n. 681.)

MASSIMO D'AZEGLIO.

Di sè parla a lungo nel libro I miei ricordi: della sua vita d'uomo politico, e per quella parte cui l'autobiografia non arrivò, s'occupa la storia del nostro Risorgimento. Nacque in Torino il 24 ottobre 1798; il suo cognome era Taparelli, ma egli preferi di farsi chiamare Azeglio, dal ca

stello di famiglia (Miei ricordi, vol. I, cap. I, pag. 16). Fu, bambino, col padre esule, a Firenze, poi tornò a Torino, dove a tredici anni frequentò l'Università; indi a Roma, ove il padre rappresentava i reduci principi sabaudi. Tornato ancora a Torino, fu sottotenente di cavalleria nel reggimento Piemonte reale; poi tra' provinciali della brigata Guardie, menando vita un po' dissipata. Dal 1820 al 1826 visse, lasciato il servizio militare, quasi sempre a Roma, dandosi tutto alla pittura e preferendo alla vita

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compassata del patrizio, quella libera dell'artista, ch'ei descrive con vivacità e garbo nei Ricordi. Scelse poi per sua dimora Milano, dove scrisse i suoi romanzi, e sposò nel 1831 Giulia, figlia del Manzoni. Visse in seguito a Torino e in Toscana, donde fu sfrattato nel 1846 per la pubblicazione dello scritto Degli ultimi casi di Romagna, dove, con risolutezza e insieme temperanza di linguaggio, esponeva le tristi condizioni de' paesi sgovernati dai preti. Ma intanto saliva sulla sedia papale Giovan Maria Mastai, che parve voler porre in atto le idee propugnate dal Gioberti, dal Balbo e dal D'Azeglio; e questi si recò a Roma, e prese parte a tutti quei fatti, che spingevano il pontefice nell' impreso cammino. Pubblicò allora parecchie scritture, fra le quali il Pro

1 Vedi E. DEL CERRO, Misteri di Polizia, Firenze, Salani, 1890, pag. 320.

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