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dinanzi a una divisione franca di Macdonald, erano pur composti di quelle medesime popolazioni che fecero in Calabria la sola guerra popolare di qualche conto a que' tempi; ma anche qui ciò era non esercito, ma quel valor personale o popolano, che è stoltezza forse negar a chicchessia al mondo, maggior stoltezza agli Italiani, e massima a' Napoletani. In Spagna, poi in Russia, pochi Napoletani che arrivarono a tempo, non disgradarono il nome italiano, ma eran troppo pochi a stabilir il nome napoletano. Quando poi un soldato non capitano (l'aveva provato testè dall'Oder all'Elba) volle condurre a una mala impresa sua, non napoletana, l'esercito napoletano in sul Po, egli fece perdere a questo il poco nome acquistato; e il nome già perduto, le divisioni tra Napoli e Sicilia, le parti, la occasione d'un acquisto di libertà, pessima fra tutte per la difesa dell' indipendenza, fecer nullo e quasi non esistente quell'esercito all'ultima prova da lui fatta nel 1821. Vi sono dunque scuse. a tutte quelle male prove dell'esercito napoletano, vi son ragioni facili a trovare a quel fatto. Ma le scuse e le ragioni d'un fatto non lo distruggono, anzi lo confermano; e bisogna vederle non per mentire al fatto passato, ma per provvedere a fatti futuri; non per tentare inutilmente di eliminare il fatto succeduto, ma per eliminare le ragioni che l'han fatto succedere...

Ed or chiedo a qualunque sincero Italiano, e massime Piemontese o Napoletano, se queste quali che paiano più o meno probabilità o speranze nazionali si vogliano miseramente sagrificare all'una di queste due altre? Ovvero allo sgravar di qualche soldo per lira le contribuzioni dirette o indirette degli Stati; ovvero a portar su altri capi di lor bilanci, per esempio alle lettere, ai monumenti, od alle imprese industriali, quel tanto che vorrebbero alcuni risparmiare sul capitolo delle spese militari? Perchè insomma ad una di queste speranze si ridurrebbe il rinunciamento delle speranze militari italiane. Ma questi, che senza badarci fanno eco, questa volta si troppo male, a certi discorritori buoni o cattivi stranieri, non hanno atteso certamente in quanto diversa condizione si trovi dall'altre la nazione italiana.

Tutte quelle che parlano di siffatti risparmj militari e di siffatti aumenti alle spese civili, sono tutte nazioni indipendenti, indipendentissime, compiutamente indipendenti; e nelle quali perciò l'eventualità delle guerre sono eventualità di conquiste al di fuori, ch'elle non vogliono, ed han ragione; o tutt' al più eventualità di difesa, a cui credono bastare, appunto perchè hanno quel grande sprone a ciò della indipendenza. Ma questa noi abbiamo ad acquistarla o almeno a compierla, che è quasi lo stesso, non essendo vera nessuna non compiuta; e finchè non sia satisfatta questa gran necessità nazionale, non debbono con

tare, non contano tutte quell'altre, non necessità, ma lusso, ornamento, e quasi vanità. E mirate alle azioni anzichè ai discorsi di quell'altre nazioni; una minaccia, anche lontana, alla indipendenza posseduta fa lor sospendere tutti i progressi, le spese civili, per ispendere a fortificar lor capitali, a fabbricar armi, comprar cavalli, pagar coscritti ed esercitarli. E non dicono nemmeno essi que' popoli così guerrieri, o il dicono pochi non ascoltati fra essi, che sia inutile lo spendere per armare o esercitarsi in pace, ma spendono e spendono e s'affaticano anzi in ciò. Ed essi non hanno lor terre coltivate come son le nostre, l'agricoltura avanzata, capitali immensi accumulati di generazione in generazione come noi sul suolo, sul terreno fecondato italiano; non capitali accumulati sulle vie, sui ponti, su canali d'irrigazione, in maremme diseccate, e poi in città splendide, in tempj, in monumenti splendidissimi; ed ambirebbero pure, e desidererebbono questi lussi, quest'impieghi di lusso de' lor capitali, ma non li fanno, ogni volta che ne veggono altri più necessarj. Eppure noi chiamiamo vane o leggieri queste nazioni, e crediamo sodi noi, ed ingiuriamo talor quel principe o quel ministro, che pur sentendo più sodamente, più virilmente certo, e molto più italianamente adopra il danaro raccolto su noi a quelle che sono le nostre più sode, più virili, più italiane necessità.

