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spesa del carbon fossile necessario a mettere in movimento la « dinamo» (invenzione di Ernesto Siemens di Leuthe: 1816-1892) onde si sviluppa la corrente, sia per produrre la luce elettrica, sia per la trazione dei tramways, dei battelli e degli automobili. Nella illuminazione delle città e delle case il gas idrogeno ha preceduto la luce elettrica. Primo ad usarlo a tale scopo è stato nel 1792 l'ingegnere inglese Murdoch: Londra fu illuminata a gas nel 1814. Mercè la reticella del tedesco Auer vediamo oggidi il gas gareggiare con la luce elettrica quanto all' economia, alla intensità e bianchezza della fiamma.

Si possono immaginare gl' infiniti vantaggi di siffatte opere e di tante stupende invenzioni scientifiche, che altamente onorano il secolo decimonono, per verità di gran lunga superiore agli altri secoli precedenti nell'aver con solerte studio e con assiduo lavoro provveduto al miglioramento del viver civile.

Disgraziatamente però in mezzo a tanto splendore di civiltà le idee anarchiche si sono molto diffuse (uno dei focolari più attivi e pericolosi è Paterson, città dello Stato di New Jersey) e non pochi assassinj politici si sono tentati o compiuti. Abbiamo accennato a quello di cui fu vittima Sadi-Carnot ucciso da un italiano. Un altro italiano trucidò vigliaccamente in Ginevra, ai 10 settembre 1898, l'imperatrice Elisabetta d'Austria: del pari un altro anarchico italiano, ai 29 luglio 1900, spezzò in Monza la nobile vita di Umberto I, empiendo l'Italia e il mondo di raccapriccio e di orrore. A Umberto I, che il comune consenso ha denominato « re buono, leale e padre del popolo è succeduto il figlio Vittorio Emanuele III, nato a Napoli l' 11 novembre 1869, ammogliatosi il 24 ottobre 1896 con Elena Petrovic-Niecośv principessa del Montenegro. Molto si ripromettono gl'italiani dal senno, dalla dottrina e dal carattere del nuovo e giovane re, che porta un nome di fausto augurio e così caro all' Italia. Cingendo la corona paterna, ha solennemente dichiarato nel primo discorso dinanzi al Parlamento nazionale, quando giurò la Costituzione l'11 agosto 1900, che egli intende di offrire il suo cuore, la sua mente e la sua vita alla grandezza e prosperità della patria. » Nè i principi di Savoia hanno mancato mai alla loro parola!

31 dicembre 1900.

D

ENRICO GIULIANI.

NOTIZIE LETTERARIE.

Il secolo decimottavo lasciava, morendo, al secol nuovo un manipolo di illustri scrittori, che dovevano ancor dare bei frutti del loro ingegno: e lasciava inoltre nobilissimi esempj di una forma di letteratura, aliena egualmente dalle gonfiezze del Seicento e dall'inanità delle arcadiche pastorellerie. Questa forma nuova l'avevano inaugurata, rendendo dignità all'arte, Giuseppe Parini

