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fatti radice vera di tutte le costituzioni. Pur nondimeno, anche i collegj furono in quella notte pervertiti, mutilandoli di quanti membri rappresentavano i dipartimenti e le città del Regno che non parlavano il puro dialetto lombardo. Finalmente con legge acclamata fu decretato, doversi inibire ogni ingerenza e consiglio nelle faccende pubbliche agli uomini dotti, come adulatori venali, inettissimi a tutti diritti ed ufficj di cittadinanza. Or voi, di ciò e d'ogni cosa siate memori e grati al genio di Napoleone ed al vostro. E non per tanto, anche i meno sciagurati di quella moltitudine insanguinata erano stati subornati di grado in grado da' patrizj canuti e da' preti lor parasiti, a farsi esecutori di ogni scelleraggine con sicura coscienza; e senza dire della religione, furono indotti a credere: Che gli stipendj ricevuti da voi,1 per adulare Napoleone, non derivavano dalle imposte de ventiquattro dipartimenti del Regno, bensì tutti dal territorio milanese- Che la prosperità di ricchezze in Milano non derivava in parte anche dalle rendite delle vostre famiglie traslocatesi in quella città, e dalle signorili allettate a dignità di magistrature e di corte; bensì dalla inesauribile fertilità del suolo lombardo - Che quantunque non bisognassero a voi le elemosine, e trovaste sempre lavoro, pur nondimeno pigioni e pane incarivano, non perchè l'affluenza di tanto oro da tutte parti, e di nuovi traffichi e abitatori che lo portavano avessero invilito il danaro; bensì perchè la tristizia de'ministri, segnatamente per mezzo del ministro delle Finanze, levava tasse affinchè i forestieri fossero nudriti da' Milanesi. I ministri dunque furono tenuti tutti ladroni, e il conte Prina fu sentenziato ad essere sbranato a tradimento di patrizj e furore di popolo; e fu sbranato. A que' patrizj non parve vero di sedere sul trono una volta, e governare da patriarchi il loro buon popolo; e parlandogli alle orecchie ed al ventre, afferrarono questa occasione. Or va e parla alla moltitudine ed insegnale filosofie di prosperità pubblica e di libertà! Voleva in Milano, come da per tutto, meno lavoro e più pane; voleva saziare anche l'appetito naturale e insaziabile della umana malignità; invidiava chiunque le pareva arricchito di poco; venerava le antiche razze per tradizione, e credeva anche a patrizj stati educati da'frati, e ch'erano cresciuti nelle impurità sfacciatissime; che erano abbrutiti nell'ozio, e nell'antichissima servitù sino dall'età de' Visconti; e acciecati nell'ignoranza, e atterriti alla voce lontana d'ogni soldato e riescirono aristocratici inetti. Gli austriaci, onorandoli, dissero che non intendevano di violare la tregua o derogare alla sovranità milanese, o dare consigli all'assemblea legislatrice del popolo libero: ma che

1 Il discorso è diretto ai membri del Senato italico, cooperatori alla caduta di Napoleone e del Regno.

con alcuni de' loro reggimenti verrebbero a mantenere concordia, finchè gli Alleati avessero risposto a' deputati a Parigi. Onde vennero, e s'insignorirono d'ogni cosa. (Dalla Lettera apologetica, Prose politiche, vol. V delle Opere.)

GIULIO PERTICARI.

