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i beni di tutto il mondo, chè mano morta è appunto il collegio di quelli che governano, distributori, direttori di tutte le industrie e di tutti i commerci, come pure di tutti i beni. Al presente i religiosi spontaneamente rinunziano alle loro private ricchezze per l'amore di Dio: gli utopisti costringono gli uomini tutti senza eccezione a rinunziarvi non per amore di Dio, miei Signori, anzi, per amore della terrena e carnale felicità, unico fine di tutti, a tutti dalla legge prescritto. La vita perfettamente comune, benchè assunta per isperanza da un bene eterno, riuscì sovente cosi grave alla umana debolezza, che quei pochi magnanimi che, per seguir perfezione, la elessero, non poterono sempre a tutto rigore osservarla; e furono con estrema severità giudicate dal mondo quelle religioni che in qualche piccola parte l'abbandonarono: gli utopisti sociali all'opposto si aspettano che tutti quanti gli uomini, ubbidienti al loro assolutissimo imperio, osserveranno appuntino la vita comune, loro imposta dalla costituzione della nuova società: ed il faranno senza stimolo di soprannaturali motivi, nè di obbligazione di coscienza; e senza bisogno di alcuna compressione; pel quale loro felicissimo pensamento si piacciono di portare il titolo di comunisti. A chi sarà difficile, o Signori, giudicare la probabilità della buona riuscita di un tale sistema?....

Finalmente il quarto gruppo delle libertà individuali, di cui noi abbiamo fatto menzione, riguarda la facoltà di associarsi gli uomini fra loro a fine onesto, con mezzi onesti. Nè pure queste preziose libertà possono andar salve, meglio delle altre, nel sistema dei nostri utopisti. Il nuovo governo, nella sua sovrana sapienza, egli solo associa, egli solo disassocia gli uomini; già s'intende, non se ne può dubitare, pel bene universale. D'altra parte, che cagione avrebbero più gli uomini d'associarsi insieme, se non hanno più interessi, la procurazione dei quali è tutta a carico del governo? Ma ciò che è vie più degno della vostra considerazione si è, che la natura stessa dei sistemi di riforma di cui parliamo consiste in una cotale unica e semplice associazione di tutto il genere umano, la quale è di necessità inimica di ogni altra spontanea associazione; ella assorbe in sè stessa, per dir meglio, rende impossibile qualunque altra società, che predisposta non sia dal governo quale parte o membro universale; che un'altra e spontanea unione dissolverebbe quel 'sociale edificio, ritraendo in dietro il mondo allo stato antico. Oltredichè l'immaginato governo, che tiene nelle sue mani ogni possibile monopolio recato al suo massimo grado, esercita pure il monopolio del tempo, ed è egli solo quello, secondo il Fourier e compagni, che, come vi dicea, dispone delle ore e dei giorni di tutti, non rimanendo più alcuno che abbia tempo suo proprio; laonde, in che modo potrebbero gli uomini consociarsi a volontà loro, se d'un'ora sola non possono disporre, di tutte disponendo il solo governo?

Un altro dei più essenziali diritti di natura fu mai sempre riputato il potersi ogni uomo a libera scelta, e con istabile nodo, unire in società coniugale, dalla quale incominciò l'istituzione dello stesso uman genere. I riformatori in questo coerenti, aboliscono interamente le stabili nozze; il matrimonio monogamico è per essi la più lacrimevole calamità della terra; chè egli pone un freno alle basse passioni, ed abolisce la felicità delle unioni selvaggie e ferine.

