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Il passaggio del San Bernardo fatto da Napoleone (1800). Erano le genti già adunate tutte a Martigny di Vallese sul Rodano, terra posta alle falde estreme del Gran San Bernardo. Guardavano con meraviglia e con desiderio quelle alte cime..... Partivano il di diciassette maggio da Martigny per andarne a conquistar l'Italia. Maraviglioso l'ardore loro, maravigliosa l'allegria, maraviglioso ancora il moto ed il fervore delle opere. Casse, cassoni, truogoli, obici, cannoni, carretti ruotati, carretti sdrucciolevoli, carrette, lettiche, cavalli, muli, bardature, arcioni, basti da bagaglie, basti da artiglierie, impedimenti di ogni sorte, e fra tutto questo soldati affaticantisi, ed ufficiali affaticantisi al par dei soldati. S'aggiungevano le risa e le canzoni, i motti, gli scherzi: le piacevolezze alla francese erano quelle poche, e gli Austriaci ne toccavano delle buone. Non a guerra terribile, ma a festa, non a casi dubbj, ma a vittoria certa pareva che andassero. Il rumore si propagava da ogni banda: quei luoghi ermi, solitarj e da tanti secoli muti, risuonavano insolitamente ad un tratto per voci liete e guerriere. L'esercito strano e stranamente provvisto al malagevole viaggio, saliva per l'erta alla volta di San Pietro fin dove giunge la strada carreggiabile. Pure spesso erte rapidissime, forre sassose, capi di valli sdrucciolenti si appresentavano; i carri, i carretti, le carrette pericolavano. Accorrevano presto i soldati, a braccia sostenevano, puntellavano, traevano, e più si affaticavano e più mettevano fuori motti, facezie e concetti, parte arguti, parte graziosi, parte frizzanti: così passavano il tempo e la fatica. I tardi Vallesani, che erano accorsi in folla dalle case, o piuttosto dai tugurj e dalle tane loro, vedendo gente si affaticata e si allegra, non sapevano darsi pace; pareva loro cosa dell'altro mondo. Invitati e pagati per aiuto, il facevano volentieri. Ma più bisogna faceva un Francese, che tre Vallesani. Le parole e i motti che i soldati dicevano a quella buona gente per la tardità delle opere e per le fogge del vestire, io non gli voglio dire. Cosi arrivavano i repubblicani a San Pietro, Lannes colla sua schiera il primo, siccome quello che per l'incredibile ardimento il Consolo sempre mandava, lui non solo volente, ma anche domandante, alle imprese più rischievoli e più pericolose. Quivi si era arrivato ad un luogo, in cui pareva che la natura molto più potesse che l'arte od il coraggio: perciocchè da San Pietro alla cima del Gran San Bernardo, dove è fondato l'eremo dei religiosi a salute dei viaggiatori in quei luoghi d'eternale inverno, non si apre più strada alcuna battuta. Solo si vedono sentieri stretti e pieghevoli, su per monti scoscesi ed erti. Rifulse la pertinacia del volere e la potenza dell'umano ingegno. Quanto si rotolava, fu posto ad essere

Erano moltissime, forma ironica.