E benchè non sia il luogo qui delle considerazioni di costume, io non mi so tener di non aggiugnerne una importante. Poniamo che sian vane, stolte, sognate, poetiche, metafisiche o checchessia quelle speranze da noi dette; poniamo che l'armi italiane di su o di giù sieno inutili a tener ora, ad aver poi, a spignere mai; poniamo che sia tutt'uno l'avere o no dugento mila Italiani per li destini presenti o futuri d'Italia. Volete voi ch'io vel dica con piena verità? Poste tutte queste inutilità politiche, io pur vedrei un'immensa utilità morale ad aver eserciti in ogni nazione, e massime ogni italiana. Che è più morale, più sano all'anima e al corpo, l'ozio o l'operosità? Ciò non val la pena di fermarvisi. Ma tra le operosità, qual più morale e più sana di nuovo, quelle puramente intellettuali, sedentarie, che riducono corpo ed anima inevitabilmente a debolezza ed insieme a una irritabilità, una sensività eccessiva e malaticcia, ovvero quell' altre operosità, che esercitano a vicenda le facoltà del corpo e dell' animo, le mantengono in quell'equilibrio, in quella forza vicendevolmente data o ricevuta, che è sola sanità all' uno e all' altro? Ora niuna operosità riunisce questi due vantaggi al paro della militare.

Non è più il tempo che sien sinonimi vita militare ed oziosa o ignorante. Lo stesso esercito con cui debbono essere le nostre emulazioni naturali, e che trent'anni fa era ancora il più ignorante d'Europa, è ora uno de' più colti. Le scienze militari sono diventate un' enciclopedia, mentre

gli esercizi de' nostri campi e de' nostri quartieri militari son ridiventati un complesso di tutte le arti ginnastiche o cavalleresche, non guari inferiori a' più lodati esercizj de'cavalieri del medio evo, del Campo di Marte romano, o delle Palestre greche. Non volete voi considerare gli esercizj militari come occupazioni necessarie alle provvidenze di guerra? considerateli come la più utile delle esercitazioni di pace; o se volete, come il più sano de' divertimenti. Il più bello de' divertimenti, il divertimento da principi, gran signori che non temono spese, io veggo che è e fu sempre la caccia; e più ne' paesi dove si conservò più forza morale o corporale. Ma l'esercizio della caccia, massime per l'intelletto, non può competere con gli esercizj militari. E poi, in Italia benchè sieno alcuni paesi di caccia, i più, grazie all'avanzata coltura e alla stipata popolazione, non sono tali; ondechè dai più dei giovani italiani si soddisfa all'imperioso bisogno d'esercizio co' lunghi passeggi, colle gite solitarie, cantando arie, facendo versi, o lusingando sogni, che Dio sa quanto sia sano ed utile tutto ciò. Io so d'uno che provò tutti questi esercizj, e di più sforzato dai tempi ed a malgrado suo, parecchie delle occupazioni che fan la vita delle condizioni civili, la pubblica amministrazione, la diplomazia, la vita letteraria, e la vita militare; e dice che di tutte queste varie vite non ci è paragone di sanità e moralità; che tutte, per vero dire, si possono esercitare, ed ei le ha vedute esercitare, virtuosamente, ma che, tra le disposizioni naturali provegnenti dall' una e dall' altra, la franchezza, la sincerità, l'arditezza militare, sono incomparabilmente da anteporre alle virtù di quell'altre vite: che, in quanto a sè, ei si professa riconoscente alla milizia della correzione di parecchi vizj contratti nell'altre. Alcuni economisti piangon le spese, chiamano improduttrice la condizione militare: eppure anch'essi dovrebbero tener conto della sanità, dell' alacrità, della forza delle popolazioni, che son produzioni materiali non meno di tali qualità de' buoi e de' cavalli, ch'ei contan pure nelle loro statistiche. E noi poi, con licenza loro, terrem conto pure dell' ardire, del coraggio, dell' onore, che son produzioni intellettuali militari.

Ei vi ha un campo spianato sul luogo ove furono le fortificazioni di Torino, e nobilitato cosi dalle belle difese del 1620 e del 1706: uno de' lati del quadrilungo è terminato dalla cittadella, fondata sul sepolcro de' martiri della legion Tebea da Emmanuel Filiberto e San Micheli; l'altro lato, dall' arsenale incominciato da Carlo Emmanuele II ed accresciuto poi da tutti i suoi belligeri nepoti; e più in vista lontana poi, quasi due fondi magnificamente apparecchiati, sorgono, ad occidente, il Monviso quasi stendardo di Piemonte, la val di Susa campo di battaglia di Carlomagno, e tutto il gran nodo dell' Alpi verso settentrione;

a sol nascente il Po, i colli principio d'Appennino, e culminante sovra esso il monte di Superga col suo tempio, voto di Vittorio Amedeo alla vigilia della battaglia di Torino; bello, degno campo d'esercizio al più glorioso, al solo antico esercito italiano. Le genti non se ne sono finora accorte; e così la poesia tutta reale di quel bel luogo non è guasta per anco da' vaneggiamenti de' poetuzzi nè dai mali vituperj o male acconce lodi degli scrittoruzzi viaggiatori. Ma quando là, in sul far del dì, si odono da lungi appressare quelle truppe italiane, poche ma a piccoli battaglioni, che accennano il loro destino d'essere finalmente ingrossati e in breve ordinati; si vede spuntar il gruppo del capitano, che è il re italiano di Casa Savoja, circondato da tre principi di casa sua e intorno alcuni resti dei soldati di Napoleone; e incominciar attorniati da que' monumenti, da quelle memorie di storia militare antica, quegli esercizj, che possono essere principio di migliore storia futura; oh! allora se niun petto italiano non batte precipitoso a speranze, e rimane cosi freddo, tranquillo da lasciar luogo a derisioni, oh! dite pure che è spenta in que' petti ogni favilla d'amor patrio, d'onor civile, di virtù, di sdegno, di poesia, di desiderj italiani.