La patria, la nazionalità, la società civile si cessano egualmente: sono surrogate dall'associazione umanitaria. Laonde non più oggimai libertà di vivere sotto quel cielo ove l'uomo nacque e crebbe, ovvero quella di eleggersi un'altra patria, di scegliersi una popolazione, una compagnia amica, fra cui passare la vita, una terra dove abitare e su cui morire. Si ripresero siccome disposizioni illiberali la proibizione o anche qualche ostacolo di certi governi posto all'emigrazione, il rifiuto d'accettare forestieri o l'ammetterli difficilmente al godimento degli stessi vantaggi coi nazionali; parve troppo dura la pena dell'esilio. Ma i nuovi legislatori all' opposto si riserbano la facoltà di distribuire i governati in sulla terra, giusta la loro sapienza e bontà, che non ammette intoppo di sorta alcuna nel suo esercizio, a quella foggia siccome l'industrioso giardiniere dispone in serie dilettevoli a vedersi le piante del suo giardino, o il sapiente muratore alloga le pietre, secondo che gli vengono a mano opportune, per entro le muraglie dell'edifizio.

Ma trasportiamoci pure, o Signori, coll'immaginazione nostra, a quell'età remotissima, nella quale poniamo che sia tutta bella e ordinata l'utopia de' nostri filosofi. Quel magnifico governo che tutte stringe nella sua mano le ricchezze, e tutto il potere di fatto che pensare si possa, come farà egli a governare la terra? Il farà colla persuasione o colla forza? Con questa non può essere, perocchè si tornerebbe alla compressione, tanto abborrita ed esclusa affatto da' sociali riformatori. Colla persuasione adunque. Or quale ammirabile virtù persuasiva non dee avere quel governo d'allora! Quale eloquenza! Quale felicità a volgere a suo senno, forse per virtù magica, tutti quanti i cervelli umani! Quale attività e sollecitudine a fare in ciascuno de' viventi sentire le sue paterne lezioni, da ottenere da tutti nè più nè meno ciò che egli si propone! E senza avere più nessuna necessità di venir mai, con persona alcuna, a termini di rigore! Ma dove, o Signori, questo prodigioso governo rinverrà i potentissimi mezzi di persuasione, co' quali tanta maraviglia egli ottenga? Certo, egli non può parlare ai suoi governati di giustizia, non di dovere, nè può usare della religione a stimolare le coscienze: coteste sono le anticaglie per sempre abolite. Si dirà non aver egli bisogno di molti spedienti a persuadere gli uomini che secondino le loro sensuali passioni. Ma non sarebb'egli possibile, che due

o più uomini contendessero per un medesimo oggetto di lor passione?

E che farà quel governo in tale emergente? Siederà giudice? A quale dei due attribuire l'oggetto a cui hanno uguale attrazione passionata, per usare il linguaggio di Carlo Fourier? Poniamo l'attribuisca ad uno. Quale sarà la sanzione di sua sentenza? Tornerà in campo la forza? O si contenterà di consolare l'appassionato, privo del suo oggetto, con soavi parole? Ma non ha egli un egual diritto dell' altro? Non ha la passione ugualmente focosa? Sebbene, qual diritto dove non vi ha dovere? Rimane il fatto, il solo fatto della passione. Ma il puro fatto, il fatto della passione è la guerra: chi può più, quegli la vince. La passione, senza freno di dovere e di ragione, non può cedere che alla forza. Non rimane dunque che la sola forza appassionata e cieca de' contendenti da una parte, e la forza del governo dall'altra: la guerra adunque, la guerra di tutti contro a tutti è il necessario, l'inevitabile effetto de' proposti sistemi; cioè appunto il contrario dell'effetto da' loro autori promesso: promesso particolarmente da Roberto Owen con queste parole, che « l'assistenza di tutti sarebbe acquistata a ciascuno, e l'assistenza di ciascuno a tutti. » - - (Dal Ragionamento Il comunismo e il socialismo, 1817, nel vol. Filosofia della politica, Milano, Besozzi, 1858, p. 485.)

ANDREA MAFFEI.

Nacque a Molina di Val di Ledro (presso a Riva di Trento) il 19 aprile 1798, di famiglia oriunda veronese. Studiò sotto Paolo Costa, poi continuò la sua educazione a Monaco di Baviera presso lo zio abate Giuseppe Maffei, autore del noto compendio di storia della nostra letteratura.