Di nobile famiglia stabilita a Pesaro, nacque in Savignano di Romagna il 15 agosto 1779. Dopo finiti i primi studj, si recò nel 1801 col conterraneo suo e poi illustre archeologo Bartolommeo Borghesi in Roma, dove si addottorò in giurisprudenza, applicandosi tuttavia col Biondi, col Di Negro e con altri, alle lettere e alle belle arti. A Savignano fu per circa due anni podestà; fermò poi dimora a Pesaro ove ebbe pubblici ufficj e, tra gli altri, quello di giudice supplente. Dopo la costituzione del regno italico fu membro nel Collegio elettorale nella sezione dei dotti, e nel 1807 disse nell'Accademia Pisaurica e pubblicò un Panegirico di Napoleone, riprodotto a Parigi nel 1837 con frammenti volgarizzati delle Epistole e di altre opere del Petrarca di carattere politico. Lo stile n'è pomposamente entusiastico; e termina col far fede all'Italia, rediviva per opera di Napoleone, che fin nell' Eliso, a si lieto spettacolo anche il rigido Catone si è « riconciliato coi re. > Nel 1812 sposò la bellissima Costanza figlia di V. Monti,1 e queste nozze furono celebrate dai maggiori poeti del tempo, negli Inni agli Dei Consenti (Parma, Bodoni, 1812). Legato per tal modo di parentela e d'intimità col Monti, viaggiò spesso con lui, spesso l'ebbe seco in Pesaro, cui la frequenza di dotti e artisti e l'ospitalità di casa Perticari procurò il nome di Atene delle Marche. Nel 1814 sperò in Murat, che ospitò in sua casa a Savignano, e che lo voleva far suo Ciambellano, e divenne amico al general Pepe, nutrendo con lui fallaci speranze sull'avvenire d'Italia,3 e a lui indirizzava una Vita di Cola di Rienzo, rimasta incompiuta. Nel 1816 s'interessò molto, e vi cooperò con discorsi, voti, sussidj, alla ricostruzione del teatro pesarese. Nel 1818 tornò a Roma, ed ivi promosse col Biondi, col Betti, coll' Odescalchi, la pubblicazione del Giornale Arcadico, coll'intento di combattere, com'ei diceva gli ossianeschi e i frugoneschi,» ma piuttosto il romanticismo nel 1820 ebbe festose accoglienze a Firenze e a Pisa; nel 1821 visitò col Monti la Lombardia e la Venezia. Poi tornò nelle Marche, essendoglisi aggravati antichi malori; e per rinfrancarsi, si recò nel maggio del 1822 a Sancostanzo, in casa del cu

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1 Vedi E. MASI, La figlia di V. Monti, in Parrucche e Sanculotti, Milano, Treves, 1886, pag. 239.

Vedi G. ROMAGNOLI, G. Rossini, G. Perticari Vita italiana, nuova serie, III, 14 (1897), pag. 106. 3 Vedi G. PEPE, Memorie, Lugano, 1817, 1, 367,

la Gazza ladra, nella

gino Francesco Cassi, e il 26 giugno 1822 vi mori di affezione al fegato, pianto dal suocero e da quanti allora avevano gentilezza di studj.1

Il Perticari aveva cominciato, come molti dotati di inclinazione naturale al poetare, a improvvisar versi, e a scriverne poi sul gusto frugoniano. Più tardi ne compose di più meditati, con qualche tentativo d'imitazione dantesca: ricordiamo una Visione in terza rima sulla nascita del Re di Roma (1811), una cantica pure in terza rima sul Prigioniero apostolico per il ritorno di Pio VII a Roma (1814), dal quale, dopo tante procelle, molto ei sperava per la moderazione e santità di lui. Scrisse anche per nozze una Cantilena di Menicone in terza rima sul fare dei rusticali toscani. Miglior fama cercò ed ebbe come prosatore, specialmente colla narrazione Della morte di P. Collenuccio, di cui pubblicò la Canzone alla morte nella Bibl. italiana, vol. III, 1816; e più ancora, coi due libri Degli scrittori del trecento e dei loro imitatori (1817) pubblicati nella Proposta famosa del Monti, e colla Apologia dell' amor patrio di Dante e del suo libro intorno il Volgare eloquio (1820), inserita pur essa nella Proposta, dove nella prima parte sostenne che le acerbe parole di Dante contro Firenze erano mosse dal desiderio dell' unità italica e non dall' odio del suo luogo natale; » e nella seconda parte, professando esser la lingua italiana « comune a tutti, non peculiare d'alcuno » e ch'essa erannoda d'un santo laccio questa bella famiglia, disgiunta dalla forza,» riprodusse e ampliò le dottrine del Raynouard sul latino rustico dell' età di mezzo. Parlando della Proposta nella biografia del Monti abbiamo ricordato i principali fautori ed oppugnatori, che ebbero allora le dottrine perticariane. In uno scritto sostenne l'istituzione d'una cattedra di letteratura italiana nell' Università di Roma, vero capo d'Italia (1818), che solo nel 1826 fu affidata a L. M. Rezzi, unita all'insegnamento dell' eloquenza latina.

