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ma vera e propria persona, in tutta la sua libertà, è Francesca. Beatrice è più e men che donna, quando dice di sè:

E chi mi vede e non se ne innamora
D'amor non averà mai intelletto.

Ciascuno presente in queste forme un senso ulteriore e più vasto e alto che non è il senso letterale. Beatrice qui è più che donna, è angeletta bella e nova, è il divino non umanato, l'ideale non ancora realizzato, la faccia o apparenza di tutto ciò che è bello e vero е buono, che attira a sè tutti quelli che hanno virtù d' intenderlo, che hanno intelletto d'amore. Ma appunto per questo Beatrice è men che donna, è il puro femminile, è il genere o il tipo, non l'individuo. Perciò voi potete contemplarla, adorarla, intenderla, spiegarvela, ma non l'amate, non la possedete con pura dilettazione estetica, anzi ne state a distanza. Il che spiega perchè Beatrice non ha potuto mai divenire popolare, ed è rimasta materia inesausta di dispute e di arzigogoli. Francesca al contrario acquistò una immensa popolarità, presso le nazioni anche meno colte, ed anche oggi in moltissimi ella è rimasta la sola figura sopravvivuta della Divina Commedia. Certo, non era questa l'intenzione di Dante, il quale, confondendo poesia e scienza, immaginava che dove fosse maggiore virtù e verità e perfezione, ivi fosse maggiore poesia, e la cosa è tutta al rovescio, perchè la scienza poggia verso l'astratto, l'idea come idea, e l'arte ha per obbiettivo il concreto, la forma, l'idea calata e dimenticata nell'immagine. La scienza è il genere e la specie; l'arte è l'individuo o la persona, e più vi scostate dall'individuo, più sottilizzate e scorporate, e più vi allontanate dall'arte.

Francesca è donna e non altro che donna, ed è una compiuta persona poetica, di una chiarezza omerica. Certo,

essa è ideale, ma non è l'ideale di qualcos'altro, è l'ideale di sè stessa, ed è ideale compiutamente realizzato, con una ricchezza di determinazioni che gli dànno tutta la simulazione di un individuo. I suoi lineamenti si trovano già in tutti i concetti della donna prevalenti nelle poesie di quel tempo, amore, gentilezza, purità, verecondia, leggiadria. Ma questi non sono qui epiteti, ma vere qualità di persona messe in azione, e perciò vive. Edipo inconsapevole, Dante ha qui ucciso la sfinge, ed è entrato nel pieno possesso della vita: quella donna che cerca in Paradiso, eccola qui, egli l'ha trovata nell' Inferno. Francesca non è il divino, ma l'umano e il terrestre, essere fragile, appassionato, capace di colpa e colpevole, e perciò in tale situazione che tutte le sue facoltà sono messe in movimento, con profondi contrasti che generano irresistibili emozioni. E questo è la vita.

Non ha Francesca alcuna qualità volgare o malvagia, come odio, o rancore, o dispetto, e neppure alcuna speciale qualità buona; sembra che nel suo animo non possa farsi adito altro sentimento che l'amore. Amore, Amore, Amore! Qui è la sua felicità e qui è la sua miseria. Nè ella se ne scusa, adducendo l'inganno in che fu tratta o altre circostanze. La sua parola è di una sincerità formidabile. Mi amò, ed io l'amai; ecco tutto. Nella sua mente ci sta che è impossibile che la cosa andasse altrimenti, e che Amore è una forza a cui non si può resistere. Questa onnipotenza e fatalità della passione che s'impadronisce di tutta l'anima e la tira verso l'amato nella piena consapevolezza della colpa è l'alto motivo su cui si svolge tutto il carattere. Appunto perchè amore è rappresentato come una forza straniera all'anima e irrepugnabile, qui hai fiacchezza, non depravazione. Francesca è rimasta il tipo onde sono uscite le più care creature della fantasia moderna: esseri delicati, in cui niente è che resiste e reagisca, fragili fiori a cui ogni leve sof

