Così gl'interi giorni in lungo incerto Sonno gemo! ma poi quando la bruna Notte gli astri nel ciel chiama e la luna, E il freddo aer di mute ombre è coverto; Dove selvoso è il piano e più deserto Allor lento io vagando, ad una ad una Palpo le piaghe onde la rea fortuna,
E amore, e il mondo hanno il mio core aperto. Stanco mi appoggio ora al troncon d'un pino, Ed or prostrato ove strepitan l'onde, Con le speranze mie parlo e deliro.
Ma per te le mortali ire e il destino Spesso obbliando, a te, donna, io sospiro: Luce degli occhi miei, chi mi t'asconde?
E tu ne' carmi avrai perenne vita Sponda che Arno saluta in suo cammino, Partendo la città che del latino
Nome accogliea finor l'ombra fuggita.
Già dal tuo ponte all'onda impaurita Il papale furore e il ghibellino
Mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino Del fero vate la magion si addita.
Per me, cara, felice, inclita riva Ove sovente i piè leggiadri mosse Colei che vera al portamento Diva In me volgeva sue luci bëate, Mentr'io sentía dai crin d'oro commosse Spirar ambrosia l'aure innamorate.
Alla nativa isola Zacinto.
Nè più mai toccherò le sacre sponde Ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell'onde Del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fêa quelle isole feconde Col suo primo sorriso, onde non tacque Le tue limpide nubi e le tue fronde L'inclito verso di colui che l'acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio Per cui bello di fama e di sventura Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Dell' Alfieri: la casa che egli abitò è presso al ponte di Santa Trinita (ora Palazzo Masetti).
Tu non altro che il canto avrai del figlio, O materna mia terra; a noi prescrisse Il fato illacrimata sepoltura.
In morte del fratello Giovanni.
Un di, s'io non andrò sempre fuggendo Di gente in gente, mi vedrai seduto Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo Il fior de' tuoi gentili anni caduto.
La madre or sol, suo di tardo traendo, Parla di me col tuo cenere muto; Ma io deluse a voi le palme tendo; E se da lunge i miei tetti saluto,
Sento gli avversi Numi, e le secrete Cure che al viver tuo furon tempesta, E prego anch'io nel tuo porto quiete.
Questo di tanta speme oggi mi resta Straniere genti, l'ossa mie rendete Allora al petto della madre mesta.
Carme a Ippolito Pindemonte. All'ombra de' cipressi e dentro l'urne Confortate di pianto è forse il sonno Della morte men duro? Ove più il Sole Per me alla terra non fecondi questa Bella d'erbe famiglia e d'animali, E quando vaghe di lusinghe innanzi A me non danzeran l'ore future, Nè da te, dolce amico, udrò più il verso E la mesta armonia che lo governa, Nè più nel cor mi parlerà lo spirto Delle vergini Muse e dell'Amore, Unico spirto a mia vita raminga; Qual fia ristoro a' di perduti un sasso Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! anche la Speme, Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve Tutte cose l'obblio nella sua notte;
E una forza operosa le affatica
Di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
E l'estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perchè pria del tempo a sè il mortale Invidierà l'illusion che spento
1 Toglierà a sè stesso l'illusione di sopravvivere nelle lasciate memorie, prima già che il Tempo le distrugga egli?
Pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando Gli sarà muta l'armonia del giorno, Se può destarla con söavi cure Nella mente de' suoi? Celeste è questa Corrispondenza d'amorosi sensi, Celeste dote è negli umani; e spesso Per lei si vive con l'amico estinto E l'estinto con noi, se pia la terra Che lo raccolse infante e lo nutriva, Nel suo grembo materno ultimo asilo Porgendo, sacre le reliquie renda Dall'insultar de' nembi e dal profano Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, E di fiori odorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d'affetti Poca gioja ha dell'urna: e se pur mira Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto Fra 1 compianto de' templi acherontei, O ricovrarsi sotto le grandi ale Del perdono d'Iddio: ma la sua polve Lascia alle ortiche di deserta gleba Ove nè donna innamorata preghi, Nè passeggier solingo oda il sospiro Che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri Fuor de' guardi pietosi, e il nome amorti Contende. E senza tomba giace il tuo Sacerdote, o Talia, che a te cantando Nel suo povero tetto educò un lauro Con lungo amore, e t'appendea corone; E tu gli ornavi del tuo riso i canti Che il lombardo pungean Sardanapalo, Cui solo è dolce il muggito dei buoi Che dagli antri abdüani e dal Ticino Lo fan d'ozj béato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento Spirar l'ambrosia, indizio del tuo Nume, Fra queste piante ov'io siedo e sospiro Il mio tetto materno. E tu venivi
E sorridevi a lui sotto quel tiglio,
Ch'or con dimesse frondi va fremendo
Perchè non copre, o Dea, l'urna del vecchio
Una recente legge (del 1806) rinnovava ed ampliava la proibizione di seppellire altrove che nei cimiteri, e accomunando ogni classe di cittadinanza, contrastava la superstite rinomauza agli illustri defunti.
