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ch'ella sapientemente concorre nell'assioma di Dante, che lo bello volgare seguita uso, e lo latino arte. Ciò è a dire: che la sola arte suole adoperarsi quando una favella è già tutta estinta, ma, fin ch'ella vive, non può tanto seguirsi l'arte, ch'ella si divida dall'uso. Per la qual cosa noi qui arditamente affermeremo che lo scrittore è come il principe, che non regna sicuro se il popolo nol possa amare; e come non si occupa mai felicemente il trono col solo popolo, così nè anche senza il popolo si può lungamente tenere. Questo intesero e intendono gli scrittori classici di tutte le nazioni e di tutte l'età. Nè Cicerone e Virgilio amarono tanto i loro avi, che per quelli spregiassero i coetanei; scrivendo orazioni e poemi colle sole voci di Catone e di Curio. Nè Catone nè Curio medesimi si erano partiti dall'usanza de' loro tempi adoperando le brutte voci de Fauni e l'orrido numero di Saturno o la favella che si parlò quando le vacche d'Evandro muggivano per lo foro romano. I fondatori dell'eloquenza latina tentarono anch'essi di farsi nobili, siccome il tentarono sempre tutti i maestri delle nazioni nobili. E grande fu Livio Andronico e Plauto, che detto era la Musa decima; e Lucilio, che inventò la Satira; ed Ennio da Taranto, che ristorò l'Epica; e Lelio e Cecilio, che con altissimo animo recarono la tragedia e la commedia greca sul pulpito di Roma. Ma comechè veramente costoro fondassero favella o stile, e fossero creduti classici, pure e Cicerone e Cesare e Lucrezio e Catullo e Orazio furono venerati anch'essi come maestri del dire; e spezialmente quando arricchirono il patrio sermone colle dovizie de' Greci. Gli eccellenti Italiani adunque si mossero a fare il simigliante; videro non essere possibile le cose epiche e le politiche scrivere colle sole parole de' padri loro: tolsero il fondamento e le norme dalla vecchia favella: nulla mutarono di ciò che era buono e pronto al bisogno, ma, dove la conobbero scarsa per cantare armi ed eroi e per dipingere le tremende arti dei re, recarono nella loquela tutte quelle dizioni, che a bene spiegare si nuovi ed alti concetti mancavano. Così al modo de' saggi coltivatori fecero più bella e magnifica questa pianta, levandole dintorno molte vane frasche e dannose, recidendone i rami già fatti secchi e da fuoco, e innestandovi alcuni altri tolti dai tronchi greci e latini i quali subito vi si appresero, e tanto felicemente si fecero al tutto simili al tronco italiano, che più non parvero rami adottivi, ma naturali. Onde, visti quei frutti novelli, la fama gridò ottimi e classici coloro, per cui si produssero; e li pose al fianco del Petrarca e di Dante e di tutti i più solenni maestri. Non si può or dunque più gittare, ma tutto deesi adoperare, che fu materia a quei libri, i quali dureranno finchè vivrà memoria di noi. Che se si dovesse scrivere nella sola lingua de' vecchi, non solo faremmo danno alla copia dello stile, ma ancora alla nostra