col volger la poesia al miglioramento del costume, e Vittorio Alfieri col trattare sulla scena argomenti civili e istillare sensi di libertà; e da ambedue prendeva auspicj e ammaestramenti, per la lirica e pel dramma, Ugo Foscolo. Le varie fortune d'Italia nell'ultimo scorcio del secolo avevano pòrto argomento alle poesie di Vincenzo Monti: nel nuovo secolo, il maggior artefice di versi che da gran tempo avesse avuto l'Italia, parve degno di accompagnare e celebrare colla solennità delle immagini classiche, le stupende vittorie di Napoleone; intanto che Pietro Giordani, rinnovando il panegirico de' tempi imperiali, esaltava la sapienza civile delle nuove istituzioni. I falsi e sdolcinati amori pastorali e le vanità accademiche avevano pertanto nel verso e nella prosa ceduto il luogo alle imprese militari e ai grandi avvenimenti politici, e i nomi di Arcadia, di Fille, di Cloe e di Dafni, erano sostituiti da quelli di Marengo, di Wagram, di Bonaparte, e dal nome sopra tutto, d'Italia. Con liete speranze adunque aprivasi il secolo decimonono: e la patria nostra, soggetta al cenno napoleonico, pur ne attendeva benefiej maggiori e durevoli. Il nome di Regno d'Italia dato ad una porzione della penisola, fatta partecipe agli splendori dell' impero, dotata di propria milizia, ove gl'ingegni erano riconosciuti e premiati, ed in fiore scienze, lettere ed arti, pareva avviamento alla formazione di uno Stato, che rispondesse col fatto alla maestà del titolo. Se non che il bello italo Regno si sfasciò per interne discordie e per difetto di virtù civile e militare, già prima che ogni speranza di tenerlo in piedi fosse perduta, e il grido di Indipendenza italiana suonò estremo spediente di un avventuriero per salvarsi il trono, anzichè voce concorde di popoli, fermamente deliberati di togliersi di dosso il giogo e formare una sola famiglia. Tornarono gli antichi principi, non ammaestrati dall'esperienza, e men che gli altri quel Borbone, che aveva dato alla scure del carnefice il fiore degli ingegni meridionali: l'Austria riebbe gli antichi dominj, aggiungendovi Venezia, e ai professori di quell'Università di Pavia, che a' tempi di Maria Teresa e poi di Napoleone era stata vivo focolare di scienza, il nuovo Cesare imponeva che gli preparassero non uomini dotti, bensì sudditi fedeli.

Ma in Lombardia appunto, divenuta provincia austriaca e pentita dell'errore commesso nella turpe giornata del 20 aprile 1814, tutt'altro che quiete erano le menti e gli animi; e mentre in segreto adunavansi le congreghe de' carbonari, sorgeva, e in palese si agitava, una controversia, che poteva parere solamente letteraria, ma era ben anche, e altrettanto almeno, politica. Intende ognuno che qui si accenna alla disputa fra Classici e Romantici, che per parecchi anni commosse non la Lombardia soltanto, ove prima era sorta fra noi, ma tutta Italia, e che aveva, anzi, origini esterne e campi di battaglia incruenti in tutt' Europa. Veramente, anche a tanta distanza di tempi, difficil cosa è definire la dottrina romantica con una formola adattabile a tutte le genti ove fece la sua comparsa: tanta è, presso i diversi popoli, la varietà delle forme, de' mezzi e de'fini del Romanticismo, e si strette sono le attinenze sue colla intera vita delle nazioni. Tuttavia potrebbe

dirsi che in ogni dove significasse una scontentezza del presente e un desiderio di qualche cosa di nuovo, così nelle lettere come nelle condizioni civili, e che preparasse l'avvenire colla rinnovazione del passato, cercando la formola degli sperati miglioramenti non in qualche principio astratto, come aveva fatto il secolo XVIII, ma nelle intime tradizioni nazionali. Ond'è che in Germania, volgendosi al passato, parvero i romantici vagheggiare una letteratura che continuasse e riproducesse la cultura teutonica dell'età mezzana; per modo che erano essi, se non tutti, la maggior parte, collegati a quanti in politica sognavano la restaurazione del vecchio edifizio, col Sacro Romano Impero e gli ordini feudali, che gli facevan corona; quando invece, in Francia, ove almeno, se non la libertà, l'unità patria era conquista non contrastata, la contesa ebbe più propriamente indole letteraria, e mirò a liberare la parola dalla veste retorica ed accademica, che la mascherava impacciandola. Ma in Italia il passato glorioso che poteva solo rievocarsi, era quello dell'età de' Comuni, quando le libere città si collegavano contro l'Imperatore germanico, e i popolani, armato il carroccio e sonata la martinella, correvano sopra la nobiltà feudale; quando robusta era la fede, e pur anche la superstizione sincera, sicchè la poesia indi scaturiva vigorosa e con propria impronta. Or queste visioni fra le nebbie delle età trascorse e gli incerti crepuscoli del vagheggiato futuro, ravvicinavano i romantici ai liberali, e l'emancipazione dell'arte mostravasi necessario preludio all'emancipazione dallo straniero. Nè l'Austria ciò ignorava; e prima di imprigionare il Pellico, il Maroncelli, il Confalonieri, e costringere all'esilio lo Sealvini, il Borsieri, il Berchet, il Porro, aveva soppresso il Conciliatore, giornale de' romantici. Non però è da credere che gli avversarj, i classicisti, fossero tutti devoti all'ordine di cose allora imperante; chè se vi furono fra quelli penne vendute all'Austria e a'suoi satelliti, se parodiando i furori di taluni fra essi, il Porta poneva in bocca a quel suo goffo avvocato di Beroldingen che i romantici erano < nemici d' Omero e forse dell' Imperatore e della Chiesa cattolica e suo clero », non però tutti i classicisti, cominciando dal Botta, che più violento degli altri gridò « traditori della patria › i romantici, militavano nelle schiere de' nemici del progresso e della indipendenza e libertà d'Italia. Non viva parte, ad esempio, prese alla disputa il Giordani; ma certo ei stava, pur con libertà di vedute, fra i classicisti; e niuno potrebbe sospettarlo di sensi non italiani, che, anzi, furono in lui vivissimi ed efficaci. Nè amico ai novatori si mostrò il Foscolo, che pur largamente attinse alle idee e forme nuove; ed è strano ch'egli almeno non vedesse, o volesse vedere, i legami che insieme congiungevano il romanticismo e l'idea politica. Miravano sopratutto i classicisti, con gelosa cura, con timore forse soverchio, con intenti, se vuolsi, alquanto ristretti, a mantener salvo il patrimonio della tradizione letteraria, e più che altro erano paurosi dell'imitazione straniera, cominciata già nel secolo scorso, nei concetti e nella forma, dal Cesarotti. Facevano con ciò opera di buoni italiani, specialmente quando nella scuola o co'libri cer