2 Il Parini.
3 Dai seni dell'Adda.
Il boschetto dei tigli nel sobborgo orientale di Milano,
Cui già di calma era cortese e d'ombre. Forse tu fra plebei tumuli guardi Vagolando, ove dorma il sacro capo Del tuo Parini? A lui non ombre pose Tra le sue mura la città, lasciva D'evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l'ossa Col mozzo capo gl'insanguina il ladro Che lasciò sul patibolo i delitti. Senti raspar fra le macerie e i bronchi La derelitta cagna ramingando
Su le fosse e famelica ululando;
E uscir del teschio, ove fuggia la Luna, L'úpupa, e svolazzar su per le croci Sparse per la funerea campagna, E l'immonda accusar col luttuoso Singulto i rai di che son pie le stelle Alle obbliate sepolture. Indarno Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade Dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti Non sorge fiore, ove non sia d'umane Lodi onorato e d'amoroso pianto.
Dal di che nozze e tribunali ed are Diêr alle umane belve esser pietose Di sè stesse e d'altrui, toglieano i vivi All'etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi, che Natura
Con veci eterne a sensi altri destina.1 Testimonianza a' fasti eran le tombe, Ed are a' figli; e uscian quindi i responsi De' domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento: Religion che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta Tradussero per lungo ordine d'anni. Non sempre i sassi sepolcrali a' templi Fean pavimento; nè agl' incensi avvolto De' cadaveri il lezzo i supplicanti Contaminò; nè le città fùr meste D'effigiati scheletri: le madri
Balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono Nude le braccia su l'amato capo Del lor caro lattante, onde nol desti Il gemer lungo di persona morta Chiedente la venal prece agli eredi Dal santuario. Ma cipressi e cedri
1 Destina a comporre altri esseri viventi.
3 Continuarono, trasmisero. Che chiede agli eredi i compri suffragi nel tempio.
Di puri effluvj i zefiri impregnando Perenne verde protendean su l'urne Per memoria perenne, e preziosi Vasi accogliean le lacrime votive. Rapían gli amici una favilla al Sole1 A illuminar la sotterranea notte, Perchè gli occhi dell'uom cercan morendo Il Sole; e tutti l'ultimo sospiro Mandano i petti alla fuggente luce. Le fontane versando acque lustrali Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea A libar latte e a raccontar sue pene Ai cari estinti, una fragranza intorno Sentía qual d'aura de' beati Elisi. Pietosa insania che fa cari gli orti De' suburbani avelli alle britanne Vergini dove le conduce amore Della perduta madre, ove clementi Pregaro i Genj del ritorno al prode Che tronca fe'la trionfata nave Del maggior pino, e si scavò la bara. Ma ove dorme il furor d'inclite geste E sien ministri al vivere civile L'opulenza e il tremore, inutil pompa E inaugurate immagini dell' Orco Sorgon cippi e marmorei monumenti. Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,3 Decoro e mente al bello italo regno, Nelle adulate reggie ha sepoltura Già vivo, e i stemmi unica laude. A noi Morte apparecchi riposato albergo
Ove una volta la fortuna cessi Dalle vendette, e l'amistà raccolga Non di tesori eredità, ma caldi Sensi e di liberal carme l'esempio.
A egregie cose il forte animo accendono L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella E santa fanno al peregrin la terra Che le ricetta. Io quando il monumento Vidi ove posa il corpo di quel grande Che temprando lo scettro a' regnatori Gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
1 Chiudendo nelle tenebre le lampade sepolcrali.
2 All'ammiraglio Nelson, che si preparò la bara coll'albero maestro
dell'Oriente, preso nella battaglia di Aboukir ai francesi.
I collegi dei dotti, dei negozianti e dei possidenti, che formavano il corpo elettorale del regno d'Italia.
A coloro che a quel triplice volgo non appartengono, basta una semplice tomba.
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