tirato, quanto si tirava ad essere portato. Posersi le artiglierie grosse nei truogoli; i truogoli sugli sdruccioli, e dei soldati, chi tirava, chi puntellava, chi spingeva: le minute sui robusti e pratichi muli si caricarono. Così, se Jan Iacopo Triulzi montò e calò con grosse funi di roccia in roccia per le barricate nella stagione più rigida dell'anno le artiglierie di Francesco I, tirò Bonaparte quelle della repubblica sui carri sdrucciolevoli e sulle bestie raunate a quest'intento. Seguitavano le salmerie al medesimo modo tirate e portate. Era una tratta immensa : in quelle svolte di rapidi sentieri ora apparivano ora scomparivano le genti: chi era pervenuto all'alto vedeva i compagni in fondo, e con le rallegratrici voci gl'incoraggiava. Questi rispondevano, ed al difficile cammino s'incitavano. Tutte le valli all'intorno risuonavano. Fra le nevi, fra le nebbie, fra le nubi apparivano le armi risplendenti, apparivano gli abiti coloriti dei soldati; quel miscuglio di natura morta e di natura viva era spettacolo mirabile. Godeva il Consolo, che vedeva andar le cose a seconda de' suoi pensieri, e soldatescamente parlando a questo ed a quello, che in ciò aveva un'arte eccellente, gl'induceva a star forti ed a trovar facile quello che era giudicato impossibile. Già s'avvicinavano al sommo giogo, ed incominciavano a scorgere l'adito che in mezzo a due monti altissimi aprendosi, dà il varco alla più sublime cima. Salutaronlo, qual fine delle fatiche loro con gioiose voci i soldati, e con isforzi maggiori intendevano al salire. Voleva il Consolo che riposassero alquanto: Di cotesto non vi caglia, rispondevano, badate a salir voi, e lasciate fare a noi. Stanchi, facevano dar nei tamburi, ed al militare suono si rinfrancavano e si rianimavano. Infine guadagnarono la cima, dove non così tosto furono giunti che l'uno con l'altro si rallegrarono, come di compiuta vittoria. Accrebbe l'allegrezza il vedere mense appresso all'eremo rusticamente imbandite per opera dei religiosi, provvidenza del Consolo, che aveva loro mandato denari all' uopo. Ebbero vino, pane, cacio; riposaronsi fra cannoni e bagaglie sparse, fra ghiacci e nevi agglomerate. I religiosi s' aggiravano fra i soldati con volti dipinti di sedata allegrezza: bontà con forza su quel supremo monte s'accoppiava. Parlò Buonaparte ai religiosi della pietà loro, di voler dare il seggio al papa, quiete e sostanze ai preti, autorità alla religione: parlò di sè e dei re modestamente, della pace bramosamente. I romiti buoni, che non avevano nè cognizione né uso nè modo nè necessità dell'infingere, gli credevano ogni cosa. Quanto a lui, se, tratto da quell'aria, da quella quiete, da quella solitudine, da quella scena insolita, si lasciasse, mutandosi, piegare a voler far per affezione quello che faceva per disegno, io non lo so, nè m'ardirei giudicare; perchè da un lato efficacissima era certamente l'influenza di quella pietà e di quei monti, dall'altro tenacissima

incredibilmente e sprezzatrice dell' umane cose la natura di lui. Fermossi a riposare nel benigno ospizio un'ora.

