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LE NUOVE CANZONI DI GIACOMO LEOPARDI

Nel 1824 comparve un volume che conteneva dieci canzoni di Giacomo Leopardi, tre già pubblicate, e sette nuove. E nuove sono non solo per ragion di tempo, ma per la sostanza e la forma; sicchè si possono qualificare la sua seconda maniera.

Queste canzoni nuove sono: 1o A sua sorella Paolina; 2o A un vincitore nel pallone; 3o Bruto minore; 4o Saffo; 5o Alla Primavera o Delle favole antiche; 6o Inno a' Patriarchi; 70 Alla mia Donna.

In una lettera al Brighenti del 21 novembre 1823 vien fuori il progetto di metterle a stampa; ond'è che a quel tempo erano già scritte e pronte. E poichè la prima fu scritta in occasione del matrimonio della sorella Paolina da lui annunziato al Giordani il 13 luglio 1821, è chiaro che queste canzoni furono composte in quello spazio di tempo dal 1821 al 1823.

In questo intervallo ebbe luogo ancora il suo viaggio a Roma, dove dimorò un cinque mesi. Ma non è indizio che colà avesse scritta alcuna di queste canzoni; anzi la natura delle sue occupazioni e delle sue impressioni in quella città non ce lo può far credere. È quasi certezza che tutte e sette queste canzoni furono il mesto frutto della sua solitudine in Recanati.

Forse non gli fu tanto difficile a scriverle, quanto a pubblicarle. Una curiosa storia questa, e molto istruttiva, anche pei tempi nostri. Era in Bologna l'avvocato Bri

ghenti: un suo intimo e molto brav' omo, che gli voleva un gran bene, e stimava assai il suo ingegno e il suo carattere. Giacomo meritava amici così fatti, perchè pochi hanno avuto così vivo e schietto il sentimento dell' amicizia. Giordani, Niebhur, Bunsen, Brighenti, Tommasini, Pepoli, Capponi, Colletta, furono amici, di cui ciascuno si può gloriare. Aveva allora venticinque anni, era stato solo a Roma e per pochi mesi, non aveva visto del mondo altro che Recanati, gli pesava la sua solitudine e la sua oscurità. Stendere il suo nome, vedersi stampato, non era poi un desiderio strano in un uomo che aveva tanta coscienza di sè, vivente in ispirito tra vasti orizzonti, e dannato dalla sorte in cosi piccolo spazio. Se ne aperse col suo Brighenti, che gli trovò subito un editore. Cominciò la quistione solita de' quattrini, e il buon Brighenti aggiustò tutto per quaranta scudi, secondo il desiderio dell'Autore. Quaranta scudi ben inteso per la spesa. della stampa e non per il guadagno dello scrittore, chè anche oggi un guadagno dalla stampa è o nullo o assai magro. Il 5 dicembre Leopardi scrive al Brighenti minute istruzioni per l'esatta correzione del testo. Il 5 marzo dell'anno appresso il manoscritto era già nelle mani del Brighenti, pregato di non mostrarlo a nessuno. Sembrava tutto fatto, ma ecco nuovi indugi. Leopardi voleva lui vedere i fogli per la correzione, e ci stava molto, perchè era minuto sino nei più piccoli particolari della composizione e di difficile contentatura. Nello stesso giorno che scrive di questo al Brighenti, scriveva così al cugino Melchiorri, un dilettante di versi e che chiedeva versi a lui: << Nello scrivere non ho mai seguito altro che una ispirazione o una frenesia..... e se l'ispirazione non mi nasce da sè, più facilmente uscirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello ». E non gli basta la prima ispirazione, ma formato subito il disegno e la distribuzione, attende un altro momento di vena per la compo

sizione ordinariamente di là a qualche mese. Un uomo così minuto e coscienzioso non poteva lasciare la correzione de' suoi scritti a discrezione altrui, massime in Italia, dove la scorrezione della stampa non fa più vergogna a nessuno. A quel tempo le comunicazioni erano lente e rare, e Leopardi dovè rassegnarsi, ed avere anche lui il suo copioso errata-corrige. Il 3 aprile non ci siamo ancora, nuova difficoltà. I Revisori non vogliono dar la licenza; l'avvocato Brighenti vi perde la sua rettorica, perchè i teologi sono una gente cosi ostinata, come le donne. Leopardi che non era un avvocato, ma un poeta, e come diceva suo padre, ancora un fanciullo, a stento potè contenere la sua indignazione. «Io non domando licenza a' frati, quando penso, nè quando scrivo; e da questo viene che quando poi voglio stampare, i frati non mi danno licenza di farlo ». I signori teologi passavano tutto, ma non potevano ingoiarsi la canzone di Bruto, un repubblicano, i cui elogi offendevano i monarchi, e stimavano una bestemmia quel chiamare la virtù cosa vana. Il buon Leopardi entra in polemica, e << non comprendo come ci entrano i monarchi, » e «io dico della virtù umana e non delle virtù teologali ». Fra il sì degli uni e il no dell'altro non ci sarebbè stata conclusione, se l'avvocato non avesse trovato il mezzo termine, cosa per cui va famoso il sottile ingegno italiano. E si venne a questo compromesso, che in un « a chi legge » fosse dichiarato come l'Autore inculca l'amore verso la patria, e non la disubbidienza, ma la probità e la nobiltà così de' pensieri come delle opere: al quale effetto riguardano pure le istituzioni de' nostri Governi; e però dovunque i soggetti non si curano della patria loro, quivi non corrispondono all'intento dei loro Principi. Questo fu il lascia-passare de' teologi. Finalmente, come Dio volle, il 23 agosto gli giunsero i primi fogli per farvi l' errata-corrige, indirizzati a un