fio è mortale, e che si rassomigliano tutte per una comune natura. Gittate in un mondo che non comprendono e da cui non sono comprese, tu le vedi, come Dante le rappresenta, di qua, di là, di su, di giù, menate dall'onda della loro passione, nè possiamo senza strazio vederle nelle tragedie accostarsi più e più, ridenti e spensierate, a quell'abisso che elleno medesime si scavano, e dove va a sprofondare, prima quasi ancora che sia gustata la vita, tanta gioventù e bellezza. Qui è la tragedia della donna, variata da mille incidenti, ma con lo stesso fondo. Ofelia, Giulietta, Clara, Tecla, Margherita, Francesca sono parenti, tutte hanno sulla fronte lo stesso destino. L'uomo nella sua lotta resiste, e vinto anche, l'anima rimane indomata e ribelle: il suo tipo è Prometeo. L'uomo che resista e vinca, può in certi casi essere un personaggio poetico; ma l'aureola della donna è la sua fiacchezza; nè moralista otterrà mai che la donna invasa e signoreggiata dalla passione, ove dalla lotta esca vincitrice, sia altro mai che un personaggio inestetico, virtuoso, rispettabile, ma inestetico. La poesia della donna è l'esser vinta, invano ripugnante contro quella ferrata necessità che Dante ha espressa con rara energia nella frase: Amore a nullo amato amar perdona. Ma contrastando e soggiacendo ella serba immacolata l'anima, quel non so che molle, puro, verecondo e delicato, che è il femminile, l'essere gentile e puro. La donna depravata dalla passione è un essere contro natura, perciò straniero a noi e di nessuno interesse. Ma la donna che nella fiacchezza e miseria della lotta serba inviolate le qualità essenziali dell'essere femminile, la purità, la verecondia, la gentilezza, la squisita delicatezza de' sentimenti, poniamo anche colpevole, questa donna sentiamo che fa parte di noi, della comune natura e desta il più alto interesse, e cava lacrime dall'occhio dell'uomo, e lo fa cadere come corpo morto. Francesca niente dissimula,

niente ricopre. Confessa con una perfetta candidezza il suo amore; nè se ne duole, nè se ne pente, nè cerca circostanze attenuanti e non si pone ad argomentare contro di Dio. Paolo mi ha amata, perchè io era bella, ed io l'ho amato, perchè mi compiaceva d'essere amata, e sentivo piacere del piacere di lui. Sono tali cose che le donne volgari non sogliono confessare neppure all'orecchio. Chiama bella persona quello di che s' invaghi Paolo; chiama piacere il sentimento che ancora non l'abbandona; e quando Paolo le baciò la bocca tutto tremante, certo la carne di Paolo non tremava per paura. Qui hai propria e vera passione, desiderio intenso e pieno di voluttà. Ma insieme con questo trovi un sentimento che purifica e un pudore che rivergina: talchè a tanta gentilezza di linguaggio mal sai discernère se hai innanzi la colpevole Francesca o l'innocente Giulietta. Ci è qui entro un'aura di tenerezza e di dolcezza che alita per tutto il Canto, una delicatezza di sentimenti squisita, ed una cotal morbidezza e direi quasi mollezza femminile in che è l'incanto di queste nature, e che si sente così bene nel verso:

Farò come colui che piange e dice

cosi simile di senso, ma così diverso di accento dall'altro:

Parlare e lagrimar vedra' mi insieme.

Un minimo atto di bontà che passa inosservato per gli uomini volgari, è un tesoro per le anime delicate. Infine che cosa avea detto Dante?

O anime affannate,

Venite a noi parlar, s'altri nol niega.

Un interprete si maraviglia che Dante non li abbia pregati per quell'amor ch'ei mena, come avea consigliato

Virgilio, ed un traduttore latino di Dante, un tal d'Aquino, lo corregge appunto come vorrebbe l'interprete. Che cosa è quell'interprete? che cosa è questo traduttore? Sono orecchi sordi, accessibili solo al rombo del cannone. La sola parola affannate basta a Francesca da Rimini: è un grido affettuoso, una voce viva di pietà che giunge al suo orecchio nel regno dove la pietà è morta, e nella prima impressione il suo primo pensiero è di pregare Dio, come solea fare in terra, per l'Uomo che ha pietà del suo mal perverso. E le esce di bocca la preghiera, condizionata con un se, congiungendovisi immediatamente la coscienza dell' Inferno, e come Dio non è più il suo amico, ed ella non ha il dritto di volgere più a Lui la preghiera.

Se fosse amico il Re dell'universo,

Noi pregheremmo lui per la tua pace,
Poi che hai pietà del nostro mal perverso.

ma

Questa preghiera condizionata, che dal fondo dell'inferno manda a Dio un'anima condannata, è uno de' sentimenti più fini e delicati e gentili, colto dal vero. Non c'è la preghiera, ma c'è l'intenzione; ci è terra e inferno mescolati nell'anima di Francesca; una intenzione pia con linguaggio ed abitudine di persona ancor viva, ma che non giunge ad essere preghiera perchè accompagnata con la coscienza dello stato presente. Un poeta moderno avrebbe analizzato quello che qui è un solo momento complesso e immediato. Avrebbe rappresentata Francesca in un momento d'oblio, viva innanzi a persona viva, e le avrebbe interrotta in bocca la preghiera con un ahimè, che dissi! ec., con un rapido ritorno su di sè stessa, che sarebbe un colpo di scena assai patetico e di sicuro effetto. E ciò facendo sarebbe stato critico e non poeta, avrebbe analizzato due movimenti interni e contrarii che qui si

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