Quando parve tempo, comandava si partisse. Voltavano i passi là dove l'italico cielo incominciava a comparire. Fu dillicile e pericolosa la salita, ma ancor più difficile e pericolosa la discesa; conciossiachè le nevi tocche da aria più benigna, incominciavano ad intenerirsi e davano mal fermo sostegno. Oltre a ciò la china vi era più ripida che dalla parte settentrionale. Quindi accadeva che era lento lo scendere, e che spesso uomini e cavalli con loro, sfuggendo loro di sotto le nevi, nelle profonde valli erano precipitati, prima sepolti che morti. Incredibili furono le fatiche ed i pericoli: poco s'avvantaggiavano. Impazienti del tardo procedere, ufficiali, soldati, il Consolo stesso, scegliendo i gioghi dove la neve era più soda, precipitosamente si calavano sdrucciolando fin a Etrubles. Era un pericolo, e pure era una festa: tanto diletto prendevano e tante risa facevano di quel volare e di quell' essere involti chi in neve grossa, e chi in polverio di neve. Quelli che erano rimasi al governo delle salmerie, arrivarono più tardi per gl'incontrati ostacoli. Riuniti a Etrubles, gli uni cogli altri si rallegravano dell'esser riusciti a salvamento, e guardando verso le gelate e scoscese cime, che testè passato avevano, non potevano restar capaci del come un esercito intero con tutti gl'impedimenti avesse potuto farsi strada per luoghi orribilmente disordinati da sconvolgimenti antichi, e potentemente chiusi da perpetui rigori d' inverno. Ammiravano la costanza e la mente del Consolo, delle future imprese felicemente auguravano. Pareva loro, che a chi aveva superato il San Bernardo, ogni cosa avesse a riuscire facile e piana. Intanto le aure soavi d'Italia incominciavano a soffiare: le nevi si squagliavano, i torrenti s'ingrossavano, le morte rupi si ravvivavano e si rinverdivano. I veterani conquistatori, riconoscevano quel dolce spirare gridavano Italia: con discorsi espressivi ai nuovi la descrivevano: nei veterani si riaccendeva, nei nuovi si accendeva un mirabile desiderio di rivederla e di vederla; la esperienza ricordava il vero, la immaginazione il rappresentava e l'ingrandiva: le volontà diventavano efficacissime già pareva a quegli animi forti ed invaghiti che I'Italia fosse conquistata: solo pensavano alle vittorie, non alle battaglie. (Dalla Storia d'Italia dal 1709 al 1814, libro XX, ediz. Didot, Parigi, 1824, tomo IV, pag. 7 e segg.)

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Ritorno dei Francesi oltr' Alpe nel 1814. Era giunto il momento dell'ultimo vale fra gli antichi compagni: i soldati di Francia salutavano commossi, abbracciavano piangenti i soldati d'Italia; a loro migliori sorti auguravano; ultimo grado di disgrazia chiamavano che la disgrazia li separasse; offerivano gli umili abituri loro in Francia; venissero, si ricorderebbero dell'avuta amicizia, delle comuni battaglie, della

con le medesime armi acquistata gloria; fuoriche Italia non sarebbe, tutto parrebbe loro Italia; la medesima amicizia, la medesima fratellanza troverebbero; voler essi con le povere facoltà loro pagare all' Italia il debito di Francia. Così con militare benevolenza addolcivano i soldati di Francia le amarezze dei soldati d'Italia. Questi, all' incontro, ai loro partenti compagni andavano dicendo: gissero contenti, che, se l'Alpi li separerebbero, l'affezione e la ricordanza dei gloriosi fatti insieme commessi li congiungerebbero; conforto loro sarebbe il pensare che chi conservava la patria si ricorderebbe di chi la perdeva; la disgrazia rinforzare l'amicizia; avere per questo l'amore dei soldati italiani verso i soldati francesi ad essere immenso; vedrebbero quello che in quell'ultimo eccidio fosse per loro a farsi per satisfazione propria e per onore dell' insegne italiche; ma bene questo credessero, e nel più tenace fondo dell'animo loro serbassero, che, come li avevano veduti forti nelle battaglie, così li vedrebbero forti nelle disgrazie; questo speravano di mostrare al mondo, che, se più patria non avevano, patria almeno di avere meritavano. Che Eugenio e che Napoleone a noi? dicevano: gloriosi, li servimmo; benefici, li amammo; infelici, fede loro serbammo: ma per I'Italia i nomi diemmo, per l'Italia combattemmo, per l'Îtalia dolore sentimmo: il dolerci per si dolce madre fia per noi raccomandazione perpetua a chi con animo generoso a generosi pensieri intende.