Sposò il 10 marzo 1832 la contessa Clara Carrara-Spinelli; dalla quale si separò il 16 giugno 1846, dignitosamente per l'una parte e per l'altra, con atto notarile steso da Tommaso Grossi. Si rividero dopo 12 anni nel nov. del '68 e qualche altra volta dipoi, specialmente durante una grave malattia di lui, in Firenze. A lei con versi affettuosi egli volle dedicata nel '74 la traduzione dell'Aroldo byroniano; nè la colta e ricercata gentildonna dispettò mai il nome di contessa Maffei, al quale sono collegate appunto le memorie del suo storico salotto.1

Il Maffei, amante lui pure della vita socievole, confortata sempre da eletti studj, rappresentò anche colla signorile presenza, fino

1 Vedi R. BARBIERA, Il salotto della contessa Maffei e la società milanese (1834-1886), Milano, Treves, 1895: 2a ediz. col tit.: Il salotto della c. M. e Camillo Cavour, Milano, Baldini e Castoldi, 1901.

a' suoi anni più tardi, l'immagine della letteratura aristocratica severa e geniale, ugualmente lontana dalla frivolezza e dalla pedanteria. Fu senatore del Regno su proposta di B. Cairoli. Mori in Milano il 27 novembre 1885, all'Albergo della Bella Venezia ; ebbe solenni funerali il 1° di dicembre, e la sua salma fu trasportata a Riva di Trento.

La sua opera letteraria, che fu in particolar modo poetica, anzi di traduzioni poetiche, cominciò colla traduzione degli idillj del Gessner, che fu pubblicata da prima nel 1818 e poi ritoccata assai nelle successive edizioni. La Biblioteca italiana chiamò quella traduzione una bella infedele. Conosciuto e apprezzato dal Monti, fu suo collaboratore (1823) nella traduzione della Tunisiade del Pickler, della quale non tradusse, del resto, che un episodio (quello di Matilde e Toledo). Il Maffei si volse allora alla Messiade del Klopstock, ma ne pubblicò solo un saggio più tardi. — Tradusse, invece, il Teatro in prosa e in versi dello Schiller (nell'ultima bella ediz. illustrata, fatta nel 1881 da' Succ. Le Monnier, v'aggiunse anche frammenti di tragedie e commedie), e volse pure in italiano le traduzioni del Machbeth e della Turandot (imitazione della fiaba di Carlo Gozzi), adattate dallo Schiller alle scene tedesche. Dello Schiller diede anche le ballate e liriche scelte; voltosi al Goethe, ne tradusse alcune ballate, poi l'Ermanno e Dorotea e il Faust (Firenze, Succ. Le Monnier, 1873, 3a ediz. riveduta), indi l' Ifigenia in Tauride, le Elegie romane e gli Idillj. Sempre dal tedesco, fece versioni di opere del Grillparzer, dello Zedlitz, del Rückert, del Beer; della Bianca Cappello di E. Conrand (Principe Giorgio di Prussia), dell'Almansor, e del Ratcliff drammi giovanili di E. Ileine. Largamente tradusse pure dalla letteratura inglese: il Paradiso perduto di Milton (prima ediz. fiorentina, Firenze, F. Le Monnier, 1863); del Byron (Firenze, F. Le Monnier, 1862) quasi tutti i drammi (Cielo e Terra, Caino, Manfredi, Sardanapalo, Marin Faliero, I due Foscari), novelle, liriche, e il poema Il pellegrinaggio del Giovane Aroldo (Firenze, Succ. Le Monnier, 1874); di T. Moore, Gli amori degli angeli e altri tre poemi; dello Shakespeare, l'Otello e la Tempesta (Firenze, Succ. Le Monnier, 1869).