Quanto a me, io ho avuto poco, troppo meno de' miei desiderj, l'onor di imparare in quell'esercito, e non vi ebbi guari occasioni, niun nome, niun profitto, e fortuna in breve troncata; ed all'incontro io debbo alle lettere non dico qualche speranza di nome futuro, ma quest'onore e questa soddisfazione tanto maggior di parlar qui con qualche fiducia d'essere udito da' miei compatriotti con quell'amor mostratomi altre volte; ondechè il mio interesse, il mio egoismo sarebbe d'esaltare le lettere sopra l'armi. Ma, io il dico con sincerità, periscano le lettere, sieno abbandonate, rinnegate del tutto per l'avvenire come il furono quasi sempre finora nel mio paese, e rimanga questo illitterato, rozzo, ed inferiore alle altre provincie italiane, se è necessario ciò a serbare in quest'angolo almeno la gloria delle virtù militari passate, la speranza dall' avvenire. Io credo stoltezza ed ignoranza e falsa deduzione dalla storia antica, quest' incompatibilità che si pone tra le arti di pace e quelle di guerra da alcuni, e credo che nella moderna civiltà sieno molto compatibili; ma s'io m'ingannassi, e fosse necessario il sacrificio dell' une o dell' altre, non esitino mai, ne credano pure un letterato, i miei compaesani. - (Dai Pensieri sulla Storia d'Italia, lib. I, cap. XXVII.)

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TOMMASO GROSSI.

Nacque il 25 gennaio 1790 a Bellano sul lago di Como. Studiò legge a Pavia, e, laureatosi nel 1810 si trasferì a Milano, ove strinse amicizia col Manzoni, che gli cedè due camere in casa sua (Via del Morone, 1168), ed ivi stette modestamente fino a che non si ammogliò. Nel maggio 1838 aprì ufficio di notaro, e in tal qualità nel 1848 rogò l'atto di fusione della Lombardia col Piemonte. Al ritorno degli Austriaci emigrò per qualche tempo; poi rimpatriò, e di lì a poco, ai 10 gennaio 1853, morì. Ha una statua nel palazzo di Brera, un'altra a Bellano con questa epigrafe di A. ManZoni: IL TUO NOME È GLORIA DELL'ITALIA

O TENERO E

PODEROSO POETA - CUI SEMPRE ISPIRÒ IL CUORE.

Delle Opere poetiche del Grossi l'edizione più completa è quella di Milano, Carrara, 1877; di tutte le Opere quella pur di Milano, Oliva, 1862.

Il Grossi cominciò dallo scrivere in dialetto. Del 1815 è la Prineide in sestine milanesi, nella quale finge che gli apparisca l'ombra del ministro Prina, ucciso a furor di popolo. Il componimento venne attribuito al Porta, ma il Grossi se ne dichiarò autore al ministro Saurau, e soffri un breve arresto. Alcune cose vernacole scrisse insieme col Porta, come il dramma in prosa Giovanni Maria Visconti; di suo La pioggia d'oro in 6a rima, La fuggitiva in 8a, che poi tradusse in italiano, e le sestine In morte di Carlo Porta (1821). In queste poesie dialettali, meglio che il maestro ed amico suo, del quale raccolse le opere e scrisse un cenno biografico (Milano, Ferrari, 1821), si mantenne entro i limiti dell'onestà.Scrisse novelle romantiche in 8a rima, secondando il gusto dei tempi: l'Ildegonda (Milano, Ferrario, 1820), l'Ulrico e Lida, lavorata in gioventù e pubblicata più tardi (Milano, Ferrario, 1837) in sei canti, togliendo per esse argomento dalle cronache lombarde del medio evo. Letta la Storia delle Crociate del Michaud e i romanzi di Walter Scott, immaginò da prima una novella, poi un poema, audacemente mirando ad emulare il Tasso: I Lombardi alla prima crociata, in canti quindici in 8a rima (Milano, Ferrario, 1826). Dalla pubblicazione ricavò, caso non comune, un 30,000 Jire. Il poema fu tradotto in latino; ne fu tratto e stampato a parte l'episodio di Giselda, che porse argomento al celebre melodramma musicato dal Verdi. Appena uscito alla luce sollevò grandi tempeste, e pro e contro di esso fu scritto una quantità di articoli e di opuscoli. Non si possono disconoscere i difetti del lavoro, maggiori

1 Vedi G. BUSOLLI, T. Grossi e le sue novelle, Treviso, Zoppelli, 1895: cfr. su di esso, Giorn. stor. d. lett. ital., XXVII, 161.

2 Vedine l'elenco in VISMARA, Bibliografia di T. G., Como, tip. provinciale, 1881.

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