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Vapor, d'onde virtù venefica esce;
E qualor più dal sol vengon percossi
Tra gli animanti rio morbo si mesce:
Il cacciator fuggendo, dal lontano
Monte contempla il periglioso piano.

Ma il montagnolo agricoltor s'invola,
Da poi che ha tronca la matura spica;
Ritorna ai colli, e con la famigliuola
Spera il frutto goder di sua fatica:
Ma gonfio e smorto dall'asciutta gola
Mentre esala l'accolta aria nemica,
Muore, e piange la moglie sbigottita.
Sul pan che prezzo è di si cara vita.

lo stesso vidi in quella parte un lago
Impaludar di chiusa valle in fondo;
Del di poche ore il sol vede, e l'inimago
Di lui mai non riflette il flutto immondo,
E non s'increspa mai, nè si fa vago
Allo spirar d'un venticel giocondo;
E ancor quando su i colli il vento romba,
Morte stan l'onde come in una tomba.
Le rupi che coronano lo stagno
Son d'olmi vetustissimi vestute;
Crescon dove l'umor bacia il vivagno
I sonniferi tassi e le cicute:

Talor del gregge il can fido compagno
Morì, le pestilenti acque bevute;

E gli augei stramazzar nell'onda bruna
Traversando la livida laguna.

(Dalla Pia dei Tolomei, canto I.)

FRANCESCO AMBROSOLI.

Non deve mancare in questo Manuale, condotto sull'esempio primamente dato per le lettere italiane da Francesco Ambrosoli, un cenno della sua vita operosa, e un saggio di sue scritture. Nacque egli a Como il 27 gennaio 1797, e si laureò in legge a Pavia. Recatosi a Milano per l'esercizio della professione, e questa essendogli interdetta dalla limitazione austriaca al numero degli avvocati, si diede tutto agli studj filologici e letterarj, e fu amico al Mouti e al Giordani. Il primo suo lavoro fu una Grammatica (1820), che ebbe molte ristampe: ma a più alto segno ei mirò colla Dissertazione Dell'Oracolo e degli Anfizioni di Delfo (1821), buon saggio dei suoi studj classici. Molto tradusse in cotesti anni per varj editori lo Strabone pel Sonzogno; Ammiano Marcellino pel Fontana; per la Società dei classici la Storia della Letteratura antica e moderna dello Schlegel; e più tardi la Storia delle Crociate del

Michaud, la Ciropedia di Senofonte, l'Atene del Bulwer, ec. Ottenne nel '28 un impiego nella Biblioteca di Brera, e diede private lezioni, avendo ad alunna, fra le altre, la figlia del Vicerè, futura moglie di Vittorio Emanuele; finchè nel '42 gli fu data a Pavia la cattedra di filologia classica e di estetica. Già aveva nel '31 messo fuori la prima edizione del Manuale della letteratura italiana (Milano, Fontana), ch' ei rifece nel 1860 pel Barbèra, accompagnandolo di alcune ben pensate Considerazioni generali sulla storia della letteratura italiana, e che raggiunse la decima impressione: e parecchi articoli di critica letteraria e storica aveva inseriti nella Biblioteca Italiana e nel Ricoglitore, in che con temperanza di idee e di forme combattè pel classicismo contro le dottrine romantiche. Dopo i fatti politici del '48, ai quali egli aveva partecipato coi voti e col mandar sotto le armi i suoi figli, gli fu nel '50 imposto di inaugurare l' Università ticinese, « toccando », così era detto, con delicatezza, le circostanze per le quali era stata chiusa ed ora si riapriva » : e« nella sua orazione, dice lo Zambelli, seppe mostrarsi libero servendo agli intenti altrui, indipendente quando obbediva, e gettando in faccia al governo le sue liberali promesse, preoccupar un biasimo di vicina e ormai indubitata perfidia ». Consultato dal governo per una riforma degli studj liceali e ginnasiali, fu poi fatto Direttore generale degli istituti di istruzione secondaria in Lombardia: se non che improvvisamente, per arti di nemici, fu privato di quest'ufficio e dell'altro di professore, sì che mestamente tranquillo ebbe a dire ai suoi: Tornerò a lavorare pei tipografi. Ma poco di poi dal ministro dell'istruzione, all'insaputa del quale egli era stato destituito, venne chiamato a Vienna per cooperare collo Schenkl alla compilazione del vocabolario grecoitaliano ad uso delle scuole. Liberata la Lombardia, ritornò in patria, ma non vi ebbe pubblici onori ed ufficj, bensì dalla benevolenza dei colleghi, il titolo di presidente e poi di segretario dell'Istituto Lombardo. Attristato dalla dimenticanza, in che ingiustamente era stato posto, e da domestici dolori, morì ai 19 novembre 1868, lasciando fama di dotto così nelle lettere italiane come nelle classiche, di esperto educatore ed insegnante e di probo uomo.