cavano di sbandire il neologismo vizioso ed inutile, e alle forme dialettali o bastarde di ciascuna regione sostituivano forme comuni e legittime: nè potremmo senza biasimo disconoscere la buona opera fatta dal padre Cesari nel restituire alla italianità del linguaggio il Veneto e le Romagne, e quella consimile del marchese Puoti nelle provincie meridionali. Ben poterono essi eccedere nel culto superstizioso della parola; ma è pur da notare che richiamando massime allo studio de' trecentisti, richiamavano anche alla schiettezza e semplicità del dire: e poteva accadere, come di fatto accadde, che parecchi usciti da quelle scuole l'una e l'altra dote trasportassero al pensare e al sentire: non solamente dunque alla forma, ma anche alla sostanza.

Non diverso da questo, in fin dei conti, salvo l'uso ostentato di certe formole e di certi luoghi topici e di trite immagini di scuola, per lo più provenienti da insigni esempj oltramontani, non diverso era l'ultimo intento de' romantici: al retorico, all'accademico sostituire in arte il vero, lo spontaneo: non chiudersi entro il nocciolo delle patrie memorie, ma largamente partecipare al pensiero contemporaneo europeo, e così promuovere una letteratura, che non s'indirizzasse solo alle persone dotte, ma per la sostanza e per la forma potesse e dovesse esser intesa e gustata da tutta la nazione, e accumunandosi col sentire universale, lo riflettesse illustrato e purificato nella parola: che, cessando di esser un balocco di gente colta e un mero giuoco dello spirito, desse frutti a tutti giovevoli, e tutti sollevasse a nobiltà di sensi e di opere: fare insomma o rifare una letteratura nazionale non coi logori frammenti rimescolati e ricommessi dell'antico, ma con tutto ciò che di util materia offrisse la vita moderna, profondamente rimutata dagli ultimi casi politici.

Finita la disputa, durarono i classicisti puri a trastullarsi colle frasi e a panneggiarsi all'accademica, e i romantici puri a guardar la luna, evocar spettri, proseguir fuochi fatui; ma intanto erasi formata una dottrina media, che, formulata già dal Manzoni, col dire che le lettere dovevano avere « l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo », raccolse i suffragj della maggiore e miglior parte degli scrittori. Ma, nelle condizioni in che allora trovavasi l'Italia, qual più utile scopo e più nobile potevansi proporre le lettere, che aiutarne la redenzione? A questo fine supremo può dirsi che si coordini tutta la letteratura nostra fino al 1848, diretta a ingagliardir gli animi, e nudrir le menti, a migliorare il costume, a formare una educazione nuova dell' intelletto e del cuore, nelle classi colte e nelle umili, e così dell' uomo come del fanciullo. Il risorgimento intellettuale, morale e civile d'Italia fu termine palese od occulto di ogni prodotto letterario: si indovinava, se era nascosto, si presupponeva anche quando l'autore non ci avesse accennato. Questo proposito civile costituisce, è vero, la parte non diremmo, inferma, ma caduca della produzione letteraria di cotesto periodo, che, tuttavia, le attribuisce, per altro verso, un titolo imperituro di gloria, e le merita tutta la gratitudine dei posteri. Le liriche del Rossetti, del

Berchet, del Poerio, le cantiche e le novelle del Pellico e del Grossi, le tragedie del Niccolini, i romanzi del Grossi, del Cantù, del d'Azeglio, e sopratutti quelli del Guerrazzi, furono, qual più qual meno, drizzati a rammentare agli italiani il dover loro di rifarsi una patria, di strapparsi dal cuore il brutto germe delle fraterne discordie, di imitare que' pochi esempi di virtù civile, che offrivano le storie del passato. E il romanzo del Manzoni, sebbene non sembri contenere nessuna allusione all'Italia d'allora, sebbene da taluno, anche di non corto intelletto, sia stato definito il libro della reazione, mostrava chiaro a qual grado di miseria civile e morale potesse giungere un popolo non più padrone delle proprie sorti, ma soggetto alla tirannide straniera, della quale la violenza e l'arbitrio scendendo dall'alto giungevano giù giù, fino a impedire la libertà di due poveri contadini, non d'altro colpevoli che di onesto amore. Nè ciò che il Manzoni insegnava era la codarda e supina rassegnazione, ma la fiducia in chi, superiore alle umane passioni, non abbandona il debole che in lui si rimette.

Lo studio stesso della storia s'informò a concetti politici, portando la face della critica nel buio specialmente dell'età mezzana: la disputa, ad esempio, agitatasi con tanto ardore e tanta dottrina fra il Capponi, il Capei, il Troya, il Balbo ed altri, sugli effetti della caduta del regno Longobardo, non era solamente una indagine attraente per la difficoltà sua, nè mirava tanto a determinare quante gocce di sangue barbarico potessero essersi infiltrate nelle vene del giovine popolo italiano, quanto a ben chiarire l'origine e l'indole latina, non germanica, delle nuove istituzioni e della civiltà nuova, che in quel fatto hanno la lor prima e remota radice. E oltre queste indagini storiche, non deve dimenticarsi la gran copia di documenti sineroni allora usciti a luce, pei quali, seguendo le orme del gran Muratori, venne ad esser illustrata la vita di ogni regione d'Italia. E qui giova rammentare due insigni collezioni storiche: quella cioè promossa da re Carlo Alberto, dei Monumenta historia patriæ, che tanta luce gettò sulle vicende delle regioni subalpina e ligure, e l'altra promossa da privati, e che ogni parte della Penisola comprendeva, dell'Archivio storico Italiano fondato da G. P. Vieusseux, già benemerito della cultura italiana pel giornale l'Antologia. Anche la critica, vuoi storica, vuoi letteraria, secondava le necessità dei tempi, nè avevano corto intendimento i governi di Lombardia e di Toscana, quando, leggendo fra riga e riga, scorgevano allusioni pericolose e richiami al passato, ed accenni ad un miglior avvenire, negli scritti stessi che pur talvolta eran passati sotto gli occhi dei regj censori, e finalmente colpivano di sentenza mortale, a Milano il Conciliatore, l'Antologia a Firenze. Non diversi intenti proponevansi anche gli studj filosofici, di lor natura astratti; e mentre il Mamiani propugnava il rinnovamento dell'antica dottrina italiana, le speculazioni metafisiche del Gioberti, dal «Sopranaturale» scendevano ad affermare il Primato universale dell'Italia, e a proporre i modi di restaurarlo; e con cotesto libro, che doveva aver tanta efficacia sulle sorti del paese, faceva il Gioberti, capo della scuola neo-guelfa, l'ultimo

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