Partivano i Francesi, alla volta del Cenisio e del Colle di Tenda incamminandosi; gli ultimi segni di Francia a poco a poco dall' Italia scomparivano, ma non iscomparivano nė le ricordanze di sì numerosi anni, nè il bene fatto, nè anco il male fatto, quello a Francia, questo a pochi Francesi attribuendosi; non iscomparivano nè i costumi immedesimati, nè le parentele contratte, nè gl'interessi mescolati; non iscomparivano nè la suppellettile dell' accresciuta scienza, nè gli ordini giudiziali migliorati, nè le strade fatte sicure ai viandanti, nè le aperte fra rupi inaccesse, nè gli eretti edifizj magnifici, nè i sontuosi tempj a fine condotti, nè l'attività data agli animi, nè la curiosità alle menti, nè il commercio fatto florido, nè l'agricoltura condotta in molte parti a forme assai migliori, nè il valor militare mostrato in tante battaglie. Dall'altro lato non iscomparivano nè le ambizioni svegliate, nè l'arroganza del giudicare, nè l'inquietudine degli uomini, nè l'ingordigia delle tasse, nè la sottigliezza del trarle, nè la favella contaminata, nè l'umore soldatesco; partiva Francia, ma le vestigia di lei rimanevano. Non venti anni, ma più secoli corsero dalla battaglia di Montenotte alla convenzione di Schiarino-Rizzino. La memoria ne vivrà finchè saranno al mondo uomini. — (Ibid., libro XXVII, ediz. cit., tomo IV, pag. 506 e segg.)

VINCENZO COCO.

Fu di Campomarano nel Sannio, ove nacque ai 10 ottobre 1770. Andato a Napoli a compiervi gli studj, prese parte ai moti politici, e al ritorno de' Borboni prima fu imprigionato, poi condannato all'esilio. Riparò in Francia, ed ivi scrisse il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, che stampò nel 1801 a Milano (e ivi, Sonzogno 1806), dove nel 1802 fu compilatore del giornale del governo, ed ebbe incarico di scrivere una Statistica della Repubblica Cisalpina. Invitato a andar a Cracovia professore, come prima a Torino nel Liceo, non accettò. Mise mano a un romanzo storico, sul fare dell'Anacarsi, e seguendo i concetti di G. B. Vico, nel quale volle ritrarre le condizioni civili e intellettuali dell'Italia meridionale, quando fu detta Magna Grecia; il Platone in Italia, ch' ei finse essere traduzione di un dissotterrato manoscritto greco, fu pubblicato nel 1805. Liberata Napoli dai Borboni, vi tornò nel 1806 ed ebbe ufficio di consigliere di cassazione, e di membro della Giunta incaricata della compilazione del codice civile; fu anche di quella per la riforma degli studj, e poi consigliere di Stato, e direttore del Tesoro. Tornati i Borboni non fu remosso: ma, avendogli il ministro Medici, o com'altri dicono il Principe di Salerno, a malizia o ingenuamente, chiesto di leggere il suo Saggio, n'ebbe tale impressione che, rinnovandoglisi antichi malori di nervi, a poco a poco perdè l'intelligenza.' Durò in tale stato dal 1816 al 13 dicembre 1823, dopo aver bruciato tutti i suoi manoscritti, fra i quali erano la seconda parte del Platone e le Osservazioni sulla storia d'Italia, anteriore al V secolo di Roma. Oltre le due opere citate, si hanno di lui alcuni Frammenti di lettere politiche a Vine. Russo; diverse lettere sull'agricoltura degli antichi italiani (Napoli, 1805) e il Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione (Napoli, 1848).

[Per la biografia, vedi GABRIELE PEPE, in Antologia, vol. XIV (1824), MARIANO D'AYALA, innanzi al Saggio storico, ediz. di Firenze, Barbèra, 1865, e P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della prov. di Molise, Campobasso, Salomone, 1864, I, 1-36.]

Persecuzione de' repubblicani napoletani nel 1799. Dopo la partenza di Méjeant, si spiegò tutto l'orrore del destino che minacciava i repubblicani.

Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma già da due mesi un certo Speciale, spedito espressamente

1 B. CROCE (Studi stor. sulla rivoluz. napolet. del 1799, Roma, Loescher, 1897, pag. 209) assevera che questa è una storiella d'origine borbonica: e la sua pazzia fu effetto, come è noto per tradizione, di eccessive fatiche intellettuali,

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