I migliori suoi Scritti letterarj editi ed inediti furono in due volumi raccolti dal prof. P. Zambelli, che vi prepose un Discorso intorno alla vita e alle opere di lui (Firenze, Civelli, 1871): due vol. intitolati Letteratura greca e latina, scritti editi ed inediti, raccolse, preponendovi un Proemio, il p. S. Grosso (Milano, Hoe. pli, 1872). Postuma fu anche pubblicata una Storia romana durante il dominio romano (Firenze, Polverini, 1871).

[Per la biografia, vedi oltre il cit. Discorso dello ZAMBELLI, FR. ROSSI, Commemoraz. di F. A., Milano, Bernardoni, 1869; A. MAURI,

1 Vedi S. GROSSo, Sugli studj di F. A. nelle lettere greche e latine, Milano, Bernardoni, 1871.

in Scritti biografici, Firenze, Success. Le Monnier, 1878, II, 84; per gli scritti, A. VISMARA, Bibliogr. di F. A., Como, Vismara, 1892, e l'Appendice alla Commemorazione cit. del Rossi.]

Dante e il Petrarca. Se la differenza dal Petrarca all'Allighieri dovesse desumersi dalla lingua, dallo stile, da quello in fine che serve di veste al pensiero e cade sotto la generale denominazione di forma, il cantore di Laura secondo l'opinione di molti dovrebb'essere preferito a colui che volle descriver fondo all'universo: ma la diversità è nella sostanza o nell'intima essenza delle loro opere, nel Soggetto preso a trattare, nel fine che si proposero scrivendo. E poichè l'Allighieri nella Divina Commedia raccolse quanti ammaestramenti poteva somministrare il passato, indagò e descrisse i bisogni del suo tempo, e, per quanto è dato al poeta, castigando i malvagi ed esaltando i buoni, attese a correggere i costumi privati e pubblici ed a far ragionevole la speranza di una futura prosperità; perciò egli lascia a gran distanza da sè il Petrarca, nel cui Canzoniere può dirsi che non vi è cenno di tutte queste alte materie, nè segno vi appare nè cura di questi nobili fini. Il Petrarca fu religioso; ma le prove di questa sua qualità le troviamo nelle notizie della sua vita ed anche nelle sue prose latine; non già nelle poesie italiane, le sole che il popolo potesse intendere. Egli espresse e rappresentò maestrevolmente i pensieri e gli affetti suscitati in lui dall' amorosa passione; ma non si curò d'indagare ciò che la condizione del suo animo potesse aver di comune col genere umano, nè uscì di sè proprio per parlare degli altri ed agli altri. Quindi la sua poesia ci si presenta non di rado come il soliloquio di un uomo, che si attira la nostra stima ed anche la nostra compassione rappresentandoci con sì bell'arte tanto efficacemente il suo interno patire, senza attirarsi per questo la nostra riconoscenza, giacchè non appare che si curi punto nè poco di noi, nè di cosa alcuna del mondo. La Divina Commedia, benchè il poeta si tenga sempre dinanzi al lettore e paia essere in tutto e da per tutto il soggetto principale del poema, nondimeno abbraccia non solo Firenze e l'Italia, ma sotto molti rispetti le principali nazioni d'Europa, e tutto il genere umano. Perciò mentre soddisfa largamente alla curiosità, può anche somministrare una grande istruzione: laddove il Canzoniere del Petrarca, trattando unicamente di lui e del suo amore, deve per necessità e dilettare e istruire, senza confronto, assai meno.

Non per questo sarebbe giusto di considerare il Petrarca come un semplice continuatore della poesia amorosa anteriore; giacchè i suoi versi non sono solamente più eleganti e