DE SANCTIS - Nuovi Saggi Critici.

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nome finto, un signor Alberto Popoli, perchè il povero Leopardi temeva più dell'occhio paterno che di tutt'i teologi. Il 3 settembre la stampa è a termine e si pensa alla distribuzione delle copie. Sicchè tra progetto, difficoltà ed esecuzione corse poco meno che un anno.

Almeno ci fosse stata una rapida pubblicità. Oimè ! questo era ed è ancora un altro guaio in Italia. Perchè un libro sia noto dall' un capo all'altro, ce ne vuole. Più difficile ancora è averne un giudizio che valga. A Bologna stessa crede l'Autore che non ne avrạn fatto caso nessuno, o poco di bene ne avran detto.

Pure dovette essere a lui una grande soddisfazione quella stampa in buona carta, in caratteri nitidi, passabilmente corretta, e ne esprime la sua gratitudine al Brighenti con sincera effusione. A sentirlo, virtù è vanità, gloria è vanità. Pure gli piaceva la lode, si sentiva poco noto, desiderava si parlasse di lui, s'inalberava contro i pedanti. Leggete le sue Annotazioni alle Canzoni, e vedrete che stizza di certi giudizii, che aria di superiorità, come mena il flagello. Sotto al filosofo c'era il cuore di un uomo. E questo appunto ce lo rende interessante e ci spiega il poeta. Altro è l'intendere, altro è il volere. Poteva credere alla vanità della vita, ma in certi momenti felici voleva vivere. E fu un momento felice questo. Si sente nel cuore non so che di nuovo, la mente si dispone a certi sentimenti ch'egli chiama romanzeschi e sono i sentimenti della sua prima giovinezza. Il 22 novembre, fatta la stampa, scrive al Brighenti : << Molto mi compiaccio d'intendere i vostri sentimenti romanzeschi, ne' quali io vi avrei tenuto compagnia qualche anno fa, ed ora non desidero di non tornare ancora a partecipare, perchè pare che la mia mente vi si disponga di nuovo». E cosa era dunque avvenuto? La stampa delle sue canzoni. Mi par di vedere quella faccia scolorata illuminarsi innanzi a quel volume, assisto alla sua emozione,

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rileggendo sè stesso e trovandosi più bello in quei caratteri nitidi. Ci è qui di quell'ingenuo e di quel fanciullesco, che è la grazia in quella grandezza.

Gittiamo un'occhiata su questo volume tanto atteso. Delle dieci canzoni le tre prime, la canzone d'Italia, la canzone di Dante, e l'altra al Mai, sono le patriottiche, scritte nella prima giovinezza, tra reminiscenze classiche ed entusiasmi da scuola, quando il core era caldo e la speranza viva. C'è lì dentro un' eco inconsapevole di quel movimento settario e rivoluzionario che agitava mezza Italia. Ci si sente una fiamma di gioventù, tra lampi di tenerezza e di malinconia. Se le due prime sono quasi vuote generalità, nell'ultima, quando aveva già ventidue anni, apparisce una guardatura originale nel mondo. Fra i lamenti e sdegni soliti del mondo corrotto e dell' Italia infelice comparisce una serie d'idee positive sul mondo, che sono un modo di vedere suo. L'originalità di queste canzoni è un flutto di sentimenti contradittorii, entusiasmo e scetticismo, furori e tenerezze, speranze e disperazioni. Ci si vede un nuovo uomo, che si sta formando sulle rovine dell'antico, e ci si sente l'attrito della lotta.

Venne la catastrofe del ventuno e poi la reazione. E come suole avvenire, cominciarono le recriminazioni contro i predicatori di rivoluzione e di martirio. Entrarono idee più temperate. Giordani stesso, grande aizzatore di Leopardi, non fida oramai più che nella lenta opera dell'educazione nazionale, e cosi ne scrive al suo giovane amico. Il quale piglia fuoco, fa progetti varii a sprone della neghittosa Italia, e ritrova la sua ispirazione e si fa banditore di educazione nazionale a uomini e donne, a Paolina e al Vincitore nel pallone. Nascono due canzoni, che si possono chiamare uno strascico delle prime, le ul. time voci del patriottismo. Ma se pel contenuto si rassomigliano alle prime, e sono come un ulteriore e logico sviluppo di quelle, per la forma sono già altra cosa, sono

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