gloria. Imperciocchè si converrebbe dire e giudicare imperfetti tutti gli autori, che dal Trecento infino a questa età con intelletti sani ed anime dignitose scrissero o poetando o perorando o filosofando. E se poi senza questi si dovesse venire al confronto de' Francesi, degl' Inglesi, degli Alemanni, non avremmo un' epopea, non una storia, non un trattato di filosofia, che s'avesse più ardire di chiamar ottimo. Così al cospetto di quei nobilissimi popoli noi svergognati e quasi mendichi, vedremmo questo superbo idioma tolto dal primo seggio, a cui si stimava inalzarlo, tra gli ultimi confinarsi; e noi rimanerci senza l'onore di quei libri, onde vinciamo la gloria di molte genti, nè siamo ancor secondi ad alcuna. Aggiungasi che, salvo la Divina Commedia, il Decamerone e il Canzoniere, gli altri volumi del Trecento saranno meno validi a sostenere la guerra del tempo, e ne' lontani giorni saranno o già perduti o non letti; ed ultimi potranno mancare nella memoria dei tardissimi posteri questi poemi del Furioso e della Gerusalemme, e queste opere di filosofi e di gravissimi istorici, perchè di tanto ci fa fede la fama, che n'uscì non pure all' Italia, ma ai termini della terra. Quindi le cose scritte al modo di questi autori saranno sempre più lette e meglio intese, e più durevoli e più care a quanti amano Italia. Come dunque sbandire i preziosi vocaboli in tanto preziose carte riposti? Chi sarà coşi folle, che voglia persuaderci ad abbandonarle e chi si valente che il possa? Diremo anzi che il popolo, usato a commuoversi alla maraviglia, al terrore, alla pietà, nel leggere questi autori, accuserebbe di freddi e digiuni coloro, che non adoperassero quelle voci, quelle forme, quegli artificj, quegli stimoli, onde ora egli è assuefatto a sentirsi dolcemente rapire, come per incanto, il cuore e lo spirito. Che se in questi più nuovi libri sieno talvolta alcune guise non belle e alcune voci non elette, queste non seguansi, anzi si guardino come colpe; perchè nullo, per quanto siasi eccellentissimo, dee stimarsi mai interamente immacolato. Non tali però si credano tutte le cose, che appieno non rispondessero con gli antichi. Basta che queste sieno state accolte per buone dai buoni, e imitate da loro, e per tali tenute nell'universale, e costantemente. Perciocchè stimiamo che della lingua affatto si avveri ciò che di tutte le umane cose affermava Pitagora: quello, cioè, esser vero che si reputa vero. (Dail' opera Degli scrittori del Trecento e dei loro imitatori, lib. II, cap. XI.)

La famiglia del contadino.

A una sposa.

Vieni, fanciulla mia, vien dentro il bruno
Mio capannel; vedraivi il matrimonio

Tutto fiorito e senza spino alcuno.

Figlioletti vedrai tutti d'un conio;
Leggiadri tutti e da una mamma fatti,
Chè piena d'ogni ben del comprendonio.
Ella fa della casa tutti i fatti;

Dispon le massarizie tutte quante:
Cura il porco, il marito, i figli e i gatti;
Levasi al lume delle stelle, e, innante
Che mi si rompa il sonnellin dell'oro,2
Risveglia il foco dal tizzon fumante;

Apre usci e serra; un cigolar sonoro
Di carrucole senti, ed alto freme
De' percossi telaj l'aspro lavoro.

Quando moviam per la campagna insieme,
S'io ho l'aratro meco, ell' ha il cestello;
S'io schiudo il solco, ella vi gitta il seme.
S'io cantando do dentro all'orticello,
Ella cantando lava, e i panni sbatte;
S'ella fa nulla, ed io gratto il porcello;

Finchè poch' erbe e bruno pane e latte
In sul far bruzzo a un desco assiem ci pone,
Dove la fame coll'amor combatte.

Quando la faccia d'oro il sol ripone,
E le bocche s'acconciano ai badigli,*
Quanta è la gioja del tuo Menicone!
Si fa la casa un cova di conigli;
S'adunan tutti, e mi ballano accanto
Sino i figli de' figli de' miei figli.

Io non rattengo per la gioja il pianto,
E li palpo e li stringo, e più beato
De' principi e dei re mi credo intanto.

Vien fanciulla, a veder che dolce stato!
Vieni, fanciulla, e ti so dir che un branco
Sempre vorrai di figlioletti allato.

E chiusa la capanna; per lo bianco
Ciel la neve s'addensa, el freddo vento
Soffia, e sbatte alle querce il nudo fianco.

Dan le appese lucerne un lume lento,
E fa di pochi stecchi un focherello
Picciola fiamma e picciol movimento.

Qua Menichetto sta presso un fastello
Di lunghe paglie, e in cerchio le contesse,
Onde I nonno la state abbia il cappello.

Più là Cecchino verdi giunchi intesse
A farne fiscellette pel mercato
A comperarne il sajo e le brachesse.
Strimpella Pippo il cembalo scordato,

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E s'appronta la Tancia a mattinare;
Chè Pippo per la Tancia è ammartellato.
Nencia sua suora s'acconcia a ballare,
E alzando colla destra il guarnelletto
Fa la sinistra al fianco ciondolare.

2

Ella è di Menicon l'alma e il diletto;
Quand'ella compie il ballo, s'inchina ella,
Poi torna indietro, e fammi uno scambietto.3
Io come sale struggomi a vedella,
E, tremolando per gioja, appuntello
Sovra i polsi la barba e la mascella.