D

Tra le illustrazioni cui attese di scrittori antichi, ricordiamo le edizioni di scritti del Sacchetti, del Frescobaldi, del Guicciardini, e i lavori, che non compì, intorno al Convito, e al Dittamondo di Fazio degli Uberti. Nella pratica seguì l'uso degli scrittori, ma non dei soli trecentisti, ed ebbe il merito di tenersi, tra' puristi e barbareggianti, in un giusto mezzo, sebbene nello stile sia qua e là manierato, e non di rado prolisso.

Le opere sue furono in due volumi raccolte nel 1839 a Bologna, tipogr. Guidi all'Ancora. In queste vi ha anche una scelta

1 Vedi GIACOMO TOMMASINI, Storia della malattia per la quale morì G. P., Bologna, Nobili, 1823; F. M. TORRICELLI, Della morte del c. G. P., lettera a V. Monti, Pesaro, Nobili, 1823.

2 Vedi R. MURARI, G. P. e le correzioni degli editori milanesi al Con vivio, Firenze, Olscki, 1897.

3 Vedi su questi lavori preparatorj M. PELAEZ, Notizie degli studi di G. P. sul Dittamondo, Lucca, Giusti, 1597.

di sue lettere: alle quali sono da aggiungersi quelle stampate a Faenza, Conti, 1856 e 1859, e due alla moglie, stampate da T. CASINI (per nozze Cassin-D'Ancona), Pesaro, Federici, 1893.

[Per la biografia oltre il MESTICA, Manuale cit., vol. I, vedi A. BENCI, Elogio di G. P. nell'Antologia, 1822; la Vita di G. I. MONTANARI e l'Elogio di P. COSTA nell'ed. cit. delle Opere; FR. VENDEMINI, Discorso intorno alla vita e alle opere di G. P. con un Saggio della vita di Cola di Rienzo, Bologna, Zanichelli, 1875; S. SCIPIONI, G. P. letterato e cittadino, Faenza, Conti, 1888.]

Dell'imitazione degli Scrittori del Trecento. Primamente speriamo che i prudenti lettori vorranno qui gittare questo saldissimo fondamento: che le scritture, cioè, sono ordinate a' coetanei ed a' posteri e non a' defonti. E certo solamente colui che stanco de' vivi volesse scrivere pe' morti, e guidato dalla Sibilla gire all' Eliso, e colà recare i suoi libri, colui solo dovrebbe scriverli al solo modo de vecchi; e tutte fuggire attentamente le parole di nuovo trovate, per timore che quelle sante ombre non potessero ora intendere quelle cose, che già in vita non poterono udire. E questo consiglio sarebbe a que' morti carissimo e a tali scrittori necessario. Ma chi scrive a' vivi, come pur tutti facciamo, chi scrive nodrito di tante belle ed alte dottrine, che dopo quella età sopravvennero, e dopo si grandi e magnifici poemi, che ne seguenti secoli si cantarono, conoscerà che non tutto l'oro dell'italiana favella si trovò ne' confini del Trecento; ma molto pur ne scuoprirono l'altre età; e fu oro sì bello e vero, che non potrassi gittare giammai senza oltraggio apertissimo di tutti que classici, che sono l'onore e il lume dell'italiana repubblica. Perciocchè si lasci quel che dice Boezio, che atto di niunissimo ingegno è sempre usare le cose trovate e non mai trovarne, egli è pur certo che per tale consiglio questa favella di ricchissima che ella è, si farebbe la poverissima di tutte l'altre. Perchè, dicendosi d'usare quella del solo Trecento, bisognerebbe aggiugnere di voler poi lasciarne tutte quelle ree condizioni da noi di sopra considerate; e con questo direbbesi di volere scrivere con una sola parte d'una parte della universale favella. Conciossiachè parte di questa è la lingua del Trecento; e parte di essa parte è quella che si sceglierebbe onde schivarne le qualità già dannate. E per tal modo, quasi fosse poco il ritrarre l'idioma dall'ampio cerchio di cinque secoli dentro le angustie d'un solo, si tornerebbe anche a restringerlo in più brevi confini, che già non era nello stesso Trecento.