Poco voltò dal francese: un frammento della Lucrezia del Ponsard, qualche lirica dell' Hugo e del Lamartine, e di Ernesto Legouvé Un ricordo di Daniele Manin. Indichiamo altre delle più notevoli raccolte di queste traduzioni: Poeti tedeschi: Schiller, Goethe, Gessner, Klopstok, Zedliz, Pirker (Firenze, Succ. Le Monnier, 1869); Poeti inglesi e francesi: Byron, Moore, Davidson, Milton, Hugo, Lamartine, Ponsard (Firenze, Succ. Le Monnier, 1870). Qualche versione fece pure da Orazio, e tradusse la raccolta che va sotto il nome di Anacreonte. (La prima ediz. fu fatta in pochi esemplari a Milano dall'editore Giulio Ricordi ; la seconda a Firenze, Suce. Le Monnier, 1875.)

Le poesie originali, alcune delle quali assai delicate e graziose,

sono, di solito, imitazioni o ricordi di cose straniere. (Versi ed. e ined.. di A. M., Firenze, F. Le Monnier, 1858, vol. 2, il primo de' quali fu poi riprodotto col titoto Arte, Affetti, Fantasie, Firenze, F. Le Monnier, 1864; e con quello anche di Liriche, ediz. accresciuta, Firenze, Succ. Le Monnier, 1878). Al libretto del mediocrissimo Piave sul Macbeth, che fu musicato dal Verdi, il Maffei dette versi suoi, e poi verseggiò 1 masnadieri, per la musica del Verdi. Le traduzioni del Maffei furono acerbamente censurate: traduttore traditore lo disse l'Imbriani. Il concetto il criterio del traduttore fu per il Maffei questo: dare alle opere straniere quella veste che gli stranieri avrebbero data ad esse nella nostra lingua. Mirava più che a una vera e propria fedeltà, a raggiungere una somiglianza di effetto il che già si proposero il Caro, il Baldi (nell'Ero e Leandro) e altri famosi antichi, volgarizzatori meglio che traduttori. Ma i lavori tedeschi o inglesi, e di autori così differenti, diventaron quasi tutti ne' rifacimenti del Maffei d'un colore e d'un tono, e se ne persero non di rado gli effetti metrici e le virtù dello stile. Ma non si può chiamare fama usurpata quella d'un valentuomo che amò e coltivò l'arte fino all' ultimo giorno della vita; che diffuse fra noi in forma spesse volte veramente poetica, e con singolare magistero di verso le opere dei grandi poeti stranieri, onde il nome di Andrea Maffei è raccomandato in modo durevole alla storia della fortuna del Goethe, dello Schiller, del Milton, del Byron. E giova anche riflettere che le larghe conoscenze che questo irredento ebbe della letteratura tedesca indirizzò a tutto profitto della cultura italiana, e che pur ammirando le grandi opere straniere s'augurò sempre la gloria della poesia nazionale e la conservazione del suo carattere, lamentando in un sonetto (Quante volte, o Romani, ec.) ch'essa

indole e stile

D'altro popolo assume e d'altro cielo;

Si che labbro non move, o in strania vesta
Più vestigio e splendor della natia

Casta antica beltà non manifesta.

Si provò anche, ma non felicemente al romanzo di costume moderno, col Roberto, storia domestica contemporanea di A. B. pubblicata dal cav. Andrea Maffei (Milano, Guglielmini, 1843, 2 vol.), che, sebbene egli ne appaja soltanto editore, è pur cosa sua.

[Per la biografia, vedi A. DE GUBERNATIS, A. M. nella collez. Illustri ital., Firenze, Ademollo, 1883, col ritratto; G. C. MOLINERI nella Gazz. letter. del dic. 1885; AMBROSI, Scrittori ed artisti trentini, Trento, Zippel, 1894, pag. 167. E vedi anche Atti parlamentari; Senato e Camera dei deputati, Rendiconto delle tornate del 2 dicembre 1885; E. TEZA negli Atti dell'Accad. della Crusca (adun.

In una rivista del 1869 e poi in Fame usurpate, Napoli, Trani, 1877.

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