Nudo e paffuto intanto un bambinello
Alle ginocchia veggiomi venire,

Che ognor che 'l veggo egli mi par più bello.
Sembra che di parlarmi abbia disire;

Ma il me' che sappia è il farmi un risolino
E guatarmi nel viso ed arrossire.

Le gambe ha in arco, il capo ha d'oro fino,
Grosse le braccia, e le guance han colore
Tal che per siepe mai, nè per giardino
April non vide si políto fiore.

Mettilo al buio; tu una stella il credi;
Dágli le penne; è l' angiolel d'amore.

Meo, Beco e Ciapo, come tu mi vedi,
Tutti allor veggio, e saltanmi sul collo,
Dentro le braccia, alle ginocchia, ai piedi;
Si che mi corre giù per lo midollo
Di latte di dolcezza una tal vena,
Che pieno il cuor ne porto el ciglio mollo.
La Tina intanto la culla dimena,
E il fantolin, che dentro le sorride,
Volge a dormir con lunga cantilena.

La Mea dall'arcolajo il fil divide,
E alla nonna, che presso la balocca
Di folletti e di fate, attenta ride;

Finchè le fugge di mano la rocca,
E narrando e inchinando appiè del foco,
La favola le muor sovra la bocca.

Non v'è più fiamma; solo il carbon fioco
Scintilla; e il lume per le negre gole
Delle lucerne cade a poco a poco.

Si stan le donne, nè fan più parole
Come presso la sera si stan quete
Le cicalette quand'è morto il sole.

(Dalla Cantilena di Menicone.)

A salutar col canto mattutino: colla mattinata.

2 Innamorato.

3 Salto che si fa ballando.

LORENZO COSTA.

Di famiglia patrizia, nacque a Spezia ai 18 ottobre 1780. Studió giurisprudenza a Genova; ma attese alle lettere italiane e latine. Rimangono incompiuti un poema latino su Andrea Doria, e uno italiano, il Cosmo, del quale furono pubblicati solo sei canti (Genova, Pellas, 1846); sparse o inedite, finora, la maggior parte delle sue liriche, salvo un Inno al Paganini (1837), una canzone a Genova (1840) e una pel monumento innalzato a Napoleone a Marengo (1847), ambedue pubbl. da A. NERI, Sarzana, Ravani, 1876, ma la seconda, che riproduciamo, già inserita da Z. BICCHIERAI nell' Antologia poetica (Firenze, Le Monnier, 1855). Ora le sue Liriche raccolte dal card. Alimonda, vennero stampate a Genova, tip. degli Artigiani, 1892, alle quali altre aggiunse LUIGI D'ISENGARD, nella Rassegna Nazionale del 1° agosto 1894. Il suo maggior titolo alla fama è il poema il Colombo, in otto libri (Genova, Ponthenier, 1846; 2a ediz., Torino, Unione tipogr. edit., 1858), in che vincendo di gran Junga altri che vi si erano provati fin dal sec. XVII,' narrò la scoperta dell'America e glorificò l'eroe di essa. Superò in esso molte difficoltà, arrivando perfino a descrivere la forza motrice del vapore, che un giorno avrebbe rinnovata la navigazione; tratteggiò bene la grandezza morale di Colombo; temprò ottimamente e variò il verso; ma ormai un poema epico era frutto fuor di stagione, e la macchina poetica irrugginata non vi si muove libera e franca, impedita da episodj e non giovata dalla larga introduzione del sovrannaturale. Quest' illustre rappresentante della tradizione classica morì in Genova ai 16 luglio 1861.

[Per la biografia vedi ANT. CROCCO, Della vita e degli scritti di L. C., Genova, 1868; MICHELE SARTORIO, Cenni biograf. preposti alla cit. stampa delle Due Canzoni; A. NERI, L. Costa: Aneddoti, lettere, poesie, nella Rass. Nazionale del febbr. 1884, e ASCANIO LATINO, Di un poeta ligure, Genova, tipogr. Operaja, 1899.]

Pel monumento da innalzarsi a Napoleone I in Marengo. (1817.)

Io vi saluto, o campi

Fieri nella memoria,

De la tresca danzata al suon di guerra,

Quando fra tuoni e lampi

Incorono Vittoria

1 Vedi C. STEINER, Crist. Colombo nella poesia epica italiana, Voghera, Galli, 1891.

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