più armoniosi di quelli conosciuti fino allora, ma dalla mente erudita e abituata alle filosofiche meditazioni ricevono una dignità e un'importanza affatto nuova. Potrebbe dirsi che il Petrarca, ultimo degli antichi trovatori o poeti d'amore, fu il primo in una nuova serie cominciata e fondata da lui. Maggior gloria a sè e maggiore utilità alle nostre lettere avrebbe recato mettendosi nella via aperta dall' Alighieri, del quale par veramente che non abbia saputo farsi un giusto concetto. Considerata la Divina Commedia dal lato dell'orditura, gli si presentò come una delle molte visioni che allora si usavano, e si persuase di poterla superare scrivendo i Trionfi: e in quanto la Divina Commedia poema politico, vi contrapose le sue Canzoni. Così non seppe (altri crede che non volle) vedere e apprezzare l'alto fine di quel poema, nè I utilità che doveva recare alla nazione; e convalidò col suo esempio l'opinione che la lingua italiana fosse incapace o indegna di alti e grandi argomenti. Ma egli non era, come furono quasi tutti coloro che scrivevano d'amore, un semplice trovatore di bei pensieri e artefice di nobili versi: fu l'uomo più dotto e più facondo del suo tempo, e come tale desiderato alle corti, adoperato dai principi in officj di gran momento o in legazioni di somma importanza, e ricompensato con onori e ricchezze. Però il popolo ed anche i letterati minori che sentivano quella tanta celebrità del suo nome e vedevano le ricchezze delle quali abondava, e le carezze e le comodità nelle quali viveva; non conoscendo di lui altro che le poesie amorose (perchè il latino era letto da pochi), recavano a quelle la sua fama, i suoi onori, le sue ricchezze, e per la speranza di un uguale successo gittavansi per quella via e sforzavansi d'imitarlo. Di questo abbiamo testimonio lo stesso Petrarca, ove dice che oramai non si può contare più il numero di coloro che vanno per le corti cantando versi. E molti di bella presenza e di buona voce, ma privi d'ingegno poetico, si procacciavano, o per compassione od a prezzo, poesie scritte da altri, che forse avevano ingegno è mancavano dell'altre doti; e le andavano recitando per vivere. E il Petrarca stesso cedette qualche volta alle preghiere di alcuni, mosso a compassione della loro miseria; i quali poi ritornarono a rendergli grazie tutti messi a seta ed a oro e ripieni di ricchezza.

Quando morì il Petrarca era scorso già un mezzo secolo dalla morte di Dante, senza ch'egli avesse avuto un imitatore in ciò che costituisce veramente il sommo e singolare suo pregio, voglio dire nel rivolgere la poesia alle cose della politica e della religione, facendola maestra di civiltà e strumento di utilità pubblica. E i buoni imitatori non furono molti nè anche più tardi. Al Petrarca per lo contrario cominciarono lui vivente, furono in alcuni tempi numerosissimi, nè (per poeti d'amore) tutti spregevoli; e benchè

derisi e condannati da un giudizio pressochè universale, non cessarono se non forse ai di nostri. (Dalle Considerazioni sulla storia della letter. ital., nel Manuale ec., vol. IV, pag. 368 e segg.)

ANTONIO ROSMINI-SERBATI.

Di nobile e facoltosa famiglia nacque in Rovereto ai 25 marzo 1797. Studiò a Padova, ove si strinse in amicizia col Tommaseo, ed ove per viva vocazione, e sebbene i parenti a dissuaderlo adoprassero anche il padre Cesari, vestì l'abito ecclesiastico nel 1817, essendo poi nel '21 consacrato sacerdote. Supremi amori suoi furono la religione e gli studj filosofici: di questi diè saggio pubblicando nel '30 a Roma, dopo altri minori lavori, il Nuovo Saggio sull' origine delle Idee, ch'è forse l'opera sua capitale, com'è il fondamento di tutte le sue alte speculazioni: il suo zelo religioso mostrò col sostenere per due anni in patria (1834-36) l'ufficio di parroco. Ma già, e se ne hanno i primi segni nel '25, il Rosmini volgeva in mente il disegno di un nuovo istituto, composto di sacerdoti, e ch'ei denominò della Carità. Ne gettò le prime basi nel '28 a Domodossola, e undici anni dopo, ai 20 settembre 1839, esso venne approvato da Gregorio XVI. L'Istituto della Carità, al quale si aggiunse quello delle Suore della Provvidenza e il Collegio degli educatori elementari per l'istruzione popolare, si diffuse ampiamente, specie in Inghilterra. Ma ei dovette combattere e vincere molti ostacoli; ei Gesuiti, fra gli altri, fieramente avversarono le sue dottrine, protette per qualche tempo da un decreto di silenzio sulle medesime, emanato da Gregorio XVI, e poi, nel '54 da una sentenza assolutoria, con divieto di ulteriori discussioni in proposito. Ai varj assalti rispose virilmente: ma non è da approvarsi l'intemperanza ch'egli adoprò in alcune sue scritture contro il Foscolo, il Gioja, il Romagnosi morti, e contro il Mamiani quand'ebbe pubblicato il suo Rinnovamento della antica filosofia italiana. Gli rese la pariglia il Gioberti con tre volumi Degli errori filosofici di A. Rosmini. Ma quando nuovi fati preparavansi all'Italia, tutt' e tre codesti sommi intelletti si trovarono riconciliati e concordi nel giovar la patria: e il Rosmini fu dal ministro Casati, consigliante il Gioberti, inviato a Roma (agosto 1848), dov' era ministro il Mamiani, per trattarvi della lega de' principi italiani. Venne accolto affettuosamente da Pio IX, che gli annunziò la sua volontà di farlo cardinale, e che dopo l'assalto popolare al Quirinale, lo designò Presidente del Consiglio: ufficio

1 Questa sua missione fu narrata dal R. stesso in un Commentario, pubbl, più tardi a Torino, Pomba, 1:81.

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