E miserabile veramente se ne farebbe la nostra condizione; quasi fosse per noi destino il vivere da schiavi sempre; perchè, usciti così di fresco dal servaggio delle straniere voci, dovessimo ora cadere nel servaggio de' morti.

Ma perchè incurvarci a sì strana catena? ridurci a si nuova guisa di povertà? far vane le cure e l'opere maravigliose di tanti ingegni? e spogliarci di tanta pompa? e tremare in nudità maggiore che non fu quella de' vecchi? Questo al certo è consiglio non da prudenti e lo diremo anzi simigliante a quello di colui, che volesse farci dimenticare i velluti, le porpore e le delizie tutte dell'Italia vivente per tornare a cingerci di cuojo e d'osso, come già facevano Bellincion Berti e la donna sua. Questo non sia; chè, come tra' vivi ci restiamo, così scriviamo pe' vivi; e per essi adopreremo tutte quelle voci e quelle forme, che ora da' letterati si conoscono per buone e nobili, e spezialmente quelle che, poste negli scritti de' grandi, furono poscia da altri grandi imitate. Nè permetteremo che di sfregio sì disonesto vadano offesi i sapienti autori del Vocabolario, che non dal solo Trecento, ma da tutti gli ottimi di tutti i tempi tolsero e tolgono quell'ampio tesoro, che è aperto a' bisogni dell'eloquenza, ed a mostrare l'ampiezza tutta e la forza di questa mirabile ed ancor vivente favella.

E, finch'ella sia vivente, si potrà sempre accrescere: tuttoché la licenza se n'abbia a concedere con grande parcità, e deggia poi farsi in ogni giorno minore. Imperocchè quanto più s'è ringrossata la massa delle voci, tanto più la favella è salita verso la sua perfezione ; e quanto più ella è perfetta, tanto è maggiore il pericolo che le voci nuove sieno o inutili o avverse alla natura di lei. Ma perchè quelle cose che ancora non avessero un proprio nome che le significasse, si hanno a significare, i sapienti Accademici della Crusca nella prefazione al Vocabolario hanno promesso che saranno registrate anche le voci future, le quali fossero di buona e necessaria ragione. E già nel 1786 elessero consiglio d'indicare molti autori, da cui molte si togliessero. Del che sia lode a quell'Accademia così famosa; nè sappiamo quindi il perchè il valente Lami, che pur toscano era e si tenero delle glorie della sua patria, dicesse il Vocabolario essere compilato quasi fosse di lingua morta. Perchè, se il dice tale per gli esempli posti sotto le voci, egli danna un sussidio bellissimo agli scrittori e il miglior modo, per cui conoscasi il vero prezzo delle parole, e l'unica via per che si scuoprano i naturali loro collegamenti; ma, se dice il Vocabolario essere come di lingua morta, credendo che in quello non si vogliano altro che le voci dei morti, egli è del pari in errore. Perchè anzi in essa prefazione si legge «< che l'Accademia ha seguita non la sola autorità, ma eziandio l'uso, come signore delle favelle vive; tale essendo la natura di queste, di poter sempre arrogere nuove voci e nuovi significati. » Non istaremo qui coi più rigorosi a cercare fino a qual punto sia stata messa ad effetto questa protestazione; nè quale sia l'uso seguitato dall'Accademia, l'universale o piuttosto il particolare. A noi